Il 30 settembre 1955 accadde qualcosa che sconvolse il mondo intero: in un incidente stradale in California si spense a soli ventiquattro anni una delle stelle più brillanti di Hollywood, James Dean. Un avvenimento epocale che segnò sia per motivazioni culturali quanto cronologiche l’inizio del tramonto del classicismo hollywoodiano che terminerà dopo pochi anni e più precisamente con l’avvento degli anni ‘60.

Se parliamo di Hollywood classica intendiamo quel quarantennio di storia del cinema americano tra gli anni ‘20 e ‘60 dello scorso secolo, caratterizzato da un tipo di cinema gratificante ed edificante per lo spettatore, dove la grammatica del cinema – una forma perfezionata di quella del “cinema delle origini” – era la più semplice, chiara e lineare possibile, per rendere la fruizione cinematografica piacevole e tale da imprimere negli spettatori sensazioni di ottimismo, allegria e fiducia verso l’America e la sua popolazione (La vita è meravigliosa, Gli uomini preferiscono le bionde). 

In tal senso Il Gigante diretto da George Stevens e datato 1956, con il suo focalizzarsi sulla narrazione sfruttando un impianto produttivo-registico finalizzato esclusivamente ad essa (montaggio lineare, regia pulita) assieme alla presenza dei vertici dello star system americano, rappresenta uno degli ultimi baluardi di un cinema classico destinato ad esaurirsi dopo pochi anni, ma, al contempo nel suo sfruttare il mito della frontiera come strumento di espiazione delle colpe del Paese e come inno di redenzione degli USA (oltre che grazie alla presenza di James Dean) contribuisce a scardinare dall’interno lo stesso sistema valoriale e iconografico dell’Hollywood classica, evidenziando i prodromi di un suo un’inevitabile declino.

LA TRAMA

Il Gigante (il cui titolo allude allo stato del Texas, all’epoca lo stato maggiore dei 48 americani) è tratto dal romanzo omonimo di Edna Ferber e nei suoi fluviali 201 minuti narra la storia ambientata in Texas di Jordan “BickBenedict (Rock Hudson), uomo all’antica e benestante discendente di una famiglia di allevatori che sposa Leslie Lynnton (Elizabeth Taylor), una ragazza del Maryland forte e ribelle. I due hanno tre figli nonostante attraversino diverse difficoltà coniugali e familiari, soprattutto Leslie che deve affrontare l’astio della cognata Luz (Carroll Baker). Viene poi introdotto il personaggio di Jett Rink (James Dean), uno dei braccianti di Bick che pur essendo povero non pecca d’ambizione, benvoluto da Luz ma segretamente innamorato di Leslie. Quando la giovane Luz muore cadendo da cavallo lascia in eredità proprio a Jett un piccolo appezzamento di terra che Jett rifiuta di vendere ai Benedict nonostante le ripetute insistenze di Bick, perché ha un obiettivo ben preciso: diventare ricco e prestigioso proprio al pari della famiglia per cui lavora. La fortuna è dalla sua parte, Jett trova giacimenti di petrolio nel terreno ereditato e si arricchisce in fretta. Intanto Jordi, il figlio di Bick, dichiara di non voler occuparsi dell’attività paterna e sposa un’infermiera messicana che tempo dopo, durante una sontuosa cena organizzata da Jett al fine di dimostrare di far finalmente parte del mondo benestante texano, subisce un grave episodio di razzismo quando il personale del parrucchiere dell’albergo rifiuta di servirla perché di colore. Intanto Jett non viene mai considerato dai suoi ospiti e in preda ai fumi dell’alcool arriva addirittura alle mani con Bick, rimanendo poi da solo nella sala ricevimenti dove, in una delle scene più famose del film, tiene una patetica conferenza. Lungo la strada di ritorno in una tavola calda Bick si trova per la prima volta a difendere la nuora messicana dagli ennesimi commenti razzisti di un burbero texano. La storia si chiude con i coniugi Benedict che si ritirano nella vecchia casa dove proseguiranno serenamente la loro vita mentre la macchina da presa ritrae per ultimi i due nuovi nipoti, uno bianco e l’altro indio.

IL GIGANTE DOPO 70 ANNI

Al di là dell’aura di sacra nostalgia di cui è permeato per via dell’ultima interpretazione cinematografica di James Dean, su cui torneremo più avanti, l’opera di Stevens riscrive il mito della frontiera evidenziando il passaggio di un’America dallo stato prettamente agrario a quello di una società governata da logiche di guadagno e di effimera ostentazione (risultando quasi una confessione a cuore aperto), e guardandola con sguardo lucido dopo quasi settant’anni, Il Gigante rappresenta l’essenza stessa del classicismo hollywoodiano – in virtù del suo ingente sforzo produttivo che permetteva di raggiungere i 201 minuti di durata e dallo star system del cast -, ma in una coerente (e soltanto apparente) contraddizione opera una revisione e un compromesso rispetto alle mitologie degli States, di cui al tempo poco si occupò la critica accademica per focalizzarsi invece sulla magniloquenza e sul mero spettacolo cinematografico (non dimentichiamoci che la pellicola ottenne dieci candidature agli Oscar del ‘55 di cui però si aggiudicò solo miglior regia).

Nuove politiche di genere (Leslie come ragazza indipendente e forte che si ribella al patriarcato), di razza (Bick che corre in soccorso della nuora messicana: finalmente un connubio fra nativi e americani) e di classe: raramente si sottolinea la creazione di Stevens del film anti-John Wayne per eccellenza, dove i triangoli amorosi dell’Hollywood classica lasciano posto a una riscrittura dell’origine del mito della frontiera secondo cui la spietata e industrializzata società americana novecentesca è una naturale evoluzione di quella rurale precedente; Jett si arricchisce soltanto perché riceve in eredità il pezzo di terreno, incarnando così il puro e crudele modello del self-made man che, nonostante inizialmente fosse l’unico a sottolineare alla moglie di Bick lo sfruttamento operato ai danni dei braccianti messicani, sarà portato dalla scalata sociale a discriminare lui stesso i nativi limitando l’ingresso alla sua sontuosa cena soltanto ai bianchi e sfogando il suo materialismo più becero nei fiumi di alcool.

Questa parabola prima ascendente e poi discendente di un uomo “che si è fatto da sé” grazie a giacimenti di petrolio, vi ricorda qualcuno? Forse il Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) de Il Petroliere di Paul Thomas Anderson?

LA MORTE DI JAMES DEAN COME FINE DI UN’EPOCA

Se volgiamo lo sguardo a Il Gigante non può non apparire ai nostri occhi come un’elegiaca celebrazione della figura di James Dean, la cui prematura scomparsa coincise con l’inizio del declino del classicismo hollywoodiano sebbene, in tal senso, avvisaglie socio-culturali potessero essere già ravvisate a partire dagli anni ‘40: l’inizio della Guerra Fredda e l’avvento del maccartismo portarono alla cosiddetta “Hollywood blacklist” (la lista nera di Hollywood: i nomi di tutti gli artisti a cui doveva essere proibito di lavorare in quanto aventi presunti legami o contatti con gli ambienti comunisti). Questa vera e propria “caccia alle streghe” mise in grandissima crisi le fondamenta della democrazia made in USA in un clima di grande incertezza e inquietudine che si espanse anche nel mondo del cinema dove, infatti, in mezzo alle grandi storie ottimistiche degli anni precedenti cominciarono a serpeggiare sentimenti nuovi ma comuni di solitudine e di sconforto all’interno di storie tipicamente di anti-eroi, esattamente come il Jett Rink de Il Gigante o, ancor di più, il Cal Trask di James Dean ne La valle dell’Eden di Elia Kazan.

Non è un caso che Dean compaia nel famosissimo film di un altro grande maestro che contribuì a sancire la fine del periodo classico di Hollywood, Nicholas Ray, più precisamente Gioventù Bruciata del 1955, nonché il primo film di Hollywood sulla ribellione giovanile e su quel senso condiviso di abbandono percepito dai giovani del tempo.

Dean divenne simulacro e volto della fine di un’epoca e di un’era, di un cinema in mutamento ed evoluzione in viaggio su sentieri mai percorsi perché assieme al cinema classico entrava in crisi anche il sistema divistico del tempo, che lasciava spazio a storie di esseri umani e non più di stelle idealizzate. Queste nuove intuizioni vennero accolte anche in Francia e in Germania dove la Nouvelle Vague e il Nuovo cinema tedesco fecero propria la nuova consapevolezza di Hollywood.

Proprio durante la fine delle riprese de Il Gigante (terminate il 22 settembre 1955), James Dean fu intervistato dall’attore Gig Young in un’intervista mai mandata in onda da Warner Bros. (ma disponibile dal 2005 anche nei contenuti speciali del DVD di Gioventù bruciata), passata alla storia per la famosa risposta di Dean alla domanda se avesse qualche consiglio per i giovani guidatori: “rilassatevi mentre guidate, la vita che salvate potrebbe essere la mia”.

Poche settimane dopo la giovane stella si spense proprio mentre era alla guida della sua Porsche 550 Spyder, auto successivamente utilizzata dall’amministrazione cittadina di Los Angeles per sensibilizzare la popolazione in merito alla pericolosità degli incidenti stradali, venendo macabramente definita “L’ultima auto sportiva di James Dean”.

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Alberto Faggiotto, Redattore