Nell’ambito della nostra Settimana a Tema Noir andiamo a riscoprire un capolavoro anni 50, il cui tratto più importante risiede nella costruzione di un personaggio malvagio tra i più perversi della storia del cinema.

Il film The Night of the Hunter, in italiano La morte corre sul fiume, esce nel 1955 per la regia di Charles Laughton, attore britannico assai eclettico della prima metà del Novecento, Premio Oscar al Miglior Attore Protagonista per Enrico VIII di Alexander Korda nel 1934, qui alla sua unica prova dietro la macchina da presa, nella duplice veste di regista e produttore. Il risultato poco soddisfacente al botteghino del film (unito a qualche scellerata recensione negativa) infatti, non permise a Laughton di intraprendere altri progetti prima della sua morte avvenuta nel 1962. Nonostante ciò la pellicola, basata sul romanzo omonimo di Dave Grubbs del 1953, è riuscito a lasciare la sua impronta nella storia e a buona ragione è considerabile come un capolavoro assoluto del cinema noir e come uno dei film più innovativi del periodo Classico di Hollywood.

West Virginia, anni ’30. Il sedicente Reverendo Harry Powell, un misterioso e inquietante criminale, ottiene con l’inganno un’informazione dal suo compagno di cella Ben Harper, un uomo condannato a morte per rapina a mano armata con annesso omicidio. Nel sonno infatti Harper pronuncia una citazione della Bibbia che permette a Powell di scoprire l’unica persona a conoscenza del nascondiglio del frutto di una rapina, cioè il piccolo John, suo figlio undicenne. Dopo essere uscito di galera, Powell decide di avvicinare e sedurre la vedova Harper per trovare la refurtiva.

L’appartenenza o meno del film al genere noir è oggetto di discussione molto frequente tra gli addetti ai lavori. Sono infatti innegabili numerose contaminazioni: l’antefatto è quasi da gangster movie (l’ambientazione, quell’America rurale negli anni 30 della Grande Depressione è la stessa che ha generato figure come Bonnie e Clyde), il rapporto tra i figli di Harper e il nuovo “patrigno” ha sapore di thriller horror. La forte presenza di simbologia biblica, così come la questione del plagio psicologico esercitato da Powell sulla nuova moglie, saranno seminali per l’horror dei decenni successivi. La fuga lungo il fiume dei due bambini, alterna momenti tipicamente western ad altri avventurosi o addirittura fiabeschi (anche se dolcezza e serenità sono due emozioni totalmente assenti in questo film) diventando quasi un film di formazione. Tuttavia la chiave della lettura noir del film sta proprio nell’analisi del suo antagonista, tanto perverso quanto inquietante, interpretato da un magnifico Robert Mitchum, volto stranoto nel genere, qui probabilmente nella prova più convincente e iconica della carriera.

L’iconografia del personaggio di Powell è perfetta ed entra nella storia del cinema della porta principale. La sua figura affascinante e melliflua raccolta in un abito talare nero e mortifero, la sua voce imponente e i suoi modi eleganti contribuiscono a definire un personaggio ricco di fascino e in grado di ispirare grande fiducia. Sconvolgenti sono, infatti, le scene in cui la sua maschera cade e lascia emergere la sua vera personalità, avida e violenta, a tratti mostruosa, pronta a guadagnare profitto personale ai danni di un’intera famiglia. Lo spettatore deduce fin dal primo incontro che quello da chierico è solo un costume, la gimmick che Powell ha scelto come veicolo per i suoi propositi criminali, e questo lo si evince fin dal suo ingresso in scena:

“Chi sarà la prossima, Signore? Un’altra vedova? Quante sono state, sei… o dodici? Non ricordo bene… Ho fiducia in te, Signore: tu non mi abbandoni, non mi fai mancare i mezzi per continuare la mia missione… Quante vedovelle con un bel gruzzolo nascosto nella calza… Ah, Signore, sono stanco: alle volte ho paura che tu non mi capisca. Non ti importa se uccido, vero? La Bibbia è piena di uccisioni, ma ci sono cose che tu odi, Signore: la corruzione, la lascivia, la gente profumata che s’inebria nel peccato…”

Ispirato infatti al fuorilegge realmente esistito Harry Powers, il nostro si ingrazia la fiducia delle sue future vittime con una retorica da altare, a dire la verità nemmeno troppo accurata, ma tanto basta per circuire le sue vittime, tutte da un profilo ben delineato: donne sole, magari vedove, con un po’ di risparmi da parte e ferventi religiose, o semplicemente molto ingenue, come la vedova Willa Harper (Shelley Winters), la vecchia e bisbetica bottegaia Icey (Evelyn Varden) o giovanissime come la piccola Pearl Harper (Sally Jane Bruce) e Ruby (Gloria Castillo) al contrario risulta totalmente inadeguato e persino ridicolo davanti a figure più risolute come la signora Rachel Cooper (Lillian Gish) o lo stesso John (Billy Chapin).

Troviamo quindi una perfetta rappresentazione della critica del film verso l’arretratezza culturale e il fanatismo religioso anche nell’immagine più iconica e citata del film: i tatuaggi sulle nocche di Powell con le scritte LOVE e HATE, amore e odio, con cui Powell inscena una misera farsa di lotta tra bene e male che tuttavia risulta molto efficace su menti più deboli.

Quest’iconografia, unita a momenti assolutamente immortali come la sua prima ombra sulle vite dei due bambini protagonisti (quando ancora la minaccia in realtà è lontana), oppure la sua cavalcata al chiaro di luna intonando la macabra nenia Leaning on the Everlasting Arms, segnali di una regia più audace di altre sue coeve nonché supportata da una fotografia fortemente debitrice dell’espressionismo, rendono il personaggio di Harry Powell uno dei più affascinanti villain della storia del cinema, in uno dei più grandi film noir che siano mai stati girati.

Nicolò_cretaro
Nicolò Cretaro,
Redattore.