In occasione del 76esimo compleanno di John Carpenter – tuttofare del cinema statunitense, tra le menti e le mani più brillanti della sua epoca e non solo – riscopriamo con questa recensione il suo indiscusso capolavoro degli anni Novanta. Se senza ombra di dubbio per gli anni Settanta e Ottanta i film più rappresentativi di Carpenter sono rispettivamente Halloween – La notte delle streghe (Halloween, 1978) e La cosa (The Thing, 1982), per il decennio in questione non possiamo non mettere al primo posto Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994), un film imprescindibile, spesso assente dalle liste dei più grandi cult del regista e proprio per questo posto all’attenzione dei nostri lettori per festeggiare uno degli autori più importanti, iconici e allo stesso tempo outsider della storia del cinema americano.
Il seme della follia inizia all’interno di un ospedale psichiatrico, come in una delle primissime sequenze di Halloween; da Essi vivono (They live, 1988) torna il binomio tra realtà e finzione; da La cosa, invece, tornano dei mostri deformi e lovecraftiani, tanto viscidi quanto tangibili. Ma come nella migliore tradizione del noir classico americano, il film vede al centro del suo racconto – prima di rivelarsi nella sua natura orrorifica, psicologica e da disaster movie – un investigatore delle assicurazioni alla ricerca di Sutter Cane, uno scrittore di best-seller dell’orrore scomparso insieme alla sua ultima creazione. Carpenter mette in scena un neo-noir ispirato dai racconti di Howard Phillips Lovecraft che nel suo modo di maneggiare il racconto e la materia filmica sembra quasi anticipare la chiave surrealista della seconda metà dell’opera di David Lynch. Proprio da Il seme della follia sembrano arrivare alcune soluzioni visive lynchiane presenti in Strade perdute (Lost Highway, 1997) (su tutte, la rappresentazione notturna dell’autostrada), la discesa nella follia, la presenza di un artista oscuro che con la propria penna o con la macchina da presa è capace di riscrivere la realtà.
“Quello che spaventa nelle opere di Cane è ciò che accadrebbe se la realtà desse ragione a lui” o ancora “È reale quello che noi crediamo che sia reale, sani e pazzi potrebbero scambiarsi i ruoli, se un giorno i pazzi fossero la maggioranza lei si troverebbe rinchiuso in una cella imbottita”.
Dichiarazione esplicita d’intenti, Carpenter non eccede in didascalismo ma rende ben nota la riflessione che vuole porre all’attenzione dello spettatore. Chi detiene il monopolio della ragione e dunque del sapere? Esiste una realtà oggettiva o quello che vediamo è una montatura, una finzione, come in Essi vivono? Qual è il limite che separa i “pazzi” dai “sani”? Sono tutti interrogativi lasciati aperti dal regista, in un film che vede allargare il suo raggio d’azione a ben oltre la durata del suo minutaggio effettivo.
Ci troviamo di fronte a una narrazione che si espone, si auto-alimenta e si auto-influenza, in un delirio in cui i limiti tra realtà, finzione e immaginazione si fanno sempre più sottili, fino a disintegrarsi del tutto. Diventa lampante come la produzione culturale possa plasmare il reale, dunque come anche la letteratura o il cinema (per non estendere il discorso al teatro o ad altre forme artistiche e di comunicazione di massa) abbiano la capacità di influire sugli eventi della quotidianità, di creare un immaginario, di stabilire nuove tendenze, in un discorso pregno e carico anche di una forte valenza politica, meno marcata rispetto ad altri film dello stesso regista, ma comunque presente e fondamentale.
Sul piano della rappresentazione stupiscono la simmetria nella composizione dell’immagine e i movimenti di macchina che elegantemente raccontano la realtà dell’ospedale psichiatrico. Il male che contagia la popolazione ne sfigura i volti, con delle trovate visive che toccano le vette del miglior body horror. Linda, tra le protagoniste della vicenda, dopo aver letto la realtà nel libro di Cane piange sangue come la Rosie Kelvin di Paura nella città dei morti viventi (1980) di Lucio Fulci. Tra effetti speciali artigianali e digitali la fantasia visiva di John Carpenter sembra non avere freni, in un film che risulta essere un piacere tanto per la mente quanto per gli occhi, e il cui minutaggio vola via prima ancora di far accusare allo spettatore alcun segno di stanchezza.
Oh, vita mia!” Mostrami le tue carte. In modo che non possa perdere contro il destino. Ho i miei standard per te. Sono sempre pronto a benedirti!”