Sempre il film parla di sé stesso. Lo può fare in molti modi, il più evidente dei quali è portare l’attenzione dello spettatore ad un evento accaduto in precedenza nella narrazione (ad esempio attraverso dialoghi di personaggi che menzionano un fatto già visto, o tramite la riproposizione di un’inquadratura precedente), o a un evento che accadrà in futuro (si pensi al voice over di narratori onniscienti – Bilbo che all’inizio del film Lo hobbit anticipa che quello cui si sta per assistere sarà per lui un Viaggio inaspettato). Ci sono, però, altri meccanismi attraverso cui il film riesce a parlare di sé stesso, e, in attesa dell’uscita nelle sale del nuovo film della coppia di registi argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat (Competencia oficial – Finale a sorpresa), Il cittadino illustre, loro precedente opera, può essere utile a svelarli.
Il film racconta la storia di un premio Nobel per la Letteratura, Daniel Mantovani, che dopo decenni vissuti in Europa decide di tornare nella piccola città natale, Salas, in Argentina, per essere insignito dell’onorificenza di cittadino illustre. Il ruolo dei libri di Mantovani è centrale nella struttura quanto nella narrazione del film, tanto che la stessa decisione di tornare a Salas, presa non senza esitazioni, è ricollegata, con un parallelismo, al comportamento dei suoi personaggi: […] io non sono più riuscito a tornarci, loro [i personaggi] ad andarsene. Qui affronta i fantasmi del passato (la fidanzata dell’epoca, ora sposata con Antonio l’amico fraterno di un tempo e il rapporto mai risanato con i genitori ormai defunti) ma soprattutto un’ostilità tutta presente, che emerge progressivamente, dovuta al successo e al riconoscimento di una vita consacrata alla letteratura, guadagnati – a detta di alcuni – solo grazie agli abitanti di Salas, alla loro realtà, alle loro storie. Accanto ai detrattori compaiono dei fans; anche questi leggono nei romanzi di Mantovani tracce del loro vissuto personale, ma al contrario dei primi paiono semplicemente lusingati: come Renato Previtello, cui sembra di riconoscere il padre defunto in uno dei personaggi del romanzo Il gigante di sabbia.
Durante il suo soggiorno, le discussioni sulla letteratura si incastreranno alle vicende personali, tanto da rendere possibile un’interpretazione del film come saggio su cosa significhi fare letteratura. In senso lato il film discute di come funzioni la fiction e quindi produce una spiegazione del film stesso: badate, tutto ciò cui avete assistito potrebbe non essere completamente aderente alla realtà e questi «sono solo personaggi». Al più caparbio dei suoi detrattori, che gli propone un’interpretazione radicale di pura corrispondenza fra vita e arte, replica che la letteratura, in quanto dispositivo finzionale, non riproduce la realtà così com’è. Inoltre, per un altro procedimento tipico della letteratura, il particolare sta per il generale: i cittadini di Salas rispecchiano pregi e difetti dell’umanità tutta.
Ma è il finale a dischiudere le possibilità di lettura concretamente metalinguistiche dell’opera: Mantovani legge, durante una presentazione, il primo capitolo del suo nuovo libro, Il cittadino illustre, ripetendo le esatte parole che lo spettatore aveva sentito all’inizio del film. Con quest’atto di sfrontatezza, il film convoca lo spettatore e dispone davanti a lui i diversi metalivelli della narrazione, costringendolo allo sforzo interpretativo di riconoscerli e separarli. Alla luce di quest’ultima scena, dunque, tutto il film manifesterebbe esattamente il vissuto dello scrittore, successivamente riportato nel libro omonimo. Ma saremmo disonesti se, alla luce di quanto detto, considerassimo “reale” tutto ciò che vediamo e sentiamo relativamente all’esperienza di Mantovani a Salas per tutta la durata del film? Dopo tutto quella che lo scrittore produce è un’opera letteraria, finzione dunque, come per tutto il film ha tentato di spiegare ai concittadini ignoranti.
ANALISI SEQUENZA FINALE
Si rende ora necessaria una descrizione puntuale delle ultime scene del film. Dopo che i rapporti con gli abitanti di Salas si sono esacerbati, Mantovani tenta di anticipare la sua partenza per tornare in Europa, ma viene intercettato dall’amico Antonio che lo porta fuori città per fargli provare l’esperienza della caccia al cinghiale, come avevano concordato la sera prima. Antonio prova ancora per lui un sentimento di rivalità, acuitisi negli ultimi giorni, per via della precedente relazione della moglie Irene con lo scrittore. La tensione fra i due è cresciuta lentamente nel corso del film e qui esplode quando Mantovani è costretto dall’amico a scappare mentre questi gli spara da lontano per spaventarlo, ma senza l’intento di uccidere. Un colpo, però, lo colpisce: lo scrittore è a terra e la sua voce fuori campo pronuncia le ultime parole: «La morte. Finalmente tutto è chiaro, tutto ritrova il suo ordine. Il mio nome è nel cristallo dell’eternità». A questo punto del film lo spettatore non ha motivo di dubitare che quel voice over coincida con gli ultimi pensieri del protagonista morente. La scena successiva si apre con dei fiori bianchi, mormorio di gente vestita elegante, facce turbate: tutti questi segni, succedendo alla scena precedente, fanno pensare inevitabilmente al funerale dello scrittore. Ma così non è, si trattava di un bluff registico, in realtà lo spettatore si ritrova ad assistere alla presentazione del libro di Mantovani. Inevitabile ora la rivalutazione di quella voce fuori campo che pareva accompagnare gli ultimi respiri: le stesse parole usate, riascoltandole, paiono innaturali per un uomo che sta morendo, e l’uso di certi termini squisitamente letterari come «cristallo dell’eternità», rende possibile l’interpretazione secondo cui non si tratterebbe di ultimi pensieri, bensì di una frase sapientemente elaborata a scopo romanzesco. Giunti a questo punto però il dubbio rimane: possiamo fidarci della veridicità delle immagini mostrate? Mantovani racconta nel romanzo ciò che ha vissuto e che noi, da spettatori del film, abbiamo visto?
Dopo la presentazione del libro, un giornalista pone a Mantovani questa esatta domanda: quanto c’è di pura fantasia e quanto di realtà? La risposta dello scrittore pare poco soddisfacente: afferma che la realtà non esiste, come non esistono fatti ma solo interpretazioni e che ciò che consideriamo verità non è altro che una di queste possibili interpretazioni. Alla vaghezza della risposta segue però un segno concreto, una cicatrice sul petto; di questa egli non dà una spiegazione univoca, ma insiste sul valore delle interpretazioni, sarà «il ricordo di un’operazione? Il segno di una caduta dalla bicicletta? O una ferita da proiettile? È il compito a casa». Le parole iniziali ritornano nel finale, l’immagine di un fenicottero morto in uno specchio d’acqua che si vede all’inizio del film ricompare ora anche nella copertina del romanzo, così, in una struttura ad anello, i segni si rimanifestano, ma la storia cui abbiamo assistito ha mutato il loro possibile significato originario.
Queste ultime scene, lo sguardo in macchina sornione di Mantovani, generano l’ambiguità intrinseca del film, che non concede allo spettatore l’ultima e confortante Verità, anzi lo spronano affinché si interroghi sulla natura stessa del cinema, della letteratura e – per estensione – della realtà, che altro non è se non una continua e illimitata interpretazione di segni.
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