Le fucilate si perdono in aria. Le parole restano, e col tempo la gente se le ricorda.
Dopo la Repubblica de l’impicci di Scipione detto anche l’africano (1971), è giunto il momento di parlare della Seconda Repubblica romana di chi si è voluto impicciare. In nome del Popolo sovrano (1990) è una pellicola scritta e diretta da Luigi Magni, con le scenografie e i costumi di Lucia Mirisola e infine la colonna sonora del pianista Nicola Piovani. Per dirla con le parole di quest’ultimo, In nome del Popolo Sovrano racconta un Cinema che non c’è più, un modo di raccontare che non c’è più e che perciò stride all’interno del contesto cinematografico italiano degli anni ‘90. Nei confronti della rivoluzione digitale che mutò il Cinema di quegli anni, durante la lavorazione dei suoi ultimi film Magni ha intrapreso una personale resistenza, continuando a usare la moviola con la pellicola. Un montaggio che, come in molte occasioni, è stato affidato all’amico Ruggero Mastroianni, fratello del divo e interprete di Scipione l’Asiatico.
In nome del popolo sovrano si colloca in quella che viene definita la trilogia risorgimentale di Magni, composta da Nell’anno del Signore (1969) e da In nome del Papa Re (1977). Tematiche cardine di questi film sono il rapporto tra popolo, aristocrazia romana e potere pontificio durante i moti rivoluzionari della seconda metà dell’Ottocento, iniziati nel 1820 a Napoli, poi nuovamente nel ’31 a Modena e infine culminati nel ‘48 con l’instaurazione della Seconda Repubblica romana, breve esperienza conclusasi nell’estate del ‘49 per mano delle forze francesi.
Roma al Papa, l’Italia al Popolo
Il servo che non si ribella è peggio del padrone che lo comanda.
Il Papa in fuga verso Gaeta, l’eccentrico gilet di Ciceruacchio con la scritta ricamata “Viva Pio IX”, la performance febbrile di Cristina al piano, mentre canta a gran voce: ”Se il Papa è andato via, buon viaggio e così sia!”. Queste sono alcune tra le prime immagini che accompagnano lo spettatore in un’avventura risorgimentale all’interno di una Roma caotica, idealista, e chiusa all’esterno, dove campeggiano le truppe francesi di Luigi Napoleone Bonaparte e le truppe papali che tanto sono invise agli angeli. Sin dai primi dialoghi, emerge un pontefice vittorioso e non sconfitto che abbandona il suo gregge a testa alta per fuggire da “un branco di lupi e di assassini”, come egli stesso afferma. Il Papa non si ravvede neppure dinanzi ai disperati tentativi di persuasione di Ugo Bassi, frate barnabita bolognese votato alla missione di cristo, a quella garibaldina e infine alla sua personalissima contro il potere temporale papale. Come Ciceruacchio, suo figlio Lorenzo e Giovanni Livraghi, il personaggio di Ugo Bassi è realmente esistito e molto caro al leader socialista Bettino Craxi. E’ stato, infatti, quest’ultimo a suggerire allo sceneggiatore Arrigo Petacco e Gigi Magni di scrivere un soggetto sulla Seconda Repubblica romana e più nello specifico sulla figura di Bassi. Per interpretare il frate, Gigi Magni sceglie l’attore francese Jacques Perrin, da lui particolarmente apprezzato nel film italiano Il deserto dei Tartari (1977) di Valerio Zurlini. Accanto a Perrin viene costituito un cast di grandi nomi del cinema italiano, ovvero Nino Manfredi, Alberto Sordi, Carlo Croccolo, Roberto Herlitzka, Gianni Garko e Dario Cassini, accompagnati da artisti più giovani o con una solida carriera teatrale alle spalle come Luca Barbareschi, Luigi De Filippo, Elena Sofia Ricci, Serena Grandi, Lorenzo Flaherty e infine Massimo Wertmüller.
La Repubblica romana che Magni documenta sul grande schermo è un mosaico di esperienze. Il regista si sposta, infatti, dalla prospettiva di uno straccione a quella innocente del figlio di Ciceruacchio, per poi soffermarsi sulle convinzioni dei patrioti e degli aristocratici, sino ad arrivare alla resistenza dei soldati francesi, austriaci e infine degli uomini della chiesa. A questa pluralità di vissuti si aggiungono i numerosi punti di vista dei personaggi realmente esistiti, come lo sguardo disilluso e febbrile di Gioacchino Belli che pare essersi ammalato di una malattia epidemica “austriacante” oppure il sospiro morente del giovane Mameli, ben conscio di non poter tornare a combattere senza una gamba, e infine lo stornello romanesco intonato da Ciceruacchio, eroe e maschera popolare. Tutte le classi sociali hanno partecipato a modo loro alla breve esperienza della Repubblica romana, collaborando, imbracciando le armi oppure osteggiandola. Esplicativa in tal senso è la scena in cui Mazzini richiama il Popolo alle barricate per respingere i francesi. Magni presta attenzione e riprendere la grande varietà di persone che senza esitare accorrono alla chiamata alle armi: bambini cenciosi, donne in crinolina, vecchi canuti, uomini del popolo e persino esponenti dell’alta borghesia italiana, vestiti di tutto in punto e col cilindro bel calzato sulla testa. In nome del Popolo Sovrano non si limita, dunque, a raccontare le gesta dei patrioti tanto nella difesa della città e la stesura della costituzione, ma sottolinea anche la brutalità della repressione e il sacrificio degli stessi per mano dei francesi e degli austriaci.
Le relazioni tra i personaggi, un po’ come per Scipione detto anche l’africano, si costruiscono su un sistema di coppie, a loro volta divise sulla base di un’opposizione o di una somiglianza: Pio IX (Gianni Bonagura) che fugge si contrappone a Ugo Bassi (Jacques Perrin) che decide di combattere a fianco dei ribelli, invece la nobildonna idealista Cristina (Elena Sofia Ricci) alla cameriera pragmatica Rosetta (Serena Grandi), fino ad arrivare al marchese Arquati (Alberto Sordi) e a Ciceruacchio (Nino Manfredi), entrambi padri e massima incarnazione della propria classe sociale, aristocratica il primo e popolare il secondo. Oltre a questi vi sono il milanese Giovanni Livraghi (Luca Barbareschi), patriota e amante di Cristina, e il marchesino Eufemio Arquati (Massimo Wertmüller), marito cornuto della stessa e figlio sottomesso del marchese. A differenza dei patrioti, tutti realmente esistiti e talvolta didascalici nei loro discorsi, Eufemio è probabilmente il personaggio più interessante, il più vero e umano.
Perseguitato dalla figura letteraria di Jacopo Ortis, Eufemio è l’unico personaggio a intraprendere un percorso di crescita. Forse perché, come suggerisce Rosetta, in lui vi sono due anime, quella dell’aristocrazia ereditata dal padre e quella del popolo dalla madre lavandaia. A queste si aggiunge un animo colto, romantico e naturalmente propenso all’inquietudine. Eufemio si dimostra un vero repubblicano quando con freddezza spara al dipinto del nonno, dopo essere stato umiliato dal padre. Il marchese, infatti, lo considera troppo codardo per aver realmente sparato a un soldato francese e aver, di conseguenza, salvato la vita di Livraghi. In seguito alla fuga del figlio, il padre disperato si chiede quale colpa abbia commesso per meritare un simile trattamento. A quel punto, la cameriera gli risponde prontamente: ”Eufemio vi è nemico perché per metà è figlio del Popolo!”.
Grazie agli ideali della moglie, Eufemio riesce a emanciparsi dalla condizione di marito tradito e succube dei propri doveri di classe. Al termine del film, il marchesino abbraccia la sua anima da figlio del Popolo e parte con la moglie Cristina per fare l’Italia in Piemonte.
C’è chi sputa contro Roma e chi muore nel suo nome
[…] Dice: allora perché te sei ‘mpicciato de cose che nun te riguardano? Dico: perché io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo, e l’omo se ‘mpiccia, eccellenza. Difatti vie’ Garibardi e dice: “Famo l’Italia”, e io che fo? nun me ‘mpiccio? Io so’ romano, eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano, è corpa? Dice: sì Ah, mo’ è corpa esse italiano? No, dice lui, è corpa perché tu hai difeso l’anarchia e la rivoluzione. Ma nossignore eccellenza, io ho difeso Roma, er paese mio e lei ce lo sa mejo de me. Ma come? I Francesi me pijano a cannonate e io nun me ‘mpiccio? nun me riguarda? Insomma, eccellenza, se annamo a strigne, ch’avemo fatto de male? ‘sta creatura manco a dillo, ma io? Io ch’ho fatto? Ho voluto bene a Roma, embè? e da quanno in qua l’amor de patria è diventato un delitto? Però se nella legge vostra è un delitto vole’ bene ar paese propio, allora io so’ corpevole, anzi so’ reo confesso, e m’offennerebbe pure se me rimannaste assorto
– Nino Manfredi, estratto del monologo di Ciceruacchio
Nella pellicola di Magni vi sono unicamente due monologhi, recitati entrambi con sguardo in camera e interpretati da due personaggi estremamente diversi, ma accomunati dal ruolo di padre: Ciceruacchio (Nino Manfredi) e il marchese Arquati (Alberto Sordi). Il primo è un padre che viene ucciso insieme al figlio, il secondo un uomo cinico che viene abbandonato dal suo primogenito. Nel monologo di Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, emerge tutta la praticità e l’idealismo di un rivoluzionario che ha combattuto per la propria patria e per restituire un futuro migliore al figlioletto. Il tenore del linguaggio è popolare, colloquiale, eppure intriso di una sapienza pratica di uomo del Popolo. La macchina da presa è fissa e inquadra il volto di Ciceruacchio che non lascia tradire i suoi sentimenti, a differenza degli occhi sbarrati del ragazzino che si stringe a lui. Solo sul finire del discorso, si odono parole straniere, un comando e poi uno scatto da parte del padre verso il figlio. Un brusco taglio di montaggio ci preclude la vista della loro fucilazione, lasciando che sia la nostra mente a elaborare la scena. Una scelta narrativa che si ripete anche durante l’esecuzione di Giovanni Livraghi e Ugo Bassi: un muro in pietra, alcune parole in austriaco, degli spari e infine il volto addolorato di Cristina mentre si accascia contro le mura. La morte accade fuori scena, è consegnata al racconto dei posteri. Nel monologo di Ciceruacchio, tuttavia, Magni vuole omaggiare la performance di Nino Manfredi e restituire l’immagine di un uomo coraggioso che ha la forza di sorridere beffardamente alla morte. Ciceruacchio ricorda ai suoi carnefici la vera natura della sua colpa, l’amor di patria. Un gesto che ricorda il celebre monologo di Bartolomeo Vanzetti davanti alla corte americana che lo condannerà a morte per ragioni politiche, insieme al suo compagno Nicola Sacco. In fondo, Ciceruacchio è morto proprio come cantava in quello stornello romano durante il suo ultimo viaggio:
Per cui me sa che è mejo a falla corta
me giocherò così l’urtima carta
vojo morì stasera a bocca aperta
cantanno sì, ma pe’ l’urtima vorta
ma pe’ l’urtima vorta!
A differenza del discorso di Ciceruacchio, quello del marchese Arquati è colmo di risentimento nei confronti di quella Roma marcia che accusa apertamente di avergli dato il benservito. Si rivolge direttamente a lei, con voce grossa, incalzandola: “A te non te frega niente? Ao, ‘a Roma! Ma se po’ annà avanti così? Se ne potemo sempre frega’ de tutto e de tutti?! […] Roma tu me lo devi dì ‘ndo sta Eufemio mio! Roma, ‘ando sta… risponni! No, no, a me no eh… io sto già a piagne. Con me non ce provà!”
Dopo aver pronunciato simili parole di sdegno, il marchese rompe la quarta parete, come Ciceruacchio, e si avvicina alla macchina da presa, guardandola negli occhi, nei nostri occhi di spettatore: d’improvviso noi stessi diventiamo Roma.
“Non ho capito? Che hai detto? Si ecco, si. Roma io t’ho sempre difeso da tutto e da tutti.
Ti ho sempre voluto bene, ma adesso te lo devo dì. Roma fai schifo!”
Uno sputo in camera, poi un altro e un altro ancora finché il marchese Arquati si lascia andare in un pianto disperato. Forse per la prima volta in due ore e venti di film, emerge realmente l’umanità di questo personaggio. Come al solito, i finali di Magni sono indimenticabili e racchiudono in poche semplici parole lo spirito delle sue pellicole, ma anche l’amore per i dialoghi e la Storia, che viene chiamata in causa non con intenti didascalici, quanto piuttosto per attuare un’ironica critica sociale. In questo caso, le ultime parole del film sono affidate proprio al marchese Arquati, inizialmente ostile alla Repubblica ma che al termine della pellicola sembra essersi riconciliato col figlio ribelle. Alla domanda ingenua di Rosetta in merito al ritorno di Eufemio e di sua moglie, il Marchese Arquati risponde col suo spiccato accento romano: “E certo che tornano. Devono tornà per tutti quelli che se so persi per strada, per tutti quelli che non tornano più!”.

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