Al pari degli altri mezzi di espressione artistica, il cinema è ed è sempre stato uno strumento di rappresentazione del Sé, un modo per riflettere sulle dinamiche umane più intime, per conoscersi meglio e studiare il proprio modo di essere. Parallelamente a ciò, il mezzo cinematografico si è spesso speso nella narrazione di ciò che è esterno al Sé, che è Altro da noi, che sembra diverso e a tratti insondabile.
La dicotomia inscindibile Io-L’Altro si presta a innumerevoli spunti interpretativi, ognuno dei quali balla sul filo di confini più o meno tangibili, da quelli psicologici a quelli geografici e culturali. Questa tematica chiama e si lega alla tematica dello diverso, figura declinata spesso nel personaggio dello Straniero e sono innumerevoli i film che si inseriscono a pieno titolo in questo filone, dalle più classiche messe in scena Disneyane (si pensi al classico Pocahontas, ma anche per certi versi a Tarzan e al più recente Luca), all’acclamato Avatar, fino a quello che è forse uno dei pilastri della trattazione tematica, Balla coi lupi.
INCONTRI CULTURALI: SCHEMI INTERPRETATIVI ED ELEMENTI UNIVERSALI
A metà 1900, nel saggio Lo straniero, il sociologo austiraco Alfred Schütz teorizzava che ciascuno di noi, nel suo agire, si basa su significati e valori condivisi con le persone che vivono nello stesso spazio e nello stesso tempo, costruendo quindi il mondo che ci circonda per mezzo di schemi interpretativi e significati appresi dal proprio gruppo di appartenenza. Chiunque provenga dall’esterno di questo gruppo, lo straniero appunto, non condivide gli stessi presupposti di base e fatica a orientarsi al suo interno.
Tra i numerosi film che mostrano il processo di adattamento sociale che lo straniero è costretto a mettere in atto c’è sicuramente Anna and the King (Andy Tennant, 1999), terzo adattamento cinematografico del libro Anna and the King of Siam di Margaret Landon, che racconta la storia di un’istitutrice inglese (nel film Jodie Foster) che a metà del 1800 si reca in Siam per diventare l’insegnante di corte degli oltre 50 figli del re. Catapultata in un nuovo contesto culturale e imbrigliata dalla rigida etichetta di corte, Anna si trova a doversi scontrare con modelli interpretativi e significati che non le appartengono e che per lei sono non solo privi di valore ma spesso anche sbagliati. Al fascino e il fasto della corte Siamese, infatti, si accompagna un pacchetto di costumi e tradizioni così lontani dalla cultura di riferimento della giovane donna inglese da apparire barbari e incomprensibili. Le sue mappe cognitive (per usare la terminologia di A. Schütz), così ancorate ai modelli della società britannica, non le permettono di orientarsi in un Siam scosso da tensioni politiche e complotti internazionali e anzi la pongono spesso in situazioni imbarazzanti, se non in impasse diplomatici.
Allo stesso modo i figli del re – in particolare il giovanissimo erede al trono – tramite le lezioni della nuova insegnante vengono introdotti a una lingua (l’inglese) e a un insieme di schemi e significati culturali a tratti totalmente opposti a tutto quello che fino ad allora erano stati abituati a dare per scontato, a considerare giusto e indiscutibile a priori. Questo innestarsi di input culturali esterni genera sì spaesamento, ma nel film (in cui i fatti storici e politici non sono storicamente veri) viene mostrato come la base di un processo di trasformazione e apertura del sistema di governo del paese.
Altra pellicola emblematica per la rappresentazione del rapporto con l’Altro è District 9, sci-fi movie del 2009 diretto da Neill Blomkamp, che immagina un 2010 in cui centinaia di alieni si ritrovano da oltre vent’anni profughi nella città di Johannesburg, ammassati in un campo (il Distretto 9) e prossimi a essere trasferiti in un’altra zona lontana dalla città. Il film, che nasce con gli inusuali tratti del mockumentary, pone al centro del discorso interculturale quello che forse è l’Altro nel senso più assoluto che ci sia: il non umano, l’alieno.
In questo caso l’incontro con l’altro non porta ad alcuna possibilità di comprensione o conoscenza e anzi, allo straniero (l’alieno) vengono attribuiti di default i caratteri di inciviltà e inferiorità. Soltanto con il progredire del film, quando il protagonista Wikus Van De Merw, incaricato di supervisionare il trasferimento del campo, si trova anch’egli costretto a vivere da profugo (se non da fuggitivo) all’interno del Distretto, l’interazione forzata con gli extraterrestri fa emergere – ancor più che le differenze – le somiglianze tra culture e origini apparentemente agli antipodi. Quella che doveva essere un’alleanza di comodo tra Wikus e l’alieno Christopher Johnson diventa, infatti, il pretesto per mostrare gli elementi universali condivisi a prescindere dalla cultura di appartenenza. Pregiudizi e speranze, diffidenza e fiducia, il bisogno di una comunità e l’amore genitoriale: tratti di vicinanza che vanno al di là delle differenze di cultura, linguaggio e specie, e che anzi sembrano conferire all’alieno, il non-umano, un’umanità di cui forse l’uomo stesso si dimostra a tratti carente. Un’iperbole narrativa forse non così azzardata.
L’IBRIDISMO CULTURALE E LA DISTRUZIONE DELL’IDENTITÀ
Altra tematica centrale all’interno di District 9 è senza dubbio quella della perdita di identità culturale. Wikus Van De Merw, espulso dal suo gruppo di appartenenza a causa di una metamorfosi fisica che lo sta portando ad assumere sembianze aliene, si trova non solo privato della sua identità fisica, ma anche della sua identità culturale (fatta di relazioni e senso di appartenenza) di origine. Wikus è un ibrido, una somma di identità diverse che non gli consente di identificarsi pienamente in nessuna comunità e che crea all’interno di entrambi i gruppi (umani e alieni) diffidenza e sospetto verso di lui.
Il discorso sull’ibridismo culturale può essere ripreso, in maniera quasi analoga, in tutti quei casi di persone immigrate di seconda generazione.
Tra i film che mostrano questa dinamica di confusione riguardo la propria identità, Come see the Paradise (Alan Parker, 1990) porta a esempio la storia di tutte quelle persone di origine giapponese che vivevano negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Nel raccontare la storia di una famiglia di origini nipponiche che, a seguito dell’attacco a Pearl Harbor, viene internata in un campo di prigionia insieme a migliaia di altri cittadini statunitensi di origini giapponesi, il film mostra una pagina di storia vera ma poco conosciuta e nonostante il focus prettamente romantico della storia, permette di conoscere il senso di profondo smarrimento di tutta una fascia di popolazione divisa tra due modelli culturali in un periodo storico in cui diventa per loro impossibile aggrapparsi all’identità americana e allo stesso tempo pericoloso riconoscersi in quella giapponese. Proprio come Wikus in District 9 viene buttato fuori dal suo gruppo di riferimento, anche qui i protagonisti della vicenda si ritrovano ad essere reietti nello stato in cui sono nati e cresciuti, privati della fiducia della nazione e additati come nemici interni, come traditori. La mancanza di una patria e di una nazionalità in cui riconoscersi si traduce nella perdita dei riferimenti identitari o, in altri casi, nella nascita di odi ed estremismi indotti dalle circostanze.
I temi dell’incontro-scontro tra culture, delle dinamiche di gruppo e della relazione con l’Altro si prestano, come si è visto, a numerose trattazioni e interpretazioni da parte di diverse discipline e generi cinematografici. Dal dramma alla fantascienza, dallo storico all’animazione, non importa la prospettiva del racconto, in qualsiasi caso vedere e conoscere l’Altro è un modo per vedere meglio noi stessi, per riflettere sulle nostre storture e su quelle del nostro gruppo di riferimento principale.
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