All’inizio degli anni ’30, con l’avvento del sonoro, nasce in America un nuovo genere cinematografico, il musical. A seguito del crollo di Wall Street e della conseguente crisi del’29, l’industria cinematografica statunitense attraversò un momento particolarmente instabile che ha costretto le majors a reinventarsi per riportare in sala quanta più gente possibile e far fronte al calo di biglietti.

Il musical si inserì a gamba tesa in questo scenario in quanto genere spettacolare e sintesi di tre arti: recitazione, danza e musica.

In poco tempo iniziarono a delinearsi diversi sottogeneri e filoni. Uno dei più noti è sicuramente il backstage musical, inaugurato nel 1929 con The Broadway Melody.
Il film è incentrato sulla preparazione di uno spettacolo teatrale attorno al quale si snodano le storie degli attori. Non è un caso che la pellicola sia ambientata a Broadway, patria per eccellenza del genere musicale. A tal proposito, molti spettacoli di Broadway vennero successivamente adattati per il grande schermo da Hollywood. Accanto al sonoro, il sistema Technicolor fu un ulteriore innovazione tecnologica che permise il consolidamento e il successo del genere musical grazie alle sue potenzialità spettacolari in grado di attirare in sala il grande pubblico. In breve tempo, tra gli anni Trenta e Quaranta, il Technicolor divenne un elemento imprescindibile delle grandi produzioni ad alto budget, come nel caso di Via col Vento. Accanto a quest’ultimo, il Mago di Oz fu una delle prime pellicole a saper sfruttare al meglio la grandiosità del sistema Technicolor al punto da trasformarlo nella propria cifra stilistica.

IL MAGO DI OZ: UN FILM SENZA AUTORE     

Il Mago di Oz (1939) è tratto dall’ omonimo romanzo di formazione di Frank Baum, pubblicato agli inizi del 1900. Nonostante i precedenti e numerosi adattamenti del testo, nel 1937 la MGM predispose una nuova trasposizione cinematografica dell’opera in risposta al successo del primo lungometraggio Disney, Biancaneve e i sette nani. Inizia così la lunga e travagliata lavorazione di quello che diventerà uno dei film classici per eccellenza.

Il Mago di Oz è una pellicola che incarna alla perfezione il modello hollywoodiano di produzione cinematografica nell’era dello studio system. Un modus operandi incentrato sulla collettività piuttosto che l’individualità. Prodotto dalla Metro-Goldwyn-Mayer, il Mago di Oz possiede, infatti, molti tratti caratteristici delle pellicole prodotte dalla major fondata da Marcus Loew e Louis B. Mayer nel 1924. Durante il periodo della Golden Age hollywoodiana le pellicole MGM possedevano un aspetto più sfarzoso rispetto a quelle prodotte dalle altre majors. Ciò era dovuto in primo luogo alla scelta dei professionisti – nomi del calibro di Vincente Minnelli e George Cukor-, ma anche degli attori, alcuni tra le più grandi star del momento: nel suo firmamento la MGM poteva vantare Clark Gable, Mickey Rooney e, infine, Judy Garland.

Vista l’ingerenza continua della MGM nelle fasi di lavorazione, il Mago di Oz è considerato un film “senza autore” poiché furono tanti i registi che si susseguirono durante la realizzazione del progetto, coordinato dai produttori Mervyn LeRoy e Arthur Freed.             

In particolare, furono quattro i registi che parteciparono al film subentrando l’uno a l’altro a distanza di un tempo estremamente ravvicinato. In aggiunta a ciò, vennero coinvolti undici sceneggiatori e impiegati ben centotrentasei giorni di ripresa.

In questo periodo, il concetto di autore in relazione alla professione del regista non aveva ancora preso piede all’interno dell’industria cinematografica. Negli anni ’30, la figura del regista era considerata un semplice ingranaggio dello studio system, alla stregua degli altri tecnici del settore. Alla guida di questa grande macchina produttiva vi era il produttore, che coordinava le squadre di lavoro e sovrintendeva le fasi creative e operative. Il regista non aveva, dunque, alcuna libertà creativa o alcun diritto sull’opera finale. Il suo compito era semplicemente quello di eseguire degli ordini, quelli del produttore e della casa di produzione. 

Dovremo aspettare alcuni anni prima che i registi vengano considerati i veri autori delle pellicole da loro dirette. In tal senso, il regista Frank Capra è stato uno dei precursori della così detta “politique des auteurs”, teorizzata da André Bazin alla fine degli anni ‘50.

UNA PRODUZIONE TRAVAGLIATA

La produzione del Mago di Oz prese avvio con l’intenzione di superare Biancaneve e i sette nani della Disney, uscito poco tempo prima nel 1937. Il primo film d’animazione della Disney, distribuito dalla RKO Radio Pictures, era stato un successo straordinario al botteghino. La MGM non poteva essere da meno

Il Mago di Oz fu, quindi, progettato impiegando lo stesso schema adottato da Biancaneve che prevedeva l’ibridazione di un soggetto letterario e fiabesco con il genere musicale.  Per tentare di superare la Disney in tutto e per tutto, LeRoy e Freed misero in piedi una macchina progettuale complessa. Anche per questa ragione, la lavorazione di questo progetto fu lunga e travagliata, soggetta a numerosi cambi di rotta. Il primo dei dieci sceneggiatori ad essere coinvolto nella stesura della sceneggiatura fu Herman J. Mankiewicz, fratello del famoso autore dello script di Citizen Kane. Mankiewicz si occupò di redigere un primo trattamento del testo non sapendo, tuttavia, che l’incarico era stato affidato contemporaneamente anche a Ogden Nash e Noel Langley. Questa pratica non era cosa nuova per l’industria hollywoodiana. La fabbrica dei sogni doveva andare avanti ad ogni costo impiegando quanta più gente possibile per ottimizzare i tempi e i costi. The Show must go on. 

Per quanto riguarda la regia, invece, la situazione non era molto dissimile. Il primo ad aver ricevuto l’incarico è stato Richard Thorpe, il quale fu allontanato dal set dopo solo due settimane perché ritenuto inadeguato. Poi fu il turno di George Cukor, all’apice della sua carriera. Il regista, tuttavia, rimase solo tre giorni poiché successivamente chiamato a dirigere Via col Vento. A Cukor si deve la sostituzione della parrucca bionda di Dorothy con una capigliatura semplice e naturale che permise alla protagonista di aderire al meglio all’ideale di ragazza di provincia acqua e sapone. Il terzo ad essere chiamato in ballo fu Victor Fleming, il cui nome figura nei credits finali e a cui è attribuita la “paternità” della pellicola. Fleming, tuttavia, lavorò al film per ben quattro mesi, ma a pochi giorni dal termine delle riprese fu costretto ad abbandonare il set per sostituire Cukor alla direzione di Via Col Vento. Al suo posto subentrò King Vidor, celebre autore indipendente con alle spalle una ricca carriera nel periodo del muto. 

Il regista porterà a termine le riprese lasciate incompiute dal suo collega, senza però figurare nei titoli di testa.

Per quanto riguarda il ruolo di Dorothy Gale, in un primo momento venne presa in considerazione la diva bambina Shirley Temple.  Alla fine, dopo numerose trattative, la scelta ricadde sulla quindicenne Judy Garland, decisamente più avanti con gli anni ma superiore alla Temple per doti canore. Non vi fu scelta più azzeccata.  La canzone Over the Rainbow, interpretata dalla Garland, avrà un incredibile successo garantendo alla giovane attrice un posto nel firmamento delle star di Hollywood ma, ancor più, nella storia del cinema. 

Tuttavia, successivamente l’uscita del film, iniziarono a diffondersi numerose voci sul trattamento riservato alla Garland sul set. Nel corso di molte interviste l’attrice ha rivelato di essere stata sottoposta a numerose vessazioni psicologiche. Tra queste ha raccontato di essere stata costretta da L. Meyer a sottoporsi ad una dieta rigidissima e a fumare tra una ripresa e l’altra pur di non prendere peso. Queste dichiarazioni mettono in luce un aspetto oscuro e, purtroppo, ancora molto attuale dell’industria cinematografica e di Hollywood.

UN MONDO A COLORI IN FORMATO TECHNICOLOR

Il film inizia in bianco e nero mostrandoci la monotona quotidianità di Dorothy; eppure questo grigiore viene presto spazzato via da un violento tornado che scaraventerà la piccola Dorothy e il suo cagnolino Toto nel Mondo di Oz. Dopo aver messo un piede fuori casa, la ragazzina si renderà conto di “non essere più in Kansas”, ma in un mondo dai colori brillanti e vivaci. Lo stupore della piccola Dorothy è lo stesso degli spettatori del tempo, travolti dalla meraviglia del formato Technicolor.

Lo scenografo Randall Duell si occupò personalmente del processo di colorazione del Mago di Oz e in molti interventi ha ricordato le numerose difficoltà affrontate durante la lavorazione del film: 

“Il film a colori non era ancora stato perfezionato all’epoca. Dovevamo fare un sacco di test ed esperimenti con la pellicola per ottenere i colori da ricreare correttamente. Iniziavamo a riprendere un set una settimana o due prima che fosse utilizzato. Dovevamo fare test cromatici per ogni set non solo per le parti dipinte ma anche per gli sfondi. Una parte della Strada di mattoni gialli era un fondale dipinto. Se non fosse stato dipinto e illuminato correttamente, sarebbe sembrato un fondale dipinto”.

       

Nei primi anni ’30 venne, infatti, inaugurata una macchina da presa dotata di prismi attraverso i quali veniva suddivisa la luce, proveniente dell’obiettivo, su tre pellicole in bianco e nero, una per ogni colore primario. Si inizia a parlare di Technicolor. Questo sistema era estremamente costoso in virtù della sua capacità di conferire al film maggiore spettacolarità e attrattiva. La colorazione Technicolor cala la storia in un’atmosfera fantastico-onirica che tanto di distaccava dal realismo delle pellicole in bianco e nero. Si comprende, dunque, la scelta di impiegare colori volutamente anti naturalistici per far avvicinare il più possibile il film a un disegno animato, rimarcandone l’aspetto fiabesco della terra di Oz. Ciò fu favorito anche dall’impiego di costumi cartooneschi per i compagni d’avventura di Dorothy e di scenografie dipinte e dichiaratamente artificiali. A tal proposito, il critico Salman Rushdie evidenzia questo aspetto del film ponendolo a confronto col suo rivale, Biancaneve:

“Si riesce quasi a sentire i responsabili degli studi MGM che discutono il modo di mettere in ombra il successo di Disney. […] La stessa scelta di usare il colore per le scene ambientate a Oz- in contrapposizione al bianco e nero virato seppia del prologo e dell’epilogo, che si svolgono nella grigia realtà del Kansas- è funzionale alla realizzazione di un film capace di rivaleggiare con le creazioni di Walt Disney. Infatti sin dagli inizi degli anni Trenta la Disney si era largamente affidata al colore per creare il clima “magico” delle sue storie. Non è certo un caso che il primo film hollywoodiano in Technicolor sia stato prodotto proprio da Walt Disney: Fiori e Alberi (Flowers and Trees,1932)”.

Anche in questo senso si comprende la scelta di cambiare il colore delle scarpette di Dorothy, da argento nel romanzo a rosso rubino nel film, per risaltare maggiormente i toni sorprendenti del Technicolor. Un piccolo cambiamento per lasciare ancor più di stucco il grande pubblico.

Nonostante la lavorazione lunga ed estenuante, non si poté parlare del Mago di Oz come di un successo. I costi elevati delle riprese, della realizzazione e della post produzione non furono mai totalmente ripagati dagli incassi al botteghino. Il vero successo arriverà molti anni più tardi quando la pellicola sarà riscoperta grazie all’home video e alla diffusione televisiva che la eleverà allo status di film cult. Ciò nonostante, la canzone Somewhere Over the Rainbow ha attraversato intere generazioni dal 1939 in poi e tuttora continua a risuonare nei salotti e nei cinema di tutto il mondo

Questo articolo è stato scritto da:

Benedetta Lucidi, Redattrice