[Questo articolo contiene spoiler sulla pellicola in oggetto]

«Finché il film appartiene alla sfera immaginativa, alla fantasia, quando ci penso in ufficio, per la strada, o anche quando lo preparo, questo abitatore, che conosco da sempre, non c’è; subentra, sia pure con gradualità, nel momento in cui comincio a girare un film».
-Federico Fellini

Creativo, visionario e sognatore sono alcuni aggettivi tipicamente associati alla figura di Federico Fellini. Malgrado si pensi immediatamente alla rivoluzione attuata da Fellini in ambito di sperimentazione del linguaggio e del mezzo cinematografico, egli si è formato durante il neorealismo, un periodo che a prima vista sembra quasi in contrasto col suo Cinema dei Sogni. Apprendista di Roberto Rossellini, Fellini era già all’epoca fortemente influenzato dall’estetica della poetica neorealista e anche dall’utilizzo di attori spesso non professionisti, utilizzati per garantire alla pellicola quel tratto di indelebile autenticità che fu da lui ricercata in numerosi film quali, ad esempio, 8 ½ e La Strada. Tutto questo potrebbe risultare paradossale dal momento che i suoi film sono passati alla storia per essere uno dei massimi esempi di artificialità cinematografica, non solo per i soggetti stralunati o per l’impiego di set interamente ricostruiti in studio, ma anche per la scelta di alcuni tra i più grandi divi del cinema italiano e internazionale. Ciononostante, per il primo periodo della sua carriera il neorealismo influì su di lui, memore dell’esperienza di Roma, città aperta (1945) e Paisà (1946), ai quali il giovane Federico collaborò alla stesura della sceneggiatura.  Per la creazione dei suoi personaggi non fu unicamente essenziale il mestiere imparato accanto a Rossellini, ma anche la sua carriera da vignettista e l’amore per le caricature e più in generale per l’arte. Le inquadrature dei suoi film trovavano spesso un corrispettivo fumettistico, tanto era forte in lui il linguaggio dell’immagine. Accanto a questa predisposizione per il disegno vi era però un’attenzione al mondo dei sogni, quasi fosse la sua stessa vita onirica a confezionare per lui i soggetti dei film. Molti di questi si trovano all’interno del “Libro dei sogni”, un diario personale in cui Fellini appuntava i propri sogni trasformandoli in strisce fumettistiche o caricature e accompagnandoli a brevi testi o pensieri.  

La genesi de La Strada

Stabilito questo forte legame tra l’arte del fumetto, il cinema e l’onirismo appare più semplice comprendere la genesi de La Strada (1954), suo primo grande successo internazionale nonché vincitore di un premio Oscar al miglior film in lingua straniera. Accanto all’incontro fortuito di due girovaghi sul ciglio di una strada, la matrice originaria del film è da ricercare all’interno dell’immaginazione del regista stesso: Gelsomina e Zampanò, i due iconici protagonisti, gli si sono presentati quasi, se non propriamente, in sogno. Nel libro “L’arte della visione”, Fellini racconta che: «all’inizio della Strada c’era solo un sentimento confuso del film, una nota sospesa che mi procurava soltanto un’indefinita malinconia. La storia nacque con facilità: i personaggi apparivano spontaneamente, se ne tiravano dietro altri, come se il film fosse pronto da tempo e aspettasse solo di essere ritrovato. Cos’è che me lo ha fatto ritrovare? Prima di tutto, credo, Giulietta. Così, dunque, mi apparve Gelsomina: nelle vesti di un clown, e subito accanto a lei, per contrasto, un’ombra minacciosa e buia, Zampanò». Insieme a questa epifania, fu essenziale l’intervento di Ennio Flaiano e Tullio Pinelli per la stesura della sceneggiatura che ebbe una gestazione piuttosto lunga, iniziata nel 1951 e terminata nel 1953. Oltre a tali problematiche, Fellini dovette fronteggiare numerose difficoltà, causate dal fatto che nessuno si mostrava disposto a produrre un’opera simile. Per tale ragione dovette rimandare La Strada più volte finché, dopo I Vitelloni (1953), non volle più a sentire ragioni e riuscì a convincere Dino De Laurentiis a produrlo. La firma di Fellini e l’esperienza neorealista si notano anche nella scelta di attori non conosciuti fiancheggiati da altri più noti: Giulietta Masina venne, infatti, affiancata a due grandi attori hollywoodiani, Anthony Quinn e Richard Basehart, i quali dovettero adattarsi alle disponibilità di un budget estremamente limitato. Nonostante ciò Quinn, pur essendo abituato alla maestosità dei set di Hollywood, loderà sempre il lavoro svolto su quel set e la bravura del regista e della sua compagna di vita. 

La Strada permise a Fellini di incontrare il maestro Jean Renoir, che gli strinse la mano, baciò quella di Giulietta e si congratulò con lui manifestando un amore immenso per l’opera.
Come si è intuito, il lavoro creativo alla base di molti progetti felliniani era decisamente particolare.  Quando le immagini oniriche si presentavano a Fellini spesso divenivano disegno, poi sceneggiatura e infine volti e inquadrature. Reduce dalla deformazione del mestiere di caricaturista, Fellini ha sempre mostrato una passione per i volti, che si concretizzava in ore infinite trascorse a passare in rassegna migliaia di fotografie da selezionare per rimpolpare il casting o addirittura la schiera di figuranti. Successivamente tali fotografie venivano raggruppate con schemi fantasiosi e poi confrontate con schizzi e disegni realizzati di sua mano. Come scrive Fellini in un’intervista:
«Se il cinema deve assomigliare per forza a qualche cosa, direi che più che a ogni altra cosa assomiglia alla pittura, e forse è proprio nei confronti della pittura, più che della letteratura, che il cinema ha un debito di gratitudine e un rapporto di dipendenza. Come la pittura, anche il cinema è immagine. La pittura è luce, e il cinema lo si fa con la luce». In particolare, La Strada non è un film composto esclusivamente di luce, ma anche da volti, primo tra tutti quello della piccola Gelsomina.  Nonostante le prime rimostranze da parte dei produttori riguardo la scelta di Giulietta per il ruolo principale, Fellini non volle sentire ragioni poiché, per lui, Gelsomina aveva un volto: quello timido di sua moglie. In questa, come in altre circostanze, Fellini aveva colto nel segno poiché quel viso, incorniciato da un paio di occhioni tristi, sarebbe diventato una delle immagini iconiche della sua carriera.

La bombetta di Gelsomina o di Charlot?

«Credo che il film l’ho fatto perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina un po’ matta e un po’ santa, di quell’arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba».
-Federico Fellini

Gelsomina è stata spesso associata alla figura immortale di Charlot per la sua espressività spiccatamente clownesca. La somiglianza risulta lampante ad un primo sguardo, tuttavia sono numerose le differenze tra i due. Entrambi sono due maschere tragiche, ma la comicità che suscita Charlot è ben lontana dal personaggio di Gelsomina che trasmette, invece, una malinconia drammatica tale da scatenare in noi un sentimento di umana pietà e tenerezza. Alcuni punti in comune tra i due si possono riscontrare nella relazione nei confronti del mondo esterno e anche nella loro collocazione all’interno di un ambiente “da strada”. Entrambi, infatti, sono personaggi che vivono in un mondo difficile e spesso ostile, ma riescono a non contaminarsi grazie alla loro natura gentile e innocente. Gelsomina non è, tuttavia, una figura comica come Charlot poiché porta sulle proprie spalle il peso di continui abbandoni, vessazioni e ingiustizie. Malgrado ciò, è anche protagonista di alcuni momenti buffi che sono vere e proprie citazioni al celebre vagabondo di Chaplin. In particolare, si ricordi la scena in cui Zampanò (Anthony Quinn) le prova alcuni vestiti per costruirle il personaggio da impiegare durante le sue performance da strada. Quando Zampanò le mette la bombetta sul capo Gelsomina diviene Charlot per un istante dilettandosi nel celebre movimento gongolante del vagabondo. Gelsomina, infatti, parla poco e niente e utilizza principalmente il proprio corpo per comunicare le proprie emozioni. Si tratta di una lezione tanto cara alla slapstick comedy americana, di cui Chaplin e Keaton furono i massimi esponenti. Ciononostante, mentre i personaggi di questi due grandi maestri del cinema si avvalevano di un corpo di gomma plasmabile a loro piacere, Giulietta Masina attua un lavoro finalizzato ad incanalare la propria espressività nel volto e in particolare nello sguardo. Gli occhi vulnerabili di Gelsomina sono un’arma potente, uno specchio attuo a svelare il cinismo del mondo circostante e in cui gli altri personaggi possono specchiarsi in modo implacabile. Quei due grandi occhi sono il massimo esempio dell’amore che Fellini nutriva per i visi.

Gelsomina e Zampanò: ritratto di personaggi

Numerosi furono i riferimenti impiegati per la costruzione de La Strada che si possono riscontrare nel mondo del fumetto, nell’estetica neorealista, nell’immaginario del circo, dei girovaghi e dei cavalieri erranti e, infine, nel cinema di Chaplin. Gelsomina, in particolare, è un microcosmo che possiede in sé elementi provenienti da tutto questo. La storia di Gelsomina è decisamente triste e lei ci appare sin da subito nelle vesti di una martire: venduta dalla famiglia a Zampanò ci guida, attraverso i suoi occhi, in un mondo disgraziato e ignorante, in cui le ingiustizie regnano sovrane. Una società maschilista, insensibile e crudele che schiaccia tutti coloro ritenuti deboli e inermi. Gelsomina fa parte di quest’ultima categoria nonostante cerchi di ottenere la libertà e persino nel gesto estremo finale non rinuncia all’ ingenuità di chi si appresta a guardare il mondo con gli occhi di un bambino.  A tal proposito, Gelsomina è l’emblema dell’innocenza incorrotta, anzi ne è il concetto stesso in quanto priva di sesso e di età. In questo senso, i due protagonisti sono costruiti per antitesi anche a livello puramente visivo: la figura minuta di Gelsomina indossa maglietta a righe rosse e bianche decisamente vissuta, talvolta un giaccone scuro, pantaloni e scarponi e l’immancabile bombetta nera da cui non si separa mai. Durante gli spettacoli il suo volto è adornato da un trucco da clown semplice ma reso ancor più emblematico dalla tromba e dal tamburello con cui batte il ritmo per l’esibizione del suo “padrone”; Zampanò, invece, è un maciste dalla forza immensa e animalesca. Nella vita di tutti giorni egli indossa abiti da lavoro senza identità, mentre durante le performance avviene la sua trasformazione: il suo personaggio è vestito solo un paio di calzoni sbrindellati e larghi, cinture e borchie ai polsi e alla vita, mentre ai piedi spesso non indossa scarpe. Nonostante insegni a Gelsomina il mestiere circense consegnandole la bombetta e il tamburello al grido di “E’ arrivato Zampanò!”, egli altro non è che un prepotente nell’anima e nel corpo. 
Se lei è una sognatrice sensibile e attenta che si spinge oltre la semplice materialità delle cose ponendosi continue domande, lui al contrario è estremamente pragmatico, bestiale nei modi di vivere e di rapportarsi agli altri. Zampanò è un San Tommaso che se non tocca non crede e se non vede non si accorge di ciò che lo circonda.  Oltre a ciò, il tema delle catene è essenziale per definire il loro rapporto: se Zampanò nelle sue performance utilizza la sua forza per liberarsi dai ferri ai polsi, nella vita di tutti i giorni applica quelle stesse catene alla povera Gelsomina che non può né vuole liberarsene, succube dell’affetto che, nonostante tutto, nutre nei suoi confronti. Solo la morte può strapparla via dal suo destino di schiava accanto ad un uomo insensibile e incapace di esprimere sentimenti ed emozioni diverse dalla rabbia. L’unico momento in cui Zampanò sembra manifestare un attaccamento sincero nei confronti di Gelsomina è proprio quando viene a scoprire della sua malattia e della conseguente morte. In questo la figura di Gelsomina è accostabile a quella di una martire poiché il suo sacrificio e la sua umiltà sono riusciti ad ammorbidire un uomo che aveva dimenticato persino come piangere e sorridere.

«Ma se non ci stai te con lui, chi ci sta? Io so ‘gnorante, però ho letto qualche libro. Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì, per esempio».

 «Quale?».

 «Questo… uno qualunque. Ecco, anche questo serve a qualcosa, anche questo sassetto».

«E a cosa serve?».

«Serve… ma che ne so! Se lo sapessi sai chi sarei?».

«Chi?».

«Il Padreterno che sa tutto: quando nasci e quando muori. Non lo so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché se tutto è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle, almeno credo… e anche tu. Anche tu servi a qualcosa, con la tua testa di carciofo».

– Gelsomina e il Matto da “La Strada” (1956) di Federico Fellini

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Benedetta Lucidi,
Redattrice.