Dal 4 al 31 luglio 2024, Lucky Red riporta nelle sale italiane la rassegna Un mondo di sogni animati, dedicata allo Studio Ghibli, il celeberrimo studio d’animazione nipponico. Quest’anno, forte anche del successo planetario dell’ultima fatica di Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone (2024) – qui la nostra recensione – Lucky Red dedica la rassegna a uno dei massimi esponenti dell’animazione giapponese, nonché maestro di Miyazaki: Isao Takahata.
Fondatore, insieme a Miyazaki, Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma, dello Studio Ghibli, Takahata ha saputo rivoluzionare l’anime giapponese, lasciando un’impronta indelebile non solo nel paese del Sol Levante, ma anche nel mondo intero. Scomparso nel 2018, a seguito di un tumore ai polmoni, il cineasta nipponico ha ottenuto il plauso universale di critica e pubblico nel 1988 con lo straziante Una tomba per le lucciole, e ha realizzato, nel corso della sua sessantennale carriera, otto lungometraggi animati. Fra questi, Lucky Red ha scelto di riportare nelle sale, dal 25 al 31 luglio 2024, l’ultimo film dell’animatore, La storia della Principessa Splendente (2013).
Considerato il suo testamento spirituale, il lungometraggio, animato rigorosamente a mano, esplora la grande tradizione nipponica attraverso la rielaborazione dell’antico racconto popolare giapponese Taketori monogatari (it. Il racconto di un tagliabambù), scelta che enfatizza l’indissolubile legame di Takahata con la storia, la cultura e le tradizioni nipponiche.
Non sotto un cavolo, ma dentro il bambù
“Un giorno di primavera, un anziano tagliabambù trovò una minuscola creaturina dentro un fusto di bambù: colmo di stupore, l’anziano la portò alla moglie. Quando la creatura venne mostrata alla donna, essa si trasformò in una neonata. Allora i due anziani, che non avevano avuto la possibilità di avere figli quando erano più giovani, decisero di adottarla e di darle il nome di Principessa”: così inizia la storia della Principessa Splendente. Attraverso questo antico racconto nipponico – nel quale, tuttavia, riecheggiano topoi propri anche della tradizione occidentale – Isao Takahata costruisce una storia che, oltre a essere una riflessione sul patrimonio storico e culturale giapponese, è anche una storia di genitori e figli. Principessa viene cresciuta da un padre e da una madre che nel film non hanno nomi, e con essi instaura un rapporto di complicità fondato sull’affetto, sul rispetto reciproco e sull’amore tra chi tanto aveva desiderato un figlio e chi aveva bisogno di un genitore.
Questa relazione armonica – più profonda tra la madre e Principessa – trova una corrispondenza con il contesto ambientale in cui si sviluppa il primo atto del racconto: i genitori vivono in un’umile ma accogliente dimora nelle montagne, circondata dai prati infiniti e dalle foreste di bambù che offrono sostentamento ai due coniugi. Tuttavia, un mucchio di pepite d’oro e abiti preziosi, scoperti dall’anziano dentro un fusto di bambù, alterano l’idillio: questi, con il benestare della moglie, fa costruire un vero e proprio palazzo nella Capitale ove trasferirvisi con Principessa, al fine di far di lei una damigella, un membro dell’aristocrazia giapponese. Tale decisione comporta non solo il passaggio dal primo al secondo atto della storia, ma anche una metamorfosi dalle molteplici sfaccettature: l’alterazione del rapporto fra Principessa e i genitori, fra tutti. Il palazzo che l’anziano genitore fa ergere, dotato di numerose stanze e ambienti, crea un distacco tra gli anziani e Principessa, sia in termini emotivi che spaziali, a differenza della precedente abitazione nella quale i tre vivevano in una sola stanza. Nonostante l’iniziale gioia provata dalla protagonista, causata dalla possibilità di abitare in un sontuoso palazzo, all’entusiasmo consegue la malinconia delle monotone giornate ch’ella trascorre rinchiusa nelle mura dello stesso. La funzione educativa passa dalle mani dei genitori a quelle di Madama Sagami, donna irremovibile, dal comportamento posato e perennemente seria, la quale ha il compito di crescere Principessa per farne una dama della corte imperiale. Gli unici compiti che la giovane dovrebbe eseguire dovrebbero essere circoscritti alle lezioni di Madama Sagami: tali lezioni fungono non solo da pretesto per indagare le tradizioni della cultura nipponica, ma anche per metterne in risalto l’assurdità, incarnata dallo spirito ribelle di Principessa che (almeno in principio) trova disgustoso doversi tingere i denti di nero o noioso dover limitare l’uso di carta e inchiostro alla sola scrittura.
Una Principessa ribelle e le conseguenze dell’amore
La storia della Principessa Splendente è un racconto di formazione: è la storia di una creatura trovata all’interno di un gambo di bambù e cresciuta da due anziani senza figli. Nonostante il nome attribuitole implichi il rivestimento di un preciso ruolo nella società, nonché diritti e doveri, Principessa si presenta fin da subito come un animo ribelle, uno spirito libero come gli spazi naturali nei quali è cresciuta. Al fine di rappresentare al meglio il suo animo, Takahata indugia spesso in disegni che mostrano Principessa correre, saltare, urlare dalla gioia, mentre i vestiti che indossa sono agitati dal vento e dai movimenti generati dal suo corpo; i capelli, lunghi e neri, alimentano in particolar modo questo dinamismo che produce gioia nello spettatore.
Ma quando la famiglia si trasferisce a palazzo, l’animo di Principessa muta. Nonostante la ragazza sia ancora capace di provare quella gioia che aveva caratterizzato i suoi anni in montagna, ella entra in contatto con una parte di sé che non aveva mai considerato: una parte pregna di malinconia, di Sehnsucht verso i luoghi della propria infanzia, nonché di rabbia verso il ruolo che si ritrova a dover rivestire malgré elle. Takahata esprime questo malessere attraverso disegni che raffigurano quell’espressione seria che, giorno dopo giorno, trova spazio sul viso di Principessa. Ma il culmine di tale tumulto interiore si manifesta con la fuga (reale o immaginaria) della protagonista da palazzo. Al fine di rendere al meglio non solo la folle corsa verso la libertà, ma anche la rabbia esperita da Principessa, Takahata tramuta il tratto morbido della matita adoperato fino a quel momento in tratti violenti, in linee brevi che si sovrappongono in un tumulto di forme che incarnano la collera di Principessa.
Ma se la ragazza è costretta a confrontarsi con le giustizie, i dolori del mondo e a esperire un’insofferenza verso la propria condizione, Takahata ci insegna che, nonostante tutto, è possibile trovare nell’amore la propria pace interiore, la propria gioia che ci vien chiesto di reprimere giorno dopo giorno. Nella Storia della Principessa Splendente è il “fratellone” Sutemaru, un adolescente del villaggio nel quale la protagonista vive i primi anni della propria vita, a incarnare tale “rifugio dagli orrori del mondo”. Sutemaru è un giovane semplice che, proprio in virtù della sua semplicità d’animo, è amato da Principessa: durante una delle sue fughe da palazzo, i due giovani s’incontrano nuovamente, e un meraviglioso quanto emozionante (e simbolico) viaggio nel cielo azzurro consolida il sentimento reciproco.
L’eredità di Takahata
Chi vi scrive ha avuto il piacere (e la fortuna) di vedere La storia della Principessa Splendente nel lontano 2013, in sala. Al tempo, la sottoscritta aveva appena scoperto il magico mondo dello Studio Ghibli grazie a Si alza il vento (2013) di Hayao Miyazaki, uscito in Italia per soli tre giorni nel mese di settembre. Volle il caso che, pochi mesi dopo, venisse distribuito La storia della Principessa Splendente, più precisamente nel mese di novembre. Agli occhi di chi scrive, la differenza fra i due film era abissale: il primo era caratterizzato da colori brillanti, dallo stile proprio di Miyazaki che aveva imparato a conoscere grazie alla visione del Castello errante di Howl (2004) e della Città incantata (2001); il secondo era diverso, un film che a occhi meno esperti sembrava animato “semplicemente a matita”, le cui linee poco definite si mostravano apertamente sullo schermo, e i cui colori, seppur molteplici, esplodevano in misura minore rispetto ai film di Miyazaki.
Certo, una volta scoperta l’opera di Takahata, lo stile della Principessa Splendente non ci pare più come un’eccezione fine a sé stessa – soprattutto a fronte della visione del precedente I miei vicini Yamada (1999). Tuttavia, tale straniamento non è da ritenere, a detta di chi vi scrive, isolato al caso singolo. Spesso si tende a far coincidere lo “stile Studio Ghibli” con lo “stile Miyazaki”, e non senza qualche degna giustificazione, specialmente in virtù dei più recenti lungometraggi prodotti dallo studio d’animazione nipponico – basti pensare a La collina dei papaveri (G. Miyazaki, 2011) e a Quando c’era Marnie (H. Yonebayashi, 2014).
Ciononostante, rassegne come quella realizzata da Lucky Red consentono al pubblico italiano di scoprire (o continuare ad apprezzare) l’opera di un maestro quale è stato e sarà Isao Takahata, una delle colonne portanti dell’animazione nipponica e mondiale. Seppur autore di pochi lungometraggi, Takahata non è stato solo uno dei fondatori dell’amatissimo e osannato Studio Ghibli, ma ha saputo lasciare un segno indelebile nell’animazione, elevandola, al pari di chi si è sempre considerato suo discepolo – Hayao Miyazaki – a vera e propria forma d’arte.
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