Se si pensa all’epoca d’oro del cinema giapponese, sono diversi i film che vengono in mente, primo fra tutti Rashōmon (1950) di Akira Kurosawa, che nel 1951 si aggiudica il Leone d’oro per il miglior film alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, consacrando il cinema nipponico all’estero. Per non parlare della produzione di Kenji Mizoguchi, che dalla seconda metà degli anni ’40 firma alcuni dei più grandi capolavori della storia del cinema giapponese. Tuttavia, gli autori di quest’epoca hanno lavorato all’interno di un contesto produttivo ben lontano dall’essere favorevole alla libertà di espressione, poiché l’occupazione americana aveva imposto delle rigide restrizioni all’industria riguardo ai temi, ambientazioni e generi trattati. In sostanza, venivano rifiutate tutte le sceneggiature che evocavano la tradizione giapponese, in contrasto con l’obiettivo di modernizzare il paese secondo le convenzioni occidentali. Ci fu un vero e proprio accanimento nei confronti dei jidaigeki, i film di ambientazione storica, in particolare verso i cosiddetti chanbara, film di cappa e spada, poiché le storie di vendetta o di samurai fedeli al proprio padrone preoccupavano l’egemonia statunitense.
È a partire da questa premessa che, alla 38° edizione del Cinema Ritrovato, viene presentata la rassegna “Kozaburo Yoshimura, Tracce di modernità”, che riscopre l’opera del regista nel decennio compreso tra il 1951 e il 1960, periodo in cui ha realizzato alcuni dei film più dettagliati nella rappresentazione dei mutamenti sociali che si sono verificati in quel periodo.
Noto per la collaborazione con il regista e sceneggiatore Kaneto Shindō (L’isola nuda 1960, Onibaba 1964), Yoshimura ha realizzato, negli anni presi in analisi, opere che riflettono sul rapporto tra gli elementi tradizionali e moderni che si scontravano nel processo di mutazione che ha coinvolto il Paese del Sol Levante. Misurandosi con il sistema censorio, che imponeva una rappresentazione positiva della nuova capitale, Tokyo, lanciata verso il progresso; e una più negativa nei confronti di Kyoto, capitale culturale e culla simbolica della storia e delle tradizioni del Giappone, il regista ha analizzato profondamente la sua terra, mantenendo una tale imparzialità nella propria visione da conferire alle proprie opere un profondo valore sociologico.
Clothes of Deception (Itsuwareru seiso, 1951)
I primi anni cinquanta e la censura
Il presupposto da cui parte Yoshimura è la conoscenza dei limiti che gli impediscono di affrontare liberamente temi apertamente controversi, scegliendo così di dedicarsi prevalentemente ai caratteri dei personaggi femminili che popolano le sue storie e conferendo a ogni film un’intensa carica umanista, che porta in secondo piano le questioni sociali, le quali vengono affrontate più indirettamente ma non con minor decisione. Ciò emerge chiaramente dal dittico formato dai primi due film presentati, Clothes of Deception (Itsuwareru seiso, 1951) e Sisters of Nishijin (Nishijin no shimai, 1952), nei quali i plot drammatici che coinvolgono i numerosi personaggi sono centrali.
Clothes of Deception è un dramma corale dalle tinte comiche che vede il tentativo di due sorelle, Kimicho e Taeko, di riscattare la casa della madre, dopo che questa l’ha ipotecata per poter aiutare il figlio del suo defunto mecenate. Kimicho e Taeko sembrano incarnare proprio i concetti di tradizione e modernità: la prima è, come lo era la madre, una geisha che tuttavia non è legata a nessun uomo, caratteristica in contraddizione con il tipico ruolo di questa figura. Taeko, invece, si è trasferita a Tokyo dove lavora presso un ente turistico, avendo però come unica reale aspirazione il matrimonio con il fidanzato. Sebbene in apparenza il film aderisca alla visione binaria imposta dalla censura, la combinazione del lavoro di Yoshimura e Shindō restituisce una rappresentazione lucida e imparziale della città di Kyoto, evidenziandone le criticità dovute alla sua arretratezza ed esaltandone il fascino.
In questo senso è di fondamentale importanza il personaggio di Kimicho che, grazie alla straordinaria interpretazione di Machiko Kyo, reduce del successo di Rashōmon, rappresenta il primo passo nella costruzione di ciò che verrà definito come “un nuovo tipo di donna di Kyoto”. L’atteggiamento sprezzante nei confronti dei più rigidi rappresentanti della tradizione, i continui rimproveri con cui tenta di far notare alla madre l’incoerenza di alcune dinamiche che possono resistere solo all’interno di una bolla temporale come Kyoto, e la libertà e l’indipendenza con cui si rapporta verso l’altro sesso, non sono esclusivamente elementi che permettono al copione di superare il vaglio censorio statunitense, ma contribuiscono alla definizione di un personaggio astuto, magnetico ed estremamente accattivante, che, in virtù della combinazione tra la propria mentalità moderna e l’irresistibile fascino folcloristico, scuote le fondamenta di una realtà profondamente arretrata. Kimicho è il personaggio che meglio di tutti ha compreso la sua epoca e, assumendo un ruolo che concilia gli aspetti migliori di modernità e tradizione diventa la manifestazione dell’ideologia che Yoshimura ha tentato, con successo, di imprimere nel film.
Sisters of Nishijin non si distacca molto dal film precedente sul piano stilistico, Yoshimura realizza nuovamente un dramma corale, dalla regia asciutta, in cui i virtuosismi della macchina da presa sono volti ad esaltare la peculiarità estetica dei quartieri di Kyoto, affidando perciò esclusivamente alle immagini il compito di suscitare interesse verso la storia giapponese, alleggerendo così il copione da alcuni elementi che avrebbero potuto non fargli superare i controlli in fase di pre-produzione. La grande differenza con Clothes of Deception sta nel tono della storia, se il primo bilanciava egregiamente il dramma con la commedia, qui Yoshimura inverte la rotta e già l’incipit è un’evidente dichiarazione del regista. Il film si apre infatti con il padre di una famiglia di tessitori che prega di ottenere un prestito per ripagare i, già numerosi, creditori. Vedendo rifiutata la richiesta, l’uomo vede nel suicidio l’unica via d’uscita, lasciando però così tutti i debiti alla moglie e alle figlie.
Il regista mette in scena questa prima sequenza in maniera magistrale. Inizia presentando un uomo che fuma alla finestra, con un’inquadratura, vista anche nel film precedente, che evoca intimità e quiete rispetto al caos esterno. Tuttavia, il mood cambia rapidamente. Prima che lo spettatore possa realmente capire che gli eventi del film scaturiranno precisamente da questa sequenza, il dialogo si esaurisce e con uno stacco ci si ritrova fuori dalla stanza assieme all’altro uomo, che si è rifiutato di concedere il prestito e ha consigliato di non lasciare i debiti alla sua famiglia. L’uomo scende le scale e la macchina da presa lo segue lentamente. Improvvisamente, si sente lo sparo con cui l’uomo indebitato si toglie la vita. In questa sequenza, girata con impietosa freddezza, viene condensata tutta la potenza drammatica del film, dichiarando l’interesse e il pessimismo del regista verso l’imposizione del sistema capitalista americano.
In questi primi film si individuano già degli elementi stilistici molto forti. La caratterizzazione precisa dei personaggi e l’interesse verso la condizione della donna nel dopoguerra hanno generato accostamenti dell’opera di Yoshimura a quella di Mizoguchi. Allo stesso tempo, la regia composta, volta ad esaltare la composizione della singola inquadratura, e l’approccio alle dinamiche di conflitto familiare, con particolare enfasi sullo scarto generazionale, possono ricordare Yasujiro Ozu. Tuttavia, Yoshimura non raggiunge lo stesso rigore visivo, al contrario affinerà progressivamente uno stile dall’estetica travolgente ed elegante.
Night River (Yoru no kaea, 1956)
Il colore e le nuove possibilità espressive
L’accostamento ai due maestri appena citati non rappresenta di per sé un errore, ma rischia di ridurre l’opera di Yoshimura, pressoché sconosciuto al di fuori dei confini nazionali, a una semplice riproposizione degli stilemi che hanno reso iconiche le pellicole di Mizoguchi e Ozu. Il potenziale espressivo unico di Yoshimura si conferma l’arrivo del cinema a colori. Night River (Yoru no kawa, 1956), On this Earth (Chijo, 1957) e A Woman’s Uphill Slope (Onna no saka, 1960), sono i film che meglio esprimono l’evoluzione espressiva del regista.
In questa seconda fase della rassegna si sono visti i film che probabilmente hanno maggiormente stupito il pubblico, almeno così è stato per il sottoscritto. La caratterizzazione dei personaggi diventa ancora più articolata e profonda, arrivando a delineare ancora meglio le varie e possibili sfaccettature della società nipponica anni cinquanta. Night River è senza ombra di dubbio il film che, tra quelli selezionati, spicca maggiormente.
Kiwa è una giovane disegnatrice di kimono che lavora nella bottega del padre e, destinata ad acquisirne il controllo, inizia ad ampliare la produzione creando design e motivi unici da applicare anche su borse e cravatte. Questa espansione la porta a conoscere Yukio, un biologo ricercatore, con il quale nascerà una storia d’amore proibito. Le premesse sono quelle di un melodramma classico, che tuttavia non rinuncia a tratteggiare, nella prima parte del film, le dinamiche sociali legate all’imposizione di Kiwa all’interno di un’industria che ha perso interesse per gli abiti tradizionali; parallelamente la relazione con il professore si sviluppa fino a prendere il sopravvento nella seconda metà.
Kiwa è quindi la protagonista assoluta, affiancata dai kimono che indossa, ognuno dei quali conferisce a ogni sequenza una tonalità cromatica specifica, offrendo un’intensa esperienza visiva che non può lasciare lo spettatore indifferente. Si può addirittura avere l’impressione di star guardando un predecessore del più noto film di Wong Kar-wai, In the Mood for Love (2000), proprio in virtù della componente melodrammatica e dell’eleganza dei costumi delle rispettive protagoniste. La fotografia di ogni inquadratura è curata nei minimi dettagli, e i colori del nuovo restauro in 4k della Kadokawa vividi e ammalianti. Se dovessimo descrivere il film in una parola, sicuramente questa sarebbe “appagante”.
Abbandonandosi completamente alle possibilità offerte dal cinema a colori, e nonostante il suo daltonismo, Yoshimura realizza due sequenze dal fortissimo impatto visivo e in cui il colore diventa un vero e proprio dispositivo al servizio del racconto. Nella prima, i campi e controcampi di Kiwa e Yukio vengono progressivamente sostituiti da dei primissimi piani di fiori che richiamano i colori dei rispettivi abiti, così che l’intenso dialogo tra i due si sviluppi secondo una sorta di influenza sensoriale. La seconda sequenza si svolge durante un importante festival lungo il fiume Shirakawa: i due innamorati, colti da un temporale improvviso, si rifugiano in una stanza d’albergo l’ungo il fiume. Durante il blackout causato dal maltempo, solo una lampada cinese illumina la stanza buia, trasformando la scena in una suggestiva sequenza bicromatica nera e arancione. I personaggi si riducono a delle sagome, la dissoluzione delle figure permette la libera espressione dei sentimenti, conducendo infine i corpi indistinguibili l’uno verso l’altro.
Questa scena rappresenta la massima espressione artistica di Yoshimura. Segnando uno spartiacque nel racconto e giustificando il titolo del film, l’immagine delle sagome nere e arancioni è carica di una tale potenza drammatica ed estetica che non può non ritornare in mente di continuo dopo la visione.
Con A Woman’s Uphill Slope Yoshimura realizza un altro affascinante racconto al femminile sui lavori tradizionali di Kyoto. Tuttavia, mentre in Night River la protagonista, scritta da Sumie Tanaka, era nata e cresciuta tra i kimono, in questo film seguiamo Akie, una giovane ragazza che deve recarsi a Kyoto dopo aver ereditato una pasticceria tradizionale di cui conosce ben poco. Ambientata negli anni sessanta, la sceneggiatura di Shindō si focalizza non tanto sulla contrapposizione tra Kyoto e Tokyo, quanto sul cambiamento che ha ormai coinvolto la capitale culturale. Il progresso è già arrivato, e a mettere in difficoltà Akie non è tanto la dimensione sociale, quanto le dinamiche lavorative, troppo poco disposte a rinnovarsi.
Meno drammatico e più evidentemente rivolto verso la commedia, A Woman’s Uphill Slope è un film solare, vivace come la sua protagonista. Yoshimura non perde occasione di dimostrare ulteriormente le sue abilità nel creare immagini affascinanti che esaltano le sue protagoniste. In questo caso, è l’abbigliamento occidentale di Akie a diventare immediatamente iconico: impossibile non essere trasportati dal suo entusiasmo nell’indossare di nuovo il maglione rosso con cui è arrivata in città, rendendolo l’emblema della possibile e necessaria coesione tra tradizione e modernità.
On this Earth (Chijo, 1957)
On this Earth si inserisce nella medesima fase creativa del regista e, pur non raggiungendo la perfezione visiva di Night River o l’iconicità di A Woman’s Uphill Slope, ripropone con gusto soluzioni estetiche simili all’interno di un racconto non più esclusivamente sociale e melodrammatico, ma apertamente politico. È qui che la presenza in scrittura di Kaneto Shindō si fa più evidente, attingendo proprio dalle sue posizioni socialiste. Il film racconta il percorso di consapevolezza politica di Heiichirō, un giovane e brillante studente, orgoglio della madre che lavora in una okiya (le case delle geisha) come sarta per assicurare al figlio un’istruzione adeguata. L’incontro con un ex compagno di scuola, che lavora in una fabbrica nel mezzo di uno sciopero, lo stimolerà nella ricerca di un ideale da perseguire.
L’aspetto più interessante del film è senza dubbio il parallelismo che si viene a creare tra le proteste degli operai e la condizione delle geisha nel loro ambiente lavorativo. Yoshimura, per la prima volta, non si contiene e pone molta attenzione sulle dinamiche di potere che si instaurano tra padrone e dipendenti, spesso con episodi di grande violenza. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un film in cui i conflitti sono centrali: l’industrializzazione contro i mestieri tradizionali, il conflitto di classe si estende alla relazione sentimentale Heiichirō, infatuato della figlia di un grosso industriale. Le differenze generazionali, inoltre, sono evidenti nel rapporto madre e figlio, entrambi sono coinvolti nei rispettivi ambienti di azione, ma con approcci quasi opposti.
Tuttavia, l’ambizione del film a non voler rinunciare a nessuna tematica inserita è l’unico difetto concreto. Lontano dall’essere un prodotto che accenna a tutto ma che non approfondisce, Yoshimura realizza un’opera efficace e funzionale, ma comunque meno compatta e uniforme come nei casi precedenti. Ne risulta quindi un film imperfetto, ma coerentemente in linea con la poetica del regista e interessante proprio nel suo netto posizionamento ideologico, necessario dopo aver raccontato così approfonditamente gli ambienti lavorativi dal punto di vista sociale.
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