Il rapporto tra cinema e fumetto è stato già ampiamente discusso, soprattutto in questo momento storico in cui una buona fetta del cinema mainstream si compone di film che adattano storie di eroi, antieroi o super-cattivi, oppure che traggono ispirazione da questi personaggi per articolare riflessioni più ampie, come nel caso di Joker e Joker: Folie à Deux di Todd Phillips.
Nel tempo ci siamo anche abituati alle incursioni di personalità più marcatamente autoriali nel mondo dei cinecomic, ma è sempre interessante esaminare i vari approcci di ciascun autore verso il materiale cartaceo di partenza. Guardando agli albori del recente boom dei film dedicati ai supereroi, il caso di Guillermo del Toro è curioso proprio in virtù della sua filmografia, contemporaneamente eterogenea e coerente.
Nel 2002, del Toro diresse Blade II, che tutto sommato ricevette una buona accoglienza critica e ottenne anche ottimi risultati al botteghino. Quando gli venne proposto di dirigere il sequel, tuttavia, il regista rifiutò per dedicarsi all’adattamento di Hellboy, forte della fiducia acquisita con la sua prima incursione in un genere che non aveva ancora rivelato il suo pieno potenziale.
Già la scelta di adattare questo fumetto rivela come il regista scelga con cura i soggetti che contengono elementi affini alla propria poetica, spinto dall’irrefrenabile bisogno di mettere in scena le proprie passioni e riflettere su specifiche tematiche. Guillermo del Toro è, infatti, un outsider a Hollywood, uno straniero che proviene dal basso, dal cinema di genere più crudo, e lo stesso si può dire di Hellboy, fumetto ideato da Mike Mignola, il quale dopo aver lavorato con Marvel e DC Comics si sposta verso produzioni più underground.
Hellboy, in effetti, non è nemmeno un supereroe, forse è un antieroe, ma più precisamente è un demone evocato sulla terra. Probabilmente è proprio il suo carattere da freak ad aver catturato l’interesse del giovane del Toro. Le atmosfere horror-gotiche del fumetto e la condizione di escluso del protagonista, sono elementi estetici e tematici che non possono non evocare una fortissima connessione con molti dei film del regista.
Il personaggio di Hellboy, interpretato da un impeccabile Ron Perlman, si inserisce in piena continuità con molti protagonisti del cinema di del Toro, sia per il carattere che per le dinamiche. Nel primo film, Hellboy è un omone dall’aspetto adulto, ma con un carattere da giovane ribelle. È scontroso, presuntuoso e indisciplinato tanto verso il padre adottivo quanto nei confronti delle forze che lo hanno evocato o che tentano di frenarne l’impeto. Inoltre, per del Toro è una felice coincidenza che Mignola ponga i nazisti come istituzione all’origine del piano di distruzione che innesca gli eventi del film.
Tuttavia, con il progredire del film, l’enfasi sui nazisti si sposta su antagonisti più precisi: Kroenen, un guerriero mutilato da innumerevoli interventi chirurgici, e una versione mistica di Rasputin, che intende usare il potere di Hellboy per risvegliare i demoni Ogdru Jahad. Il plot del film è essenziale, forse anche un po’ banale, ma è perfettamente funzionale all’idea di del Toro.
Un impianto narrativo semplice permette al regista di concentrarsi sui personaggi, in particolare sul protagonista, anche con dichiarata ironia. Amante del grande cinema di intrattenimento, del Toro conosce i meccanismi del genere e li sfrutta per smorzare quella solennità spesso forzata che rischia di appesantire il racconto. La messa in scena di Hellboy è quindi ridicolizzata fin dall’inizio senza però comprometterne la credibilità. È un ragazzino troppo cresciuto con atteggiamenti machisti: ostenta virilità con un sigaro cubano tra i denti, ma vive circondato da gatti e ha un debole per il cioccolato.
Insomma, del Toro non ha paura, e non sbaglia affatto, a rendere i suoi personaggi non solo fallibili, ma anche un po’ ridicoli. L’apice si raggiunge probabilmente quando decide di pedinare Liz, la donna di cui è innamorato, e Myers, il suo nuovo assistente personale, mai prima di allora lo abbiamo visto così efficace nel tentativo di passare inosservato, scoperto solo da un giovane fan che gli offre latte e biscotti durante l’appostamento.
Del Toro sembra non voler imporre alcun limite alla propria immaginazione, facendo ampio uso di una combinazione tra effetti speciali digitali e analogici, confezionando un’opera che conserva grandissima dignità anche dopo 20 anni. Complice di ciò è soprattutto il ricchissimo universo visivo a cui attinge il regista: citazioni e riferimenti che non stupiscono chi già conosce il suo lavoro, ma che acquisiscono un immenso valore per la cura e la passione nella realizzazione di ogni singola creatura presente sullo schermo. Il fumetto è quindi un pretesto per tessere una base narrativa coerente, in cui demoni e artefatti provenienti da religioni di tutto il mondo coesistono con creature lovecraftiane e con il personaggio di Abe Sapien, che rimanda ovviamente al Gill-man de Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, oltre che anticipare l’anfibio protagonista del film La forma dell’acqua.
Nel secondo film della saga, del Toro sembra radicalizzare il suo approccio. Qui la creatività del regista diventa protagonista, in un vero e proprio tripudio di suggestioni visive. Ci troviamo nuovamente di fronte a un plot essenziale: dopo una guerra tra elfi e uomini, l’armata dorata, un esercito di invincibili soldati meccanici, viene sigillata nelle profondità della terra. Il figlio dell’ultimo re degli elfi, deciso a non accettare la tregua, cercherà di entrare in possesso di un artefatto che conferisce il controllo sull’armata.
Ancora una volta la semplicità è una risorsa nelle mani di del Toro. Eliminando sottotrame superflue, come quella di Myers infatuato di Liz, il film ha un enorme guadagno in termini di ritmo e di coesione narrativa. Sul piano tematico, resta fedele al percorso tracciato dal primo capitolo, che poneva apertamente la domanda “cosa ci rende umani?” senza però riuscire a offrire una risposta compiuta. Nel sequel il regista sembra essere molto più a suo agio nella gestione della trama e delle sue implicazioni, riuscendo a chiudere il cerchio aperto con questa domanda senza forzature, giungendo a una conclusione soddisfacente con grande naturalezza.
È evidente quanto del Toro sia un regista meticoloso, un calcolatore che non lascia nulla al caso e che fa tesoro di ogni esperienza precedente. Questo approccio analitico si percepisce nella saga di Hellboy proprio per il salto di qualità fatto tra un capitolo e l’altro. Senza dubbio l’esperienza del 2006 fatta con Il labirinto del fauno ha avuto un impatto altrettanto significativo, visto l’eccellente utilizzo dei costumi, del trucco e delle scenografie che esaltano le decine di creature che popolano il film. Allo stesso modo, l’esperienza di Hellboy ha lasciato il segno nelle opere successive di del Toro: si pensi alla suggestiva sequenza animata che mette in scena la guerra tra uomini ed elfi, manifestazione di un‘urgenza di sperimentazione che da un lato può sembrare una prova generale per la regia – poi mai realizzata – della trilogia de Lo Hobbit, dall’altro, anticipa in nuce l’estetica generale che caratterizzerà il suo Pinocchio del 2022.
Non stupisce infine che il suo amore per i mostri della Universal, che lo ha portato a vincere l’oscar per i miglior film con La forma dell’acqua nel 2017, combinato alla riflessione su una possibile umanità celata in un mostro, lo abbiano spinto a realizzare il proprio adattamento di Frankenstein, le cui riprese si sono appena concluse.
Se è vero ciò che del Toro sostiene da anni, ovvero che l’animazione non sia un genere cinematografico ma un medium con specificità proprie che merita maggiore considerazione all’interno dell’industria, analogamente la sua stessa filmografia dimostra che non esiste un genere cinematografico che può essere ritenuto intrinsecamente migliore di un altro. Ogni genere offre spunti unici che non sono necessariamente incompatibili con qualcosa di radicalmente diverso. In ogni suo film, Guillermo del Toro esplicita il suo amore per il cinema, esplorando ogni aspetto che lo compone e ogni possibilità espressiva, ed è sicuramente grazie a quest’attitudine che è riuscito ad affermarsi sia come autore stimato dalla nicchia cinefila, sia come regista di grandi film d’intrattenimento. Un approccio che non concepisce discriminazioni, ma cerca piuttosto di nobilitare anche ciò che molti, superficialmente, considererebbero “la solita americanata”. Hellboy ed Hellboy 2: The golden army non sono altro che una delle molte manifestazioni dell’amore per il cinema e della voglia di divertirsi con esso.
Scrivi un commento