Un’oscillazione tra il geniale e il disturbante è ciò che caratterizza “La pelle che abito”, l’opera di Pedro Almodòvar del 2011.
Ricco di riferimenti al mondo dell’arte, il film non soltanto lo richiama ma se ne avvale come elemento indissolubile della narrazione.

spoiler alert

Trama

Il racconto presentato mostra Berto, un chirurgo di eccezionale precisione, restare segnato dalla perdita della moglie, rimasta precedentemente sfigurata da ustioni. Il trauma della morte di lei porterà sua figlia ad avere problemi al punto da rendere necessario il ricovero in un istituto psichiatrico. Una condizione che culminerà con il suicidio della ragazza in seguito allo stupro da parte di un ragazzo ad una festa, proprio quando sembrava star recuperando il senno.
La volontà di vendicare sua figlia morta diverrà il motore delle azioni di Berto, che vorrà mettere lo stupratore nelle condizioni di chi invece subisce la violenza. Dopo averlo rapito effettuerà su di lui interventi per anni fino a renderlo completamente una donna.
Un confine labilissimo separa questa prima fase di operazioni ed esperimenti su quella che diverrà a tutti gli effetti una sua creatura, da un secondo momento, in cui andando ben oltre i limiti della bioetica già da tempo valicati Berto darà a Vicente/Vera il volto di sua moglie prima di sfigurarsi.

Un atto di perversione, sintomo della perdita di vista del suo obiettivo principale. Il fatto che attribuisca al violentatore di sua figlia, causa del suo suicidio, il volto della persona che aveva amato, mostra come non si tratti più ormai di una vendetta ma della ri-creazione di ciò che aveva perduto, rendendolo intimamente proprio.

L’importanza dell’arte

L’arte del guardare domina gli sviluppi narrativi.

Con un monitor Berto tiene rigorosamente sotto controllo Vera nella stanza in cui è rinchiusa: la vede disegnare, praticare yoga, leggere. Un richiamo esplicito alla Venere di Urbino di Tiziano emerge nella costruzione di molte inquadrature, ed è confermato dai diversi dipinti del tema della Venere pudica affissi nella casa.

Il chirurgo osserva la sua creatura proprio come lo spettatore maschio ammirava la dea dell’amore e della bellezza offrirsi a lui sensualmente pur mantenendo un certo decoro e dolcezza. Vera giungerà ad essere talmente traviata dall’uomo che l’aveva strappata alla sua precedente vita da pregarlo di iniziare un rapporto, poiché terminati gli esperimenti, lei non era “nient’altro che sua. Una sua creatura”.

La Venere di Urbino, Tiziano

La Venere di Urbino, Tiziano

Scena del film

Una scena del film in cui la posizione del corpo della protagonista si rifà al dipinto di Tiziano. Interessante anche la contrapposizione tra la posizione dei corpi dell’osservatore e dell’osservata.

L’arte come rifugio

In una situazione traumatica di tale portata, la più grande violenza corporea possibile, Vicente/Vera sente i confini di sé completamente trasgrediti. Uno sconosciuto si è appropriato del suo corpo e senza consenso ne ha cambiato il genere, causando chiaramente una serie di conseguenze anche sul piano psicologico. A cosa fare riferimento allora quando ogni certezza su se stessi viene meno?

Importante è per Vera la scoperta dello yoga su un canale televisivo. Con la meditazione cerca di raggiungere un posto dove non vi sia nessun altro, la sua mente. Ma è la mente di un maschio o di una femmina? Come si percepisce adesso Vera?

La vediamo nel corso della sua prigionia sfogliare un libro sull’artista francese attiva negli anni ’60 Louise Bourgeois.

l’artista francese attiva negli anni ’60 Louise Bourgeois.

l’artista francese Louise Bourgeois.

L’arte di quest’ultima si basa, per via di traumi a causa di suo padre, sui concetti di danno e riparazione, certamente fondamentali nella vicenda narrata da Almodòvar.

Le sue prime opere sono visibili nel film, presentate come create da Vera: si tratta delle Donne case, che rappresentano il nudo femminile come esposto, spesso violato, con una casa al posto della testa: l’unico rifugio quando il corpo è in balia delle violenze altrui è proprio la mente, lo stesso in cui si nasconde la ragazza intrappolata, meditando.

Le “donne case” di Louise Bourgeois.

Le “donne case” riproposte da Vera, protagonista del film.

Altre delle opere di Louise, come La fanciulla, mostrano l’ambivalenza dei generi maschile e femminile.

Sono presenti nella sua produzione anche statuette compatte e raggruppate. Ricordiamo Distruzione del padre, in cui viene ripreso il tema del rifugio ma trasfigurato in aggressione, la vittima diviene il cacciatore.

Significativo è allora il fatto che Vera riproduca anche sculture molto simili a Distruzione del padre, considerando che arriverà a uccidere il suo genitore “artificiale” proprio nel letto di lui, in quello che sarebbe dovuto essere un suo rifugio ma, proprio come nell’arte appena analizzata, vi è un ribaltamento dei termini di luogo-protezione e luogo-aggressione.

In grado tanto di affascinare quanto di turbare, “La pelle che abito” riesce quindi in molti modi a rappresentare lo sconvolgimento interiore della protagonista, nel momento in cui diventa vittima innocente e non più meritevole di punizione. Un film minuziosamente equilibrato ma allo stesso tempo diretto e cruento, certamente espressione di genio.

Questo articolo è stato scritto da:

Gaia Fanelli, Redattrice