“C’è una tale differenza tra come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui il quale trascura ciò che al mondo si fa, per occuparsi invece di quel che si dovrebbe fare, apprende l’arte di andare in rovina, più che quella di salvarsi. È inevitabile che un uomo, il quale voglia sempre comportarsi da persona buona in mezzo a tanti che buoni non sono, finisca per rovinarsi. Ed è pertanto necessario che un principe, per restare al potere, impari a poter essere non buono, e a seguire o non seguire questa regola, secondo le necessità”
Machiavelli, Il Principe, Cap. XV.
Fin dal momento in cui l’uomo ha sviluppato la capacità di pensare e di organizzarsi in gruppi si è trovato di fronte al problema della moralità. Vivendo in società l’essere umano ha dovuto imparare che esiste un limite tra Bene e Male, tra ciò che è giusto fare e ciò che invece è sbagliato.
Questo conflitto, dunque, ha influenzato tutti gli ambiti della nostra esistenza storica, dalla politica ai rapporti interpersonali, dalla religione fino alla maniera stessa in cui ogni persona affronta la propria vita.
Il Cinema, che da sempre è specchio dell’animo umano, ha rappresentato innumerevoli volte sul grande schermo questioni di natura etica, ma nell’ultimo decennio uno dei registi che più ha trattato questa tematica è sicuramente Denis Villeneuve.
La morale è qualcosa che permea la filmografia del cineasta canadese, e già in Enemy (2013) vediamo un protagonista scisso (metaforicamente e non) tra ciò che la società gli impone, ovvero una vita coniugale semplice e monogama, e la volontà di abbandonarsi agli istinti primordiali dell’uomo, tradire la moglie con svariate amanti e dunque venire meno a ciò che è considerato moralmente giusto.
Villeneuve, però, in questa pellicola si concentra in modo più evidente sulle ripercussioni psicologiche che queste imposizioni sociali hanno sull’individuo e sarà solamente con il successivo Prisoners (2013) che questa tematica si prenderà prepotentemente la scena.
Questo film pone, principalmente, una domanda molto semplice, ovvero cosa si è disposti a fare, fino a che punto si è disposti ad abbandonare i propri valori morali, per proteggere e salvare qualcuno che si ama?
Il personaggio di Keller, interpretato magistralmente da Hugh Jackman, viene presentato come il classico padre di famiglia americano: devoto alla moglie, amorevole con i figli, punto di riferimento per la comunità locale e mosso da una profonda fede cristiana. Tutto cambia, però, nel momento in cui sua figlia viene rapita e il protagonista si trova a dover affrontare, metaforicamente, il Male.
Da quel momento inizierà per lui una spirale sempre più ripida di tormento, paura e violenza, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi per mantenere viva la speranza.
È interessante notare (evitando spoiler) come egli non si interroghi mai sulla moralità delle proprie azioni. La possibilità di essere in errore, infatti, sarebbe per lui così terribile e devastante da non essere mai presa in considerazione.
La convinzione di essere nel Giusto sopprime, dunque, la nascita di qualsiasi tipo di dubbio e così Keller viene accecato dall’ostinatezza della sua disperazione in un’ottica machiavellica de “il fine giustifica i mezzi”.
Avendo infranto, di fatto, tutti i principi alla base della propria vita, egli non può cedere nemmeno per un momento all’incertezza, in quanto anche solo un tentennamento morale, un attimo di esitazione, lo renderebbero un mostro ai suoi stessi occhi, cancellando l’immagine di “brav’uomo” su cui ha fondato la propria esistenza.
Villeneuve, infine, non giudica il suo personaggio, ma anzi dà la possibilità di empatizzare con lui, pur facendo percepire un sentimento di disagio morale. Ciò che viene mostrato infatti è palesemente sbagliato, ma la bassezza alla quale giunge Keller è disumana e orribile, o è forse pienamente umana e chiunque in una situazione simile potrebbe comportarsi così? Ogni spettatore ha, alla fine del film, il potere di assolvere o di giudicare il protagonista, senza dimenticare che chi è senza peccato…
La riflessione etica del regista canadese si amplia ulteriormente con la pellicola successiva, ovvero Sicario, del 2015.
In questo film la protagonista Kate Macer, interpretata da Emily Blunt, è un’agente dell’FBI impegnata in operazioni contro il narcotraffico nel Sud degli Stati Uniti e fin da subito è evidente come sia fortemente legata al rispetto dei protocolli e delle regole che, nella sua visione, dividono i Buoni dai Cattivi. Il punto di svolta arriva quando le viene proposto di lavorare con figure decisamente ambigue (i personaggi di Del Toro e Brolin) in una missione segreta che punta direttamente al cuore dei cartelli della droga messicani, ma con metodologie molto poco ortodosse e che spesso superano il limite della legalità. Durante tutta la pellicola, quindi, Kate si trova a dover gestire un conflitto interiore tra la sua rettitudine morale e la necessità di combattere il nemico con le sue stesse armi, di rispondere al male con il male, essendo questo l’unico vero modo in cui può fare qualcosa di concreto e di importante in questa battaglia.
La riflessione di Villeneuve si sposta, in questo film, da un piano individuale a un piano decisamente più politico, mostrando come non solo sia impossibile rispettare una condotta etica in un mondo che etico non è, ma che ciò possa essere addirittura una debolezza. La stessa protagonista cercherà fino all’ultimo di riportare la propria squadra al di qua del limite morale, visto come unica vera differenza tra coloro che lei considera i buoni e coloro che considera i cattivi, per scoprire poi, in modo anche decisamente violento, che questa differenza non esiste, comprendendo così le parole del direttore del suo dipartimento “Se tu temi di operare oltre il limite ti dico una cosa, non è così. I limiti li hanno spostati”.
In questo film Bianco e Nero si mischiano, ogni personaggio è borderline e cammina in equilibrio sulla sottile linea che divide ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Alejandro (Benicio Del Toro) viene presentato come un uomo misterioso, senza scrupoli, assassino e torturatore e solo nel finale viene spiegato il motivo di tutto ciò. In questa sequenza avviene, di fatto, il ribaltamento definitivo dei ruoli, il capo del cartello messicano spiega come la violenza dei narcotrafficanti sia solamente un riflesso della violenza usata contro di loro dagli americani, in una sorta di adattamento nella lotta per la sopravvivenza.
In conclusione l’intento di Villeneuve in questo film, così come nei precedenti, è chiarissimo e arriva come un pugno allo spettatore, che, vedendo questo mondo moralmente grigio attraverso gli occhi ingenui di Kate, rimane spiazzato, non capendo più dove sta il Bene e dove sta il Male e dubitando, allo stesso modo, dell’esistenza stessa di tali concetti.
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