Oggi la critica cinematografica nell’ampiezza dei suoi contributi è giunta in molte occasioni ad essere elaborata sulla base di metodologie efficaci, su precise argomentazioni e su complessi sistemi estetici. Non sempre però i critici hanno avuto un tale approccio programmatico alla valutazione dei film. Nei primi anni dello sviluppo della critica cinematografica infatti essa era molto più vaga e meno definita, e oscillava tra minuziosi resoconti delle pellicole scritti per gli addetti al settore e la cosiddetta “critica impressionista”, cioè una critica non basata su un sistema estetico ma che prendeva in prestito in modo molto vago le metodologie di altre discipline per esaminare i film. 

La data dell’1 aprile 1951 costituì però una svolta nel mondo della critica cinematografica, poiché fu il momento della nascita, a Parigi, di una rivista che avrebbe impostato un nuovo modo di parlare di cinema e permesso la rivalutazione di diverse categorie estetiche: i Cahiers du Cinéma

I Cahiers erano stati fondati dagli ex membri di un altro importante periodico, la Revue du Cinéma, un giornale che aveva sempre avuto come obiettivo il conferire una maggiore serietà alla critica cinematografica, elevandola dal mero “impressionismo”, e aveva contato su collaborazioni importanti come Cocteau e Sartre. I più importanti membri della Revue che avrebbero poi fondato i Cahiers furono André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze, desiderosi di realizzare la volontà di Georges Auriol (il fondatore della Revue), di portare avanti il progetto. Egli era morto pochi mesi prima, e la nuova rivista aveva lo scopo spirituale di onorare la sua figura.

Gli obiettivi che i Cahiers si proponevano di realizzare erano strettamente legati a quelli che erano stati gli ideali della Revue. Se quest’ultima si era occupata di legittimare l’esistenza del cinema come vera e propria arte, basata su criteri estetici propri, era ora il momento di elevare definitivamente lo status della critica cinematografica. Il contesto culturale era inoltre favorevole alla svolta che Bazin e Doniol-Valcroze stavano cercando di imporre, poiché si stava diffondendo in quegli anni la cultura dei cineclub. Gli appassionati si riunivano in visioni collettive che venivano seguite da un dibattito. Fu in questo clima culturale che si formarono i nuovi membri della redazione, giovani cinefili reattivi e polemici, la cui volontà di affermare la propria visione del cinema fu alla base di una vera rivoluzione critica che venne messa in atto. Si trovano qui alcuni nomi tra i più importanti della storia del cinema e della critica, come Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette e François Roland Truffaut

La politique des auteurs

La giovane guardia era intransigente, polemica, volenterosa di imporsi e insofferente verso le critiche al suo approccio. I registi amati dai giovani redattori contavano ben pochi francesi (sicuramente Jean Renoir e Jacques Becker avevano un posto d’onore) in confronto ai registi d’oltreoceano, che erano stati fino a quel momento ritenuti commerciali e se oggi essi vengono stimati dal pubblico e studiati per la loro importanza nella storia del cinema, il merito è interamente dei Cahiers du Cinéma. I giovani redattori amavano Hitchcock, Hawks e Welles, e non temevano di andare contro l’opinione comune della Francia degli anni ’50.

Essi erano convinti che fosse necessario considerare l’opera di questi registi da un punto di vista diverso da quello che era stato adottato fino a quel momento, e il loro pensiero si risolse in uno scritto di Truffaut che assunse il ruolo di manifesto programmatico dell’elaborazione critica dei giovani Cahiers. L’articolo, pubblicato nel febbraio del 1955, si intitolava Alì Babà e la politica degli autori, ed enunciava un pensiero ed una posizione che sarebbe poi stata applicata a tutti i registi amati dai giovani redattori. Nell’articolo Truffaut parlava di un film “minore” di Jacques Becker, regista in genere da lui amato. Il critico però non aveva apprezzato il suo Alì Babà, ma aveva comunque continuato a riguardarlo fino a riuscire a cogliere i tratti tipici della poetica del cineasta, che elevavano quel film al pari di tutti gli altri e permettevano di inserirlo all’interno della sua opera, la quale andava considerata nella sua interezza. Con un atteggiamento polemico Truffaut scriveva di voler fermare la tendenza per cui i film venivano “valutati come le maionesi: o riescono o non riescono.”

L’articolo su Alì Babà dà quindi inizio alla politique des auteurs, un fenomeno rivoluzionario caratterizzato dalla verve reattiva dei giovani critici. La peculiarità del movimento non stava nella generica considerazione dei registi come degli autori, ma nell’applicazione di questa categoria a registi fino a poco prima considerati commerciali e banali, e nell’atteggiamento polemico adottato. La politique si basava sulla convinzione che ogni autore avesse una propria visione del mondo, una poetica, e fosse in grado di esprimerla tramite il mezzo cinematografico proprio come gli scrittori con i romanzi. Nell’articolo venivano indirettamente esposti alcuni punti fondamentali che era necessario seguire per l’applicazione del concetto. Il primo era il volontarismo dell’amore, che consisteva nell’impegnarsi a guardare più e più volte i film, per poterne cogliere i segni del linguaggio dell’autore al suo interno. Vi era poi la necessità di seguire l’opera nel suo farsi, e considerare i film realizzati da un regista come diverse tappe di un suo percorso di crescita artistica. Infine, era essenziale il concetto di messa in scena. Diversi tra i redattori dei Cahiers avevano dato la propria definizione, in particolare Jacques Rivette l’aveva definita come un linguaggio che poteva essere compreso da tutti i cinéphiles che avessero interiorizzato la semiotica del mezzo e il modo in cui la messa in scena, intesa come organizzazione degli spazi e dei corpi, potesse veicolare un determinato senso.  

La politique des auteurs creò scandalo per la violenza della polemica e la fermezza dei suoi sostenitori sulle loro posizioni. Non era certo priva di rischi però. Il pericolo era infatti quello di scadere in un mero culto della personalità che non avrebbe più permesso di rendersi conto di eventuali difetti presenti nei film, causati magari da problemi più pratici e non legati all’idea di una poetica autoriale. Per questa ragione, e anche grazie alle opinioni più mitigate dei redattori più anziani, il fenomeno col tempo si spense. Il suo contributo alla storia del cinema fu però fondamentale, e la rivoluzione apportata impostò una nuova concezione di critica i cui frutti sono evidenti ancora oggi. 

Gaia Fanelli,
Redattrice.