La teoria dei fattori differenzianti di Rudolf Arnheim traccia alcune caratteristiche proprie del mezzo cinematografico che vanno a definire il suo specifico. Secondo il filosofo, infatti, l’immagine riprodotta è caratterizzata da tratti “difettosi” (bidimensionalità, piattezza, assenza di colore e di suono, discontinuità spazio-temporale) che la distinguono in modo inequivocabile dalla realtà. Tra i vari elementi sopracitati, vi è anche l’assenza del colore che, difatti, consente allo spettatore di comprendere in modo immediato la diversità del Cinema nei confronti del reale. Lo spettatore, conscio di questa manipolazione formale delle immagini, non si lascia ingannare riuscendo, al contrario, a coglierne la differenza e, soprattutto, l’essenza stessa del mezzo cinematografico. Tuttavia, i problemi iniziano ad emergere nel momento in cui si cerca di applicare questo elemento “distintivo” a tutte le tipologie di film. Nel caso dei film a colore, lo spettatore sarà, dunque, illuso dalle immagini oppure riuscirà ad attuare allo stesso modo la differenziazione tra realtà e finzione? Se la differenziazione si basasse solo sul colore allora risulterebbe problematico, eppure, come abbiamo avuto modo di vedere, vi sono anche altri fattori a definire l’essenza del Cinema. Il colore è, semplicemente, uno dei tanti e dei più immediati. Nella prima metà del 1900, il colore era destinato alle pellicole di finzione, spesso ambientate in mondi fantastici e lontani, caratterizzati da elementi sovrannaturali, fantascientifici, magici, onirici e attrazionali. Pellicole tutt’altro che improntate al realismo, al quale era invece destinato il bianco e nero che viene spesso, erroneamente e comunemente, affiancato all’idea che si ha del cinema del “passato”. L’uso del bianco e nero è, infatti, in grado di conferire al film una patina di antichità oltre che di autorialità.
IL COLORE NEL CINEMA DELLE ORIGINI
A differenza di quanto si possa pensare, il colore era presente anche nelle pellicole delle origini. Questo perché, il periodo del muto fu un momento di grande sperimentazione linguistica e formale. A questo proposito si ricorda uno dei grandi padri e sperimentatori del Cinema: Georges Méliès. Il celebre illusionista fu, infatti, uno dei primi a realizzare ad introdurre il colore nelle sue pellicole, realizzando film dipinti a mano, fotogramma per fotogramma, grazie all’aiuto della sua collaboratrice Elisabeth Thuillier. La prima pellicola colorata manualmente dalla Thuiller è Le Manoir du Diable (Il castello del diavolo) del 1896. Si tratta di un breve filmato d’intrattenimento improntato su un linguaggio di tipo attrazionale, caratterizzato da trucchi scenici ed effetti speciali. La stessa pittrice era solita raccontare nelle interviste di aver passato notti intere nel suo laboratorio a selezionare e a campionare i colori da impiegare nel lavoro. Un lavoro a dir poco massacrante e durante il quale era molto semplice incorrere in errori dovuti alla poca esperienza. Errori che potevano anche compromettere definitivamente la pellicola. Negli anni successivi, per tentare di ovviare tale problema, i film muti a colori venivano duplicati in pellicole in acetato bianco e nero. Quest’ultime sono state quelle che maggiormente sono giunte a noi, alimentando la credenza che nelle immagini del cinema muto non vi fosse alcuna colorazione. Allo stesso modo, così come le statue antiche rinvenute prive di alcuna traccia di pittura, mai si poteva immaginare che quei filmati fossero decorati da colori brillanti, vivi ed espressivi. Si trattava di vere opere d’arte su pellicola. Si ricordi in modo particolare i film della Pathé, caratterizzati da colori molto accesi, ricchi di sfumature che conferiscono alle scene una patina di magia, proiettando i personaggi in contesti fiabeschi.
IL SIGNIFICATO DEI COLORI
Nel cinema delle origini, ancora profondamente legato all’universo teatrale, ogni colore possedeva un ruolo e un significato specifico. Potevano servire per caratterizzare l’ambientazione in cui si svolgeva la scena (Blu per la notte, colori fiabeschi per atmosfere oniriche, verde per scene naturali) oppure per suggerire un’emozione o uno stato d’animo (Rosso per la rabbia o per le situazioni di percolo). Due pellicole in cui l’uso del colore assume un significato espressivo e narrativo sono Le Voyage dans la Lune (1902) di Méliès e Nosferatu Il vampiro (1922) di Murnau. Nel primo caso la colorazione manuale sfavillante doveva proiettare lo spettatore all’interno dell’ambientazione magica e fantascientifica in cui si svolge l’avventura. L’intento era puramente attrazionale, incrementato anche dagli effetti speciali disseminati per tutta la pellicola e dalla scelta della narrazione a quadri, in cui si alternavano scenografiche pittoriche e meccaniche. Il film fu interamente colorato a mano dalla Thuillier sfruttando sei colori (arancione, verde-blu, rosso, carminio, magenta e giallo) che sono disposti esclusivamente su alcuni personaggi e oggetti, così da porli in risalto rispetto allo sfondo e alle figure circostanti. La versione colorata fu rinvenuta nel 1993 a Barcellona e sottoposta alla restaurazione dal 1999 al 2011, anno in cui fu proiettata al Festival di Cannes. Per quanto riguarda Nosferatu, invece, il colore ha un significato prettamente espressivo ed è finalizzato a ricreare le atmosfere orrorifiche della vicenda. Murnau aveva girato le scene notturne alla luce del giorno per poi dipingere i frame con una colorazione blu così da suggerire artificialmente l’ambientazione notturna in cui è calata la vicenda del vampiro. Ovviamente, nella versione in bianco e nero non è possibile fare esperienza di questo accorgimento, al punto che gran parte della pellicola sembra essere effettivamente ambientata in ore diurne, allo stesso modo di come è stata girata.
In entrambi i casi, il lavoro dei restauratori è stato fondamentale per poter fruire i film al massimo delle loro potenzialità e finalità espressive.
I PROCESSI DI COLORAZIONE
Nella prima metà del 1900 si sperimentarono numerosi metodi di colorazione. Per quanto riguarda il processo di colorazione manuale si iniziava con l’applicazione di una sostanza chimica, l’anilina trasparente, su alcune zone dell’immagine in bianco e nero. Si passava poi alla stesura del colore su ogni singolo fotogramma per mezzo di un pennello. Era un lavoro che richiedeva particolare abilità e soprattutto una dose non indifferente di pazienza. Il risultato erano immagini dai colori vividi, accesi e fiabeschi, che hanno contribuito a creare il mondo fantastico di Méliès, un universo magico in cui i suoi eccentrici personaggi si muovono e compiono viaggi straordinari. Sono colori legati ad alle tradizioni delle féerie francesi e delle pantomime inglesi e sono ispirati alle illustrazioni dei libri d’infanzia, ai costumi circensi e carnevaleschi.
Lo stencil fu un altro metodo impiegato che sostituì ben presto la colorazione manuale. Il procedimento richiedeva di tagliare con un pantografo la parte da riempire, in seguito colorata da un rullo e applicata su un frame in bianco e nero.
Vi era anche l’imbibizione che consisteva nell’ immergere l’intero rullo di pellicola in una tinta colorata così da garantire una colorazione uniforme per ogni frame. Tuttavia questo processo consentiva che venissero colorate le parti più chiare a discapito di quelle più scure. Motivo per cui, la scala cromatica andava da colori intensi al nero, solamente nelle zone dell’immagine con bassa densità.
Infine, il viraggio. In questo caso, a differenza dell’imbibizione, la pellicola sviluppata veniva sottoposta ad un processo chimico che saturava le parti più scure del fotogramma lasciando bianche quelle più chiare. Tale metodo si basava, infatti, sulla capacità dei grani di argento di impressionarsi dopo essere stati colpiti dalla luce.
IL COLORE COME ELEMENTO ATTRAZIONALE
Per concludere, il colore era considerato uno degli elementi attrattivi dei film delle origini. Questo periodo della storia del cinema è anche detto “delle attrazioni” poiché non ancora legato alla logica della narrazione. Successivamente, il colore divenne anche un elemento in grado di fornire indicazioni utili alla comprensione della storia, dell’ambiente e dell’atmosfera della vicenda rappresentata. Al contrario di quanto accadrà molti anni più tardi, Méliès ha utilizzato il colore non per generare realismo, ma per sottolineare l’atmosfera onirica e surreale dei propri cortometraggi. Nei primi anni del 1900 colore ha, dunque, una funzione puramente spettacolare. Questo viene impiegato per produrre illusione e stupore. È importante sottolineare che questo aspetto verrà ripreso con l’avvento della brillante colorazione Technicolor, impiegata principalmente per le pellicole d’evasione, mentre per quelle realistiche era destinato ancora l’uso del bianco e nero.
Sfortunatamente c’è giunto un numero esiguo di pellicole delle origini a colori. Molte di queste sbiadite o rovinate dal tempo, alcune addirittura irreparabilmente danneggiate; altre, al contrario, sono tornate alla luce in seguito ad un lungo processo di restauro. Tuttavia, proprio grazie al lavoro dei restauratori oggi è possibile riuscire a ricostruire un momento di grande sperimentazione tecnica per poter tracciare una storia del colore sin dagli albori del Cinema.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento