A partire dalla seconda metà degli anni Settanta ha inizio una progressiva e inesorabile crisi per il cinema italiano, crisi che non riguarda tanto la qualità dei film quanto l’organizzazione di un sistema produttivo che nel nostro Paese non è mai riuscito a raggiungere lo statuto di industria unificata. Proliferano case di produzione incapaci di andare oltre la realizzazione di un singolo film, i pochi generi popolari fortunati al box office (dalla commedia sexy al cinepanettone) sono incapaci di sostenere l’intero fabbisogno produttivo e gettano cattiva luce sull’immagine di una cinematografia che sarà sempre più snobbata dagli italiani stessi, che ben presto assoceranno il cinema italiano a bassi standard produttivi e, senza mezzi termini, scarsa qualità.

Il tutto favorirà l’industria cinematografica americana, sempre più aggressiva nelle strategie di colonizzazione internazionale, e in un mutato contesto sociale i cinema verranno sempre più disertati dal pubblico, con la conseguente chiusura di molte sale di seconda e terza visione e successivamente con la loro definitiva scomparsa: che sia per il clima di insicurezza degli anni di piombo, per la proliferazione della programmazione di film nelle televisioni private, per l’avvento del mercato home video o per un fisiologico calo di interesse del pubblico nei confronti di un medium che non rappresenta più una novità, scavalcato da nuove forme di intrattenimento più accattivanti.

Abbiamo specificato come la crisi riguardi il sistema-cinema e non la qualità dei singoli film: proprio in questi anni e nei decenni successivi, infatti, emergeranno e si affermeranno nomi di registi capaci di lasciare il segno sia in Italia che all’estero, ottenendo importanti riconoscimenti nei maggiori festival europei e anche nelle premiazioni più blasonate sul piano internazionale. Basteranno alcuni esempi: dalla seconda metà degli anni Settanta a oggi sono ben tre i film italiani a ottenere la Palma d’Oro al Festival di CannesPadre Padrone (1977) dei fratelli Taviani, L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi e La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti – e altri film saranno premiati a Cannes con diversi riconoscimenti – come il Grand Prix Speciale della Giuria per Il ladro di bambini (1992) di Gianni Amelio e il Premio per la miglior regia per Caro diario (1993), anche questo di Nanni Moretti. Senza contare i numerosi successi agli Oscar con il premio per il Miglior film internazionale (un tempo Miglior film straniero) per Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, con un felice ritorno alla vittoria nel 2014 con La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino.

Se la stragrande maggioranza dei film citati possono essere a tutti gli effetti considerati come delle opere capaci di penetrare l’immaginario collettivo – restando impresse nella memoria popolare (come per Nuovo cinema Paradiso o La vita è bella), trovando ampia circolazione nelle maggiori piattaforme di streaming (Mediterraneo o La grande bellezza) o configurandosi come delle perle apprezzate dai cultori di un cinema più ricercato (Padre Padrone, L’albero degli zoccoli o Caro diario) – uno di questi film sembra non aver superato le barriere ideali che lo separano dal riconoscimento effettivo del suo valore e dalla memoria di un pubblico affezionato: per esclusione, il film in questione è Il ladro di bambini.

Il ladro di bambini è un vivido ritratto dell’infanzia rubata, di un Paese e delle sue ingiustizie, della crisi della famiglia e della ricerca di affetti in realtà diverse da quelle tradizionali. Prima di tutto, però, il film di Gianni Amelio è un viaggio nel cuore dell’Italia – da Milano alla Sicilia, passando per Bologna, Roma e la Calabria – tra ambienti ufficiali asettici, bellezze naturali e brutture impiantate dall’azione maldestra e irrispettosa dell’uomo. Qui emerge un’Italia fatta di povertà e semplicità, di degrado e continui tentativi di riscatto, di indifferenza alternata a spontanee dimostrazioni di solidarietà. È in questo contesto che si dipana l’azione di Antonio (Enrico Lo Verso), carabiniere calabrese in servizio a Milano, responsabile del trasferimento di due bambini, tolti dalla custodia della madre dopo il suo arresto, verso un istituto prima a Roma e poi in Sicilia. A causa di un malore del più piccolo dei due fratelli, Luciano (Giuseppe Ieracitano), il viaggio subirà dei ritardi e ben presto emergerà l’entità dei traumi dei due fratelli, soprattutto dell’undicenne Rosetta (Valentina Scalici), legati al contesto familiare di provenienza.

La storia raccontata è semplice, al limite del minimalismo. A renderla così speciale sono la delicatezza e la dolcezza messe in campo, responsabili di un’atmosfera che, rischiando di banalizzare il concetto, potremmo definire evocativa, lirica o persino “poetica”. La regia di Gianni Amelio non è invadente ed è vicina ai personaggi, attenta ai piccoli gesti, capace di valorizzare la recitazione di attori non professionisti, valore aggiunto specie considerando l’età di due dei tre protagonisti e la difficoltà nel catturare con naturalezza l’azione e la parola di bambini, senza scadere nell’evidente artificio. In sostanza, Amelio fa tesoro della lezione del neorealismo della coppia composta da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica.

Proprio come accade nei grandi capolavori del dopoguerra della coppia Zavattini – De Sica, l’attenzione è incanalata sui volti e sui silenzi: per gran parte del film Luciano, il più piccolo dei due bambini, non parla e quando lo fa le sue parole, semplici e quotidiane, assumono una valenza maggiore e si stagliano al di sopra del resto, nonostante i concetti espressi siano esattamente quelli tipici di un bambino della sua età. Al contrario Rosetta, la sorella maggiore, ha sempre la risposta pronta e una lingua spesso tagliente, è stata privata della sua infanzia e ha imparato a sue spese come funziona il mondo, ma quando Amelio cattura i suoi silenzi, il dolore nel suo volto pervade l’immagine, che diviene perfetta catalizzatrice di malinconia ed esemplificazione dell’ingiustizia narrata.

Parlando di infanzia rubata, all’origine di ogni disgrazia presente ne Il ladro di bambini si trova la famiglia. Se in Ladri di biciclette, nonostante le difficoltà legate al contesto del dopoguerra, la famiglia resta un pilastro inamovibile contro la dissoluzione di ogni certezza, nel film di Amelio il discorso è ben diverso. A contare davvero non sono i legami di sangue, quelli biologici, perché i genitori abbandonano o prendono delle cattive decisioni; al contrario uno sconosciuto, mosso da un sentimento sincero e genuino, può prendersi cura del prossimo lasciando un’impronta indelebile nella sua vita. E nell’incontro generazionale portato in scena, chi più di Antonio può essere definito come un padre per Rosetta e Luciano? Il paragone con il neorealismo si spreca considerando come la storia narrata sia ispirata a un fatto di cronaca e come il disfacimento dell’istituzione-famiglia fosse uno tra i temi cardine della fine dello scorso secolo.

Delle semplici curiosità lasciano inoltre intravedere la lungimiranza di Gianni Amelio nell’impostare il tono della narrazione. Il ruolo di Antonio, interpretato egregiamente da Enrico Lo Verso ha “rischiato” di passare per due figure di enorme rilievo nel panorama cinematografico nazionale e internazionale: la prima è niente meno che Massimo Troisi, la seconda Antonio Banderas; Massimo Troisi avrebbe sicuramente rappresentato una scommessa tanto allettante quanto rischiosa: nel corso della sua carriera, l’attore e autore campano ha saputo dimostrare enorme sensibilità e una vena malinconica che ben si sposa con il film di Gianni Amelio; lo ha fatto anche in film diretti da altri registi, nel pieno rispetto degli equilibri messi in campo, come nel caso di Che ora è (Ettore Scola, 1989). Il rischio che però un mostro sacro come Troisi potesse fagocitare l’attenzione e la scena non è indifferente: è proprio in questo che Enrico Lo Verso eccelle, defilato, mai eccessivo, cosciente e rispettoso dell’importanza della coralità di questo affresco.

Il discorso è diverso per Antonio Banderas. Non è necessario indagare le sue capacità recitative o la sua carriera per capire come fosse totalmente inadatto al ruolo di protagonista nel film di Amelio, per un motivo più che semplice: Banderas non è italiano. Il ladro di bambini è un viaggio attraverso l’Italia, scandito da atmosfere autentiche e personaggi che nei migliori dei casi, come per la nonna di Antonio, appaiono non finzionali ma documentaristici. L’Italia viene catturata nella sua reale forma senza lesinare contraddizioni e aspetti negativi, dall’ambiente al pensiero condiviso. In questo privilegiare una dimensione tutta italiana del racconto risulta quasi emblematica la scelta di inserire nella colonna sonora del film Sognando La California dei Dik Dik al posto di California Dreamin’ dei The Mamas and The Papas, correttamente amalgamata in un contesto di musiche capaci di creare un’atmosfera evocativa e a tratti sospesa, con un alcuni momenti in cui il contrasto tra il tono della scena e le musiche raggiunge delle vette brillanti.

Il tragico – per quanto aperto – finale del film apre a molteplici interrogativi e spinge a riflettere sul confine tra giusto e sbagliato, bene e male, legge e giustizia. Ma per concludere, è necessario sottolineare l’elemento che più di tutti rende Il ladro di bambini un film imprescindibile per la cinematografia italiana degli ultimi decenni: la rappresentazione del mondo dell’infanzia è tra le migliori che si possano trovare, per nulla stereotipica, apparentemente non macchiata dal filtro di uno sguardo adulto e disincantato, senza tuttavia scadere nel puerile. Ciò è reso possibile soltanto da una spiccata sensibilità nell’intercettare una realtà percorsa da tutti ma le cui tracce, in fondo, svaniscono con il tempo fino a diventare un ricordo distorto.

icona
Alessandro Corrao,
Redattore.