“This is the highlight of my day. I hope that it is not all down hell from here” (“Questo è il momento migliore della mia giornata. Spero che da qui in poi non sia una discesa nell’inferno”): le prime parole pronunciate da Kevin Spacey a seguito della vittoria dell’Oscar come Miglior Attore Protagonista per American Beauty (Mendes, 1999) sembrano quasi profetiche. A seguito dello scandalo che ha coinvolto l’attore, relativamente alle accuse di molestie sessuali del 2017, pare che Hollywood non intenda aver più nulla a che fare con il two-times Oscar Winner. La sua ultima interpretazione risale al 2022 – L’uomo che disegnò Dio diretto da Franco Nero – dopo il silenzio iniziato nel 2018.
A processo aperto, parlare di una personalità così controversa può sembrare un azzardo: tuttavia, è impossibile negare il fondamentale contributo artistico di Kevin Spacey al mondo del cinema e della televisione. Sin dal suo esordio nella seconda metà degli anni Ottanta, l’attore statunitense con cittadinanza inglese ha saputo emergere dalla folta schiera di attori in virtù delle proprie doti artistiche e interpretative, doti che si sono potute esprimere soprattutto in seno a ruoli rimasti iconici. Dall’enigmatico Roger “Verbal” Kint de I soliti sospetti (Singer, 1995) al crudele John Doe di Se7en (Fincher, 1995), dal cinico Larry Mann di The Big Kahuna (Swanbeck, 1999) fino all’iconico Frank Underwood della prodigiosa serie televisiva House of Cards (Willimon, 2013-2018): il talento di Spacey ha saputo plasmare personaggi indimenticabili e scrivere la storia della Settima Arte. In una di queste pagine, c’è – indubbiamente – uno degli uomini comuni più celebri del cinema: Lester Burnham.
Un uomo che si è arreso alla vita
È semplice capire chi sia Lester, protagonista del film American Beauty (Mendes, 1999): quarantadue anni, sposato con la nevrotica Carolyn (Annette Bening), padre dell’introversa Jane (Thora Birch), depresso, svogliato, incatenato a una routine detestabile e a un lavoro poco stimolante. Poi ecco che, finalmente, la sua Beatrice compare in scena: Angela Hayes (Mena Suvari), una giovane ossessionata dal desiderio di diventare modella e dagli sguardi che gli uomini posano sul suo corpo, attenzioni che le consentono di placare le proprie insicurezze. A seguito del primo incontro con Angela, la vita di Lester cambia drasticamente. Ma forse è opportuno fare un passo indietro.
Prima della radicale metamorfosi, Sam Mendes illustra con rigore le marche salienti dell’anonima quotidianità di Lester: nonostante si comprenda (e si percepisca) subito l’oppressione di un’esistenza mediocre, l’uomo pare essersi abituato alle quattro mura entro le quali è imprigionato. Kevin Spacey, in questo senso, costruisce una personalità – a partire dalla sceneggiatura – determinata da una profonda apatia: le espressioni facciali poco accennate, la voce flemmatica, l’andatura poco decisa. Anche le prime parole di Lester, nell’incipit, spiegano con disarmante distacco la sua situazione:
“Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno… sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto. Guardatemi, mi faccio una sega sotto la doccia. Questo sarà il culmine della mia giornata. Dopodiché è tutto uno sfacelo.”
L’autopresentazione di Lester all’inizio del film
L’autocommiserazione di Lester si riflette anche sull’ambiente circostante: i toni degli interni, degli esterni, della vita in sé per sé sono ingrigiti dalla monotonia e dalla rassegnazione. Solo le rose – della varietà American Beauty – che crescono nel giardino della sua abitazione spezzano l’anonimia degli spazi col loro rosso fiammeggiante.
Dall’impulso sessuale alla rinascita
E sono petali di rosa, quelli che fuoriescono dalla nivea giacchetta da cheerleader di Angela. Il primo incontro avviene durante un’esibizione di cheerleading, nell’intervallo di una partita scolastica di basketball. Dalla folgore nata in un incrocio di sguardi, la fantasia di Lester inizia a galoppare: la bellezza di Angela, ninfetta postmoderna, è intensa come un’iniezione di adrenalina; nella mente del protagonista, la giovane esegue una danza erotica per lui solo, ballo che raggiunge il suo culmine nell’apertura della giacca dalla quale fuoriescono una moltitudine di petali di rosa che si espandono in tutta l’inquadratura. Seppur grottesco, in virtù della differenza d’età che intercorre tra i due, è l’impulso sessuale lo stimolo che permette a Lester di risvegliarsi dalla sua catatonia.
Dopo questa scena, Kevin Spacey è bravissimo nel mostrare il cambiamento del proprio personaggio: durante il primo confronto diretto con Angela – presentata a Lester e alla moglie dalla figlia, a seguito dell’esibizione – si può notare, infatti, come Spacey indugi con garbo nel lasciar trasparire l’eccitazione del proprio personaggio che regredisce, in un certo senso, ad adolescente in piena pubertà. Il desiderio di possedere Angela si traduce inevitabilmente nel desiderio di vivere una seconda giovinezza: a tal proposito, Lester stringe amicizia col figlio adolescente del nuovo vicino di casa, Ricky (Wes Bentley), grazie al quale ricomincia a fumare marijuana; un altro tassello nel suo rito di regressione è presto incasellato. L’ultimo stimolo, fondamentale per il suo cambiamento, è la totale esplosione dell’ossessione verso Angela: la giovane confida alla figlia di Lester la propria attrazione verso l’uomo, aggiungendo, tuttavia, che starebbe meglio se si allenasse con costanza. “È una gran cosa quando realizzi di avere ancora l’abilità di sorprenderti. Ti fa chiedere cos’altro puoi fare che ti sei dimenticato”, asserisce a un certo punto Lester: è evidente come il “sedativo sociale”, somministrato quotidianamente da una moglie prevaricatrice, da una figlia apatica, da un lavoro monotono e dal costante tictac dell’orologio, non abbia più alcun effetto sul suo corpo.
Il realismo che caratterizza la metamorfosi di Lester sorprende e diverte: Spacey modifica sia il comportamento del suo personaggio – da sottomesso quarantenne messo alla berlina dalla vita a consapevole protagonista della sua esistenza – sia la sua corporeità, in virtù dei numerosi allenamenti ai quali si sottopone per scolpire i propri muscoli. Liberatosi dai costrutti sociali che lo soffocavano, Lester è ora padrone della propria vita, nella quale riveste il ruolo principale e non più il supporting role: la sottomissione fisica e psicologica del “vecchio sé” viene scalzata, e sul viso di Lester inizia a comparire sempre più spesso un sorriso compiaciuto e beffardo; basti pensare all’iconica scena della cena di famiglia, la quale segna un ulteriore snodo all’interno delle vicende.
Ribellarsi per percepire la bellezza nel mondo
La ribellione di Lester potrebbe sembrare fine a sé stessa: parrebbe simile alla celeberrima frase pronunciata dal ragionier Fantozzi, “non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!” prima di tentare, vanamente, di prendere l’autobus “al volo”; inutile rammentare il tragico epilogo che segue alla sua piccola rivoluzione domestica. Lester, invece, si spinge oltre. Le sue azioni modificano irreversibilmente l’ambiente circostante e le persone intorno a lui, nonché sé stesso: come preannunciato dalle sue stesse parole, la punizione non tarderà a mancare. Eppure non si può dire che il percorso di Lester sia privo di logica: senza cedere alla tentazione del facile spoiler, basterà dire che quello del protagonista è una progressiva apertura delle porte della sua percezione – riprendendo un’espressione di Aldous Huxley – della bellezza nel mondo; una percezione non repressa, anticonformista, libera ed elevata.
Per restituire al meglio la progressiva trasformazione di Lester, Spacey centellina con arguzia le piccole modifiche che il suo personaggio vive: ogni evento e ogni sua azione producono una minima, ma importante alterazione nel suo comportamento e nel suo relazionarsi con gli altri personaggi. In questo modo, la progressione non risulta stonata rispetto alla durata del film e delle vicende, ma assolutamente realistica: lo spettatore segue la sua incalzante epopea fino all’agognato atto finale che coincide con il primario stimolo al cambiamento, Angela… che, tuttavia, non è la chiave per aprire, finalmente, le porte della percezione.
Di American Beauty si è parlato a lungo, e l’esordio di Mendes occupa a pieno titolo un piccolo posto nei manuali di storia del cinema: dalla regia alla sceneggiatura, dalle interpretazioni alla colonna sonora, sino ai temi di carattere filosofico e sociologico che caratterizzano il film; anche a distanza di più di vent’anni, American Beauty non è invecchiato di un fotogramma. E l’interpretazione di Kevin Spacey, premiata con l’Oscar, è uno dei motivi della sua immortalità.
Scrivi un commento