Nel 1950 escono due film che rivoluzioneranno il genere western americano: il primo è Broken Arrow (L’amante indiana, di Elliott Arnold), il secondo Devil’s Doorway (Il passo del diavolo, di Anthony Mann). Entrambi riflettono sul rapporto tra bianchi e nativi americani, mettendo in discussione l’identità nazionale americana, che aveva scelto il genere western come suo portavoce preferito. In Broken Arrow, un soldato bianco e un nativo americano diventano fratelli di sangue, scatenando le polemiche e la violenza degli uomini bianchi; fu il primo film effettivamente di successo a trattare con rispetto la cultura nativoamericana. Ma con Devil’s Doorway la situazione diventa più complessa: a essere pieno protagonista di una storia di ingiustizie, pregiudizi e soprusi è Lance, della tribù Shoshone.

Durante il Festival del Cinema Ritrovato, Il passo del diavolo è stato introdotto dal regista tedesco Wim Wenders, grandissimo fan dei lavori di Anthony Mann. Wenders ha parlato della portata rivoluzionaria del film, ponendo particolare attenzione sul nome del direttore della fotografia, John Alton. E più avanti capiremo perché.

Rivendicare la propria terra

Lance Poole (Robert Taylor), guerriero della tribù Shoshone, è appena tornato dalla Guerra di Secessione, dove ha combattuto al fianco degli uomini bianchi e ha saputo distinguersi guadagnando anche una medaglia al valore.

“ – La guerra ti ha cambiato.

   – Ha cambiato il paese, tutti quegli uomini non sono morti invano.”

Eppure, la guerra civile potrà essere terminata nell’est, ma nell’ovest il pregiudizio e la discriminazione sono più vivi che mai. Tornato in Wyoming, Lance riceve una pugnalata dopo l’altra: gli sguardi sospettosi degli abitanti della cittadina, il rifiuto del medico locale di occuparsi di suo padre perché nativo, e poi il problema più grande, il terreno di cui Lance è proprietario. L’uomo, infatti, possiede un piccolo ranch in una splendida vallata, e non ci vorrà molto prima che quasi tutti gli abitanti (bianchi) della cittadina lì vicino, inizino ad avanzare pretese sul terreno, perfetto per pascolare il loro bestiame in un periodo di forte siccità.

Ma, com’è facile immaginare, Lance non vuole assolutamente cedere i suoi pascoli agli uomini bianchi che l’hanno guardato con disprezzo dal momento in cui è tornato, ignorando completamente la medaglia che porta sul petto. La situazione diventa ancora più complicata quando il protagonista decide di ospitare nel suo ranch un gruppo di nativi americani, con donne e bambini, fuggiti dalla vicina riserva per via delle terribili condizioni di vita.

“È difficile spiegare il rapporto tra un indiano e la terra… mio padre diceva sempre che la Terra è nostra madre.”

Da ciò nascerà una battaglia legale, in cui l’avvocato Coolan (Louis Calhern), dalla parte dei cittadini bianchi, sfrutterà un cavillo giudiziario e la nuova legge sui possessori di terreni per accusare Lance di non avere alcun diritto sulla vallata; lui, a tutti gli effetti, non è un cittadino americano.

Da che parte sta la legge?

Lance si trova messo alle strette, cerca così di procurarsi un avvocato e la sua scelta cadrà sul misterioso avvocato Masters: sarà una sorpresa per il protagonista trovarsi davanti Orrie Masters (Paula Raymond), una giovane donna incoraggiata dal padre a portare avanti la carriera legale, nonostante i numerosi pregiudizi che deve affrontare. Allo stesso modo, Orrie è sorpresa dall’uomo non bianco che si ritrova come cliente, ma prende subito a cuore il suo caso e si impegna nel redigere una petizione per far cambiare la legge. Tuttavia, il suo sforzo non sarà ripagato e i cittadini capitanati da Coolan arriveranno a minacciare il ranch di Poole con la forza (e i fucili).

Orrie si renderà presto conto di come la legge a cui dice di affidarsi completamente e per cui nutre un rispetto e una fiducia profondissimi, non sarà sempre dalla parte di ciò che è “giusto”. Lance, nonostante abbia combattuto al fianco dei bianchi nella guerra civile, non è considerato un vero cittadino americano perché nativo (un’assurdità a cui non si riesce a credere!). Di conseguenza, la vallata dove sorge la sua casa, non è legalmente di sua proprietà e non ha alcun diritto di allontanare chi vi vorrebbe pascolare il bestiame.

“- Secondo la legge non sei cittadino americano.

  – E allora cosa sono?”

Coolan giunge alle porte della vallata con un nutrito gruppo di uomini, intenzionati a impadronirsi del terreno con la forza, Poole e i nativi con lui si barricano nella piccola casa, mettendo in salvo donne e bambini, decisi a difendere la vallata fino alla morte. A nulla servono le parole di Orrie, ormai molto affezionata al protagonista, nel convincerlo a lasciare il ranch: Lance è profondamente legato alla sua casa e non la lascerebbe mai, neanche a costo di perdere la vita.

“La cosa peggiore per un indiano è sentire un avvocato che continua a dirgli di arrendersi.”

Le ultime parole che dirà a Orrie sono il riflesso del sentimento di totale rassegnazione che Lance prova nei confronti della società americana: “Non piangere, tesoro. Tra cent’anni sarebbe potuta funzionare.”

L’avvocata Masters, come ultimissimo tentativo di evitare la tragedia, chiederà aiuto alla cavalleria, fiduciosa nel fatto che un sergente non potrebbe mai tirarsi indietro davanti a un proprio soldato (decorato, tra l’altro) minacciato e in pericolo di vita. Purtroppo, anche qui Orrie dovrà ricredersi: la cavalleria si schiera contro Poole e partecipa alla terribile sparatoria che ucciderà tutti gli uomini presenti nel ranch, risparmiando solo donne e bambini. Lance, gravemente ferito, uscirà dal suo nascondiglio con indosso l’uniforme da soldato, e morirà poco dopo aver fatto il suo ultimo saluto al sergente. La giubba e la medaglia non valgono niente, perché è il colore della pelle di Lance a essere sbagliato.

Anthony Mann e John Alton tra western e noir

Devil’s Doorway, ormai l’abbiamo capito, non è il classico film western. Sei anni pima di Sentieri Selvaggi ci parla di tematiche che portano alla luce gli “scheletri nell’armadio” di un’intera nazione. Andando oltre le questioni che il film affronta, è bene soffermarsi anche su chi vi ha lavorato, in particolare il regista Anthony Mann e il direttore della fotografia John Alton. La loro collaborazione ci ha regalato un prodotto unico e rivoluzionario, anche dal punto di vista tecnico/estetico.

Morto nel 1967 sul set di un film a Berlino, Anthony Mann ha iniziato la sua carriera negli anni ‘40 con i B-movies, trampolino di lancio per moltissimi cineasti emergenti del periodo. Il suo lavoro a servizio della RKO si concentrò principalmente sui noir, dei quali il più famoso e apprezzato è Desperate (Morirai a mezzanotte, 1947); gli stilemi del noir e del B-movie si rivedono anche nella sua produzione dei decenni successivi, concentrata maggiormente sul western. Anche Devil’s Doorway non è da meno: moltissime sono le sequenze in cui messa in scena e illuminazione ricordano da vicino l’atmosfera del noir, ma anche i thriller/horror prodotti da Val Lewton per RKO come Cat People (Il bacio della pantera, 1942). Il merito è da attribuire anche a John Alton, anche lui formatosi sui B-movies a partire dagli anni ‘30, divenuto famoso per i suoi giochi di luci e ombre fortemente contrastanti e per l’illuminazione non convenzionale della messa in scena. Non dimentichiamo che Alton era di origini tedesco-ungheresi, per cui non possiamo escludere che abbia portato un po’ di espressionismo tedesco nelle sue opere.

In Devil’s Doorway, una delle scene più significative per comprendere la bellezza di regia e fotografia vede Lance coinvolto in una rissa con degli uomini bianchi in un saloon: messa in scena e illuminazione ricordano da vicino noir come Detour (Deviazione per l’inferno, 1945), ma anche i classici horror gotici Universal degli anni ‘30. E come non vedere un collegamento tra la linea di luce che colpisce gli occhi di Lance e quella che illumina per la prima volta il terrificante “non-morto” in I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno Zombie, 1943). Non solo western, quindi, ma dramma, noir, persino thriller a volte; Devil’s Doorway è il riflesso della carriera di Mann e Alton, breve ma molto prolifica per il primo, più lunga per il secondo che vincerà l’Oscar per la fotografia di An American in Paris (Un americano a Parigi, 1951).

Devil’s Doorway mette in scena la difficile questione dell’identità americana e della sua messa in discussione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nonostante Lance sia interpretato da un attore bianco, la scelta di mettere come protagonista un nativo americano risulta molto forte nell’epoca in cui il film si inserisce. Per grandissima parte del Novecento (e oltre) la comunità dei nativi americani ha subito pesanti ingiustizie e oppressioni anche dal mondo di Hollywood: i bianchi del western classico sono gli eroi, i nativi sono il male da distruggere, “l’unico indiano buono è un indiano morto”. Le reazioni violente al discorso dell’attivista Sacheen Littlefeather durante la cerimonia degli Oscar 1973 ci ricordano ogni giorno quanto sia importante far leva su determinate tematiche e scheletri nell’armadio che il popolo bianco statunitense non ha mai avuto il coraggio di affrontare davvero.

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Renata Capanna,
Redattrice.