Our doggies have traveled all day.
Our doggies keep straying away.
Settle down, little doggies.
This is home for tonight.
Settle down, little doggies.
We’ll be traveling soon as it’s light.
Look away, little doggies.
Look away to the town.
Far away, little doggies.
So tonight you’d better settle down.
Testo della canzone Settle Down, composta da Dimitri Tiomkin per Il fiume rosso
Nella sua lunga e prolifica carriera, Howard Hawks (1896-1977), tra i più eclettici e geniali autori dell’epoca d’oro di Hollywood, diresse cinque western. Se si esclude Il mio corpo ti scalderà (1941), per la cui regia è accreditato solamente il celebre Howard Hughes, le opere del maestro ascrivibili a questo genere sono, in ordine cronologico, Il fiume rosso (1948), Il grande cielo (1952), Un dollaro d’onore (1959), El Dorado (1966) e Rio Lobo (1970). Proprio al primo western di Hawks, il cui titolo originale è Red River, è dedicata questa analisi, che cercherà di portarne alla luce i principali filoni tematici, di sviscerarne i personaggi e le loro relazioni e infine di studiare nel dettaglio almeno una breve scena di questo capolavoro, per far emergere le caratteristiche fondamentali della messinscena del regista, tra le più alte testimonianze dello stile hollywoodiano dell’epoca.
UN’EPOPEA DAGLI ECHI BIBLICI ED EDIPICI
Tratto dal racconto Blazing Guns on the Chisholm Trail di Borden Chase, pubblicato sul «Saturday Evening Post» tra 1946 e 1947 e da lui stesso adattato insieme a Charles Schnee, il film ha per protagonista Tom Dunson (John Wayne) che, insieme all’amico Nadine Groot (Walter Brennan), abbandona una carovana diretta in California per stabilirsi nel Texas settentrionale e creare la propria mandria. Poco dopo, la carovana viene assaltata dagli indiani e i due raccolgono lungo il cammino il giovane orfano Matt Garth (Mickey Kuhn da ragazzo, Montgomery Clift da adulto), unico sopravvissuto all’attacco, in cui è invece morta la donna di cui Dunson è innamorato. A quel punto, Tom, Nadine e Matt si uniscono e portano avanti il progetto di dar vita a un proprio ranch. Quattordici anni dopo, Dunson possiede ormai diecimila capi di bestiame e Matt è diventato un abile pistolero. I due, insieme a Nadine e a vari dipendenti, partono alla volta del Missouri con la mandria, per vendere le bestie in quello stato e ottenere un buon profitto, ma durante il viaggio l’atteggiamento sempre più tirannico di Dunson lo porta a scontrarsi con Matt, che prende il controllo delle operazioni e decide di percorrere la Pista Chisholm fino ad Abilene, Kansas.
Come ha scritto Manuel Billi su «Sentieri selvaggi», Il fiume rosso appartiene al filone “umanista” del western classico, in cui il conflitto tra individualità prevale sull’azione e sulla violenza. Hawks, in particolare, costruisce uno scontro edipico tra padre e figlio adottivo e lo incardina all’interno di una narrazione che recupera la suggestione biblica dell’Esodo, sdoppiando il personaggio di Mosè nei due protagonisti, Dunson e Matt, che finiscono per rappresentare le due anime del West. Dunson – un John Wayne straordinario, della cui intensità interpretativa si stupì anche John Ford – rappresenta il pioniere indomabile e testardo, indurito dai travagli della vita di frontiera e pieno di contraddizioni, come dimostra quando uccide a sangue freddo coloro che si oppongono a lui, per poi farli seppellire e leggere preghiere alle loro esequie: “Riempire un uomo di piombo, metterlo sottoterra e pregare… Perché, dopo aver ucciso un uomo, si prega il Signore come fosse il proprio complice?”, si chiede sbigottito uno dei mandriani alle dipendenze del tirannico cowboy. Dunson è il domatore della wilderness, la natura selvaggia, come dimostra la sequenza in cui i tre protagonisti, verso l’inizio del film, giungono per la prima volta nel luogo in cui daranno vita al proprio ranch e Hawks li inquadra prima dal basso (figura 1), come autentiche figure mitologiche, e poi di schiena a figura intera (figura 2), mostrando i loro corpi torreggianti rispetto alla prateria antistante. Un’altra sequenza interessante da questo punto di vista è quella in cui Laredo e Teeler, i due mandriani “disertori” che tentano di abbandonare la spedizione, vengono catturati e portati di fronte a Dunson, che – nel bel mezzo della natura, in mancanza di un giudice – si autoproclama rappresentante della Legge e afferma di voler impiccare i due. È come se Dunson volesse apparire come un baluardo di civiltà in un luogo in cui la società e le sue norme ancora non sono giunte, ma la sua applicazione della legge è sommaria e bestiale, selvaggia come la natura che lo circonda.
Matt, a cui Montgomery Clift dona tutta la propria vulnerabilità giovanile, è un figlio ribelle, diviso tra l’affetto per il padre putativo e il riconoscimento della sua follia tirannica e delirio di onnipotenza. Dopo lo scontro con Dunson, che viene lasciato indietro e promette di vendicarsi, Matt e l’interpretazione di Clift si fanno più inquiete e malinconiche, come consapevoli che in definitiva figlio e padre dovranno tornare a incontrarsi, per un ultimo definitivo confronto. Sono splendide, in questo senso, le sequenze notturne in cui il giovane si aggira nei dintorni dell’accampamento dove ha conosciuto Tess Millay (Joanne Dru), la sua amata. Immerso in una fitta nebbia che può ricordare persino pellicole di ambientazione gotica, Matt si aggira irrequieto, impaziente e al tempo stesso timoroso di dover presto rincontrare Dunson e fare i conti con il suo desiderio di vendetta. È invece raggiunto dalla sua innamorata (figura 3), a cui racconta l’affetto e l’ammirazione che nutre per il genitore adottivo e per la sua capacità di dar vita al proprio sogno, tutto americano, di creare un ranch e poter un giorno mettere a frutto le fatiche di una vita. In questo senso, non sono assurde le teorie di chi ha visto nel rapporto tra Matt e Dunson una forma di amore omosessuale latente: entrambi i personaggi, in effetti, soffrono come innamorati proprio per il sentimento che li lega, che sarebbe riduttivo definire “amicizia virile”. Non è un caso che, nel finale, sia proprio Tess Millay a favorire (con toni quasi da commedia) la riconciliazione tra i due personaggi, ricordando loro espressamente che “chiunque con un po’ di sale in zucca capirebbe che voi vi amate” e che continuare la contesa sarebbe assurdo. Il film, interamente ambientato nella natura selvaggia, si chiude in effetti nella cittadina di Abilene, Kansas, dove Matt e i suoi sono accolti dall’arrivo del treno: è un luogo di civiltà e progresso (significativo è lo stupore del giovane quando entra nell’ufficio del signor Greenwood, il commerciante di bestiame a cui venderà la mandria, e si ritrova, dopo tre mesi, con un tetto sopra la testa), contrapposto alla wilderness, dove finalmente i conflitti possono essere risolti con maniera civile. E il fatto che il film si chiuda con Dunson che propone a Matt di aggiungere la sua iniziale nel logo del ranch è indicativo della più grande dichiarazione d’amore che ci si possa aspettare dal personaggio di John Wayne: è l’invito a condividere un sogno americano fatto di fatica, sacrifici e lavoro. Gli elementi che hanno costruito una nazione e la civiltà statunitense.
LA PARTENZA PER IL MISSOURI: UNA SCENA CAPOLAVORO
Il fiume rosso è una pellicola ricca di sequenze indimenticabili, incluse alcune tra le più belle scene di massa della storia del cinema: in questo caso, le masse non sono composte tanto da uomini, bensì da animali. La gigantesca mandria di Dunson, infatti, è pressoché onnipresente nel film e i bovini, tra cui ci sono i celebri Longhorn del Texas, riempiono i fotogrammi e danno vita a diverse scene davvero impressionanti.
Una delle vette della pellicola è senza dubbio la scena che mostra la partenza della mandria dal ranch alla volta del Missouri. Ambientata all’alba, è una sequenza silenziosa, dal ritmo quasi sospeso, che vibra di tensione per l’imminente partenza ed esplode in una festosa epicità quando finalmente Dunson dà il via ai mandriani e la massa di manzi comincia a muoversi. Dopo aver sinteticamente riassunto il contenuto della scena, la analizzeremo inquadratura per inquadratura, cercando di evidenziarne i più significativi aspetti stilistici.
La scena si compone di trentanove inquadrature. La prima è un campo medio che mostra dei manzi in primo piano e diversi cowboy sullo sfondo (figura 4), mentre la seconda mostra un uomo a cavallo che guarda l’immensa mandria (figura 5). La colonna sonora di Dimitri Tiomkin, solitamente epica e baldanzosa, è a mala pena udibile, un accompagnamento lieve, che suggerisce l’inquietudine del momento, la quiete prima della tempesta. A seguire, tre inquadrature (figure 6-8) mostrano alcuni cowboy in attesa, oltre a Nadine Groot e l’indiano Quo (le spalle comiche del film) seduti a cassetta di due carri. Tutti gli individui paiono guardare qualcuno. Addirittura nelle figure 6 e 8 i cavalieri guardano verso la macchina da presa, pur non arrivando a rompere la quarta parete. Il fatto che tutti concentrino il proprio sguardo su un soggetto fuoricampo coinvolge lo spettatore e ne accresce la curiosità.
Finalmente l’oggetto dell’attenzione dei cowboy è rivelato: un cavaliere, ripreso da Hawks in campo lungo, si dirige verso di loro (figura 9). Nell’inquadratura successiva scopriamo che si tratta di Dunson (figura 10), giunto per dare il via alla transumanza. Rivolgendosi a Matt gli chiede se sia pronto a partire e ottiene risposta affermativa dal figlio adottivo, che è ripreso frontalmente (figura 11), con una finta soggettiva: l’inquadratura parrebbe infatti riprendere la prospettiva degli occhi di Dunson, ma in realtà nessuno dei cowboy guarda direttamente nell’obiettivo della macchina da presa, bensì leggermente più in alto. A quel punto Hawks inquadra nuovamente Dunson, stavolta leggermente dal basso, di tre quarti (figura 12), e l’uomo, dopo un attimo, si volta verso la propria destra (figura 13).
A seguire, il regista realizza un singolo movimento di macchina (mostrato dalle figure 14-19) di straordinaria complessità e ricchezza, che mette in gioco diversi punti di vista e rivela grande conoscenza del linguaggio cinematografico. In realtà si tratta di una semplice panoramica orizzontale a 180° (la macchina da presa, in sostanza, compie un mezzo giro sul proprio asse). Hawks adotta la prospettiva di Dunson che, giratosi a destra nella figura 13, guarda verso la mandria. La macchina da presa a quel punto comincia il proprio movimento verso sinistra e, a poco a poco, inquadra diversi cowboy (figure 14-16). Inizialmente si crede che si tratti di una soggettiva, che rifletta lo sguardo di Dunson passare in rassegna i propri cowboy e la mandria. Tuttavia, ancora una volta, la soggettiva è falsa: i vari uomini a cavallo guardano tutti verso la macchina da presa, ma non concentrano il proprio sguardo sull’obiettivo, bensì leggermente più in alto. In effetti, quando la cinepresa ultima la sua rotazione di 180°, essa conclude il proprio movimento finendo per inquadrare proprio Dunson a cavallo (figura 17), sconfessando definitivamente la possibilità che si trattasse di una soggettiva. Ma l’uomo, inquadrato di profilo, volta il proprio sguardo verso sinistra e dunque riallinea il proprio sguardo rispetto alla prospettiva della cinepresa (figura 18): l’inquadratura, a quel punto, diventa una semisoggettiva (mostra ciò che Dunson guarda senza adottare esattamente il punto di vista dei suoi occhi). Ma non è finita, perché Dunson, poco dopo, si volta proprio verso la cinepresa (figura 19): non guarda propriamente nell’obiettivo (i suoi occhi sono rivolti leggermente a sinistra rispetto alla posizione della macchina da presa), ma l’inquadratura è chiaramente diventata, ancora una volta, una falsa soggettiva, stavolta dal punto di vista di uno dei tre cowboy, uno dei quali è Matt, che Hawks mostra nell’inquadratura successiva (figura 20). Dunque, per ricapitolare, Hawks attribuisce molteplici valenze di linguaggio a una singola panoramica: inizialmente ci si illude che sia una soggettiva dal punto di vista di Dunson, per poi rendersi conto che è solo una falsa soggettiva, che poi diventa un’oggettiva nel momento in cui viene inquadrato il protagonista (di cui avevamo assunto lo sguardo) a cavallo. Ma, come abbiamo detto, l’inquadratura diventa poi una semisoggettiva, nel momento in cui Dunson volta la testa verso sinistra, e finisce per trasformarsi in una falsa soggettiva dei cowboy quando l’uomo rivolge il suo sguardo verso la macchina da presa.
Dopo aver mostrato (nella già citata figura 20) i cowboy che attendono l’ordine da parte del proprio capo, Hawks torna a inquadrare Dunson (figura 21), che finalmente proclama con voce solenne:“Portali in Missouri, Matt!”. Il giovane figlio adottivo allora si leva in piedi sulla sella e, con un urlo, dà il via alla mandria e ai cowboy (figura 22). È allora che la colonna sonora di Tiomkin abbandona le tonalità più inquiete e recupera la sua epicità, accompagnando un rapido montaggio (18 inquadrature in 18 secondi!) in cui Hawks mostra (soprattutto tramite primi e primissimi piani) le esultanze dei mandriani che, con fischi e grida di gioioso ottimismo, incitano i capi di bestiame alla partenza (figura 23). A seguire, una serie di campi medi e lunghi mostrano i cowboy mettere in moto l’immensa mandria (figure 24-26).
Anche Nadine Groot e l’indiano Quo esultano per la partenza e rispettano il proprio ruolo di caratteristi comici, dal momento che le grida del primo sono soffocate da una serie di colpi di tosse che smorzano l’epicità della situazione (figura 27). Hawks inquadra ancora la partenza dei carri che trasportano i viveri della spedizione (figura 28) e mostra poi Dunson e Matt che contemplano la grandiosa scena (figure 29-30). L’inquadratura che chiude questa sequenza indimenticabile è una ripresa leggermente dal basso e abbastanza ravvicinata dei due protagonisti (figura 31), padre e figlio, che ancora non immaginano i conflitti e i travagli che li attendono. “Eccoli Matt. 14 anni di duro lavoro.”, commenta Dunson posando lo sguardo sul fiume di bestiame in movimento. “Dicono che non possiamo riuscire a portare a termine il viaggio.”, aggiunge poi. “Potrebbero sbagliarsi.”, ribatte Matt, fiducioso. E Dunson chiude la scena con un sorriso e una battuta laconica ma speranzoso: “Sarà meglio.”. E in questa battuta, che chiude una scena di abbacinante bellezza e supremo controllo formale, è riassunto tutto il fascino di un capolavoro assoluto del western. D’altronde, come ha scritto Aldo Grasso, si fa fatica, oggi, a trovare “un film di questa semplice complessità, di questo fascino così grezzo.”
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