Il 13 maggio 1939, a New York, vide la luce Harvey Keitel. Oggi, ottantaquattro anni dopo, vogliamo celebrarlo ripercorrendo in breve la sua carriera da attore cinematografico, soffermandoci sul film Il cattivo tenente (Bad Lieutenant, 1992) di Abel Ferrara, un cult underground di cui non si parla mai abbastanza e che, a oltre trent’anni dalla sua uscita, non ha perso un briciolo della sua potenza.
La carriera
La carriera di Harvey Keitel è costellata di collaborazioni grandiose con registi i cui nomi risplendono nella storia del cinema, ma altrettanto storiche sono le collaborazioni mancate: l’abbandono dei set di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979) e Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999) lascia sicuramente l’amaro in bocca, rimandando alla nostra immaginazione quello che sarebbe potuto essere il contributo di un colosso come Keitel verso dei film ai quali, senza troppi patemi, si potrebbe attribuire lo status di capolavoro.
Dopo una giovinezza turbolenta, Harvey Keitel trova la sua strada nel celeberrimo Actor’s Studio di Lee Strasberg, dove affina le sue doti attoriali e combatte la sua balbuzie. Sin dall’inizio, la carriera di Keitel è inscindibile dal nome di Martin Scorsese, tutti e due newyorchesi, e il suo esordio avviene proprio in Chi sta bussando alla mia porta (Who’s That Knocking at My Door, 1967), per poi continuare il sodalizio con le interpretazioni memorabili in Mean Streets (1973) e Taxi Driver (1976), passando per Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore, 1974) e contando la sua presenza anche più in là negli anni in film del calibro di L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, 1988) e The Irishman (2019). La militanza nel cinema di Martin Scorsese, soprattutto negli anni ’70, è stata probabilmente l’esperienza più formativa della personalità attoriale di Keitel: proprio in quegli anni, infatti, la sua recitazione si contraddistingue per dei toni rudi e sporchi, fortemente improntati sul reale, sulla fisicità e sulla dirompenza dei gesti e delle emozioni.
Keitel dimostrò inoltre la sua lungimiranza e la sua passione per il cinema co-producendo il film di un esordiente signor nessuno e recitando al suo interno: il regista in questione era Quentin Tarantino e il film Le iene (Reservoir Dogs, 1992), il resto è storia, così come è storia il personaggio di Mr. Wolf in Pulp Fiction (1994). Si potrebbero anche citare le partecipazioni nel film d’esordio di Ridley Scott, I duellanti (The Duellists, 1977) e nel cult degli anni ’90 Thelma & Louise (1991), che segna il glorioso ritorno di Keitel a Hollywood dopo anni di ombra nella sua carriera, in cui ha girato il mondo approdando anche in Italia, segnando la sua presenza in film di Ettore Scola, Lina Wertmüller, Dario Argento, Damiano Damiani e Carlo Lizzani, tra gli altri. Per concludere questo breve excursus nella filmografia di Keitel, non possiamo non citare anche le collaborazioni con nomi di alta caratura, come Paul Schrader, Jane Campion, Robert Altman e Paolo Sorrentino.
Il cattivo tenente
Quello che portano avanti Abel Ferrara e Zoë Lund, attrice e co-sceneggiatrice del film, con Il cattivo tenente, è un cinema ad alto impatto visivo e narrativo, anche per l’identificazione possibile tra gli eventi narrati in sceneggiatura e la vita delle personalità coinvolte nel processo creativo. Il confine tra persona e personaggio, tra realtà e finzione è più labile che mai, considerando come il racconto trovi tra i suoi temi principali il disagio, la tossicodipendenza e la perdita del controllo della propria vita; tutte componenti che, su ammissione del regista stesso, durante la produzione del film caratterizzarono la sua vita e quella di Zoë Lund e Harvey Keitel, con quest’ultimo che durante le riprese del film in alcuni momenti era a malapena cosciente di trovarsi su un set cinematografico. A riguardo, merita una menzione il triste epilogo di Zoë Lund – già attrice protagonista di uno dei lavori di Ferrara maggiormente impressi nell’immaginario collettivo, L’angelo della vendetta (Ms .45, 1981) – morta prematuramente per overdose all’età di trentasette anni nel 1999.
Il cattivo tenente è un titolo che rappresenta alla perfezione la personalità del protagonista: Harvey Keitel interpreta il peggior tenente che si possa immaginare, un tossicodipendente violento, egoriferito, dedito al piacere anche a discapito della libertà e della sicurezza degli altri e avidamente attaccato al denaro. Un personaggio tanto viscido e lontano da ogni forma di carità e solidarietà, quanto legato a un viscerale rapporto con la religione cristiano-cattolica, con i suoi simboli e leitmotiv. Sarà l’inumano stupro perpetrato ai danni di una suora a smuovere, seppur con una visione distorta delle cose, la sensibilità del protagonista. Il tenente metterà infatti in dubbio i suoi capisaldi e il proprio concetto di giustizia, caricando su di sé il fardello di dover reinterpretare e applicare la parola divina per portare un po’ di equilibrio in un mondo che, senza mezzi termini, egli stesso ha contribuito a rendere un posto peggiore.
Tutti gli elementi emersi finora – criminalità, strada, disagio, tossicodipendenza, religione – sono i pilastri della produzione artistica di Abel Ferrara e in questo film, forse più che in altri, finiscono per scontrarsi evidenziando le contraddizioni insite nella natura di certe situazioni e di certi personaggi. Una sequenza all’inizio del film appare emblematica a riguardo. Il tenente accompagna i figli a scuola in macchina e li redarguisce per il ritardo, appellandosi a una regola: “non lo sapete che a scuola si arriva puntuali?“. Le stesse regole alle quali, come già specificato, il tenente non si appella in altri contesti. Tanto che, subito dopo aver lasciato i figli, assume una delle tante dosi giornaliere di cocaina proprio davanti alla scuola, il tutto ripreso con un’inquadratura suggestiva e più espressiva che mai: fuori fuoco, dinanzi al volto di Keitel, si trova un rosario con crocifisso che pende dallo specchietto retrovisore. Subito dopo ci troviamo su una scena del delitto, atroce e sanguinolenta, nei confronti della quale il tenente dimostra insensibilità e disinteresse e finisce con il dibattere con i suoi colleghi in merito a dei giri loschi di scommesse sportive, in cui tutti i presenti sono invischiati. Facendo una breve carrellata degli elementi elencati poco sopra, non risulta difficile ritrovarli tutti in rassegna in una sequenza di poco più di cinque minuti, che ha lo scopo di introdurci in un mondo fosco e asfissiante, che diventerà sempre più torbido con il passare dei minuti.
A proposito di sostanze stupefacenti, Abel Ferrara sembra interessato non solo a mostrare il giro di corruzione che alimenta la criminalità in questo specifico settore, ma anche – se non soprattutto – a restituire graficamente la condizione di ebbrezza causata dalle droghe e dall’alcol. Tali sensazioni si ritrovano evidenti nella fisicità di Keitel, ingobbito, sudato e rallentato, con lo sguardo perso nel vuoto, coinvolto in una danza a tre con due donne dai toni sospesi sulle note di Pledging my love di Johnny Ace o artefice di movenze grottesche completamente nudo davanti alla macchina da presa. In alcune scene che vedono protagonista la coppia Harvey Keitel – Zoë Lund si raggiunge quasi il rigore del documentario nel mostrare le pratiche relative all’uso di droghe, arrivando pochi secondi dopo a una forma elevatissima di impressionismo cinematografico. I primi piani dei volti degli attori, i muscoli facciali dei quali si distendono subito dopo l’assunzione della dose, trasmettono sensazioni di piacere che raggiungono le vette dell’orgasmo, con la penetrazione dell’ago nella pelle che diventa evidente metafora del rapporto sessuale, sottolineata dal commento “hai una bellissima vena“.
Sessualità che, all’interno del film, supera i limiti del consenso, scavalcando il confine dello stupro e divenendo strumento di atroce umiliazione e di morte, tanto figurata quanto effettiva. Emblematiche a riguardo la scena dello stupro della suora e quella dell’abuso di potere del protagonista nei confronti di due ragazze in macchina, in un mondo in cui esibire un distintivo sembra sufficiente per dare il via alla prevaricazione e all’ingiustizia.
In particolare, lo stupro della suora irrompe sullo schermo dal nulla, stravolgendo completamente il ritmo della narrazione, ed è scandito dalle note di Signifying rapper di Schoolly D, un brano gangsta rap reso iconico dal campionamento di Kashmir dei Led Zeppelin. In un film caratterizzato per gran parte della sua durata da una regia asciutta – al servizio dei personaggi e degli attori, con l’intento di evidenziare una realtà nuda e cruda – il momento preso in analisi appare come una mosca bianca. Si trovano un montaggio e un’estetica al limite del videoclip musicale, con una serie di dettagli e particolari messi in rassegna, che portano la nostra attenzione su una statua della vergine che va in frantumi, poi su un crocifisso, per poi passare al volto della suora, le cui urla si mischiano con quelle di Gesù in croce, in un inserto extra-narrativo dalla potenza ejzenstejniana. È da qui che il tono del film assume un carattere sempre più profondo, surreale e allucinatorio, unendo la distorsione del pensiero e della volontà del protagonista alla distorsione della rappresentazione, sempre più allegorica.
Tornando al tema della dipendenza, il protagonista sembra la perfetta incarnazione di tale concetto, che sia esso riferito alle sostanze, al gioco d’azzardo, al brivido o al sesso. In una delle battute più memorabili del film viene introdotto il paragone tra dipendenza e vampirismo, che sarà approfondito tre anni dopo da Abel Ferrara nel suo capolavoro The Addiction (1995).
“I vampiri sono fortunati, si nutrono degli esseri che trovano. Noi invece divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare per potere andar via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo, dobbiamo divorarci da soli, finché non ci resta nient’altro che la fame. Noi diamo, diamo e diamo come pazzi. Non credo che tutto questo abbia senso, non significa niente“.
La protagonista del già citato L’angelo della vendetta alla fine del film vestiva i panni della suora per poter finalmente compiere la propria vendetta, in un gesto che andava ben oltre la questione individuale e si trasfigurava in una rivincita contro tutte le prevaricazioni messe in atto dal sistema patriarcale. Ne Il cattivo tenente, invece, il personaggio della suora rappresenta il lato più puro e l’interpretazione più sana della religione cristiana, ponendo la solidarietà prima dell’individualità e applicando il concetto del perdono, nutrendo speranza nella redenzione dal peccato. Le due suore degli altrettanti film di Abel Ferrara rappresentano due concetti diametralmente opposti, che sono le due tappe del percorso di crescita e redenzione del tenente. Da un concetto di giustizia violento e arbitrario si passa al perdono e alle seconde chance. La legge però continua a non essere una variabile tra le scelte contemplabili, in un neo-noir in cui non basta neppure la redenzione – per quanto distorta – di un uomo irredimibile per smacchiarne la figura e cambiare le sorti di un destino già scritto e verso il quale Harvey Keitel, nei panni del tenente, cammina piangendo e con il volto contrito.

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