Nella vita dell’artista esistono esperienze che ne segnano inevitabilmente l’approccio alla realtà, creando di fatto una sorta di filtro attraverso il quale analizzare, decodificare il mondo e tradurlo in un proprio linguaggio cinematografico. Basti pensare a quanto la poetica scorsesiana sia intrisa e permeata dalle sue profonde radici cattoliche – oltre che italiane – per comprendere come il vissuto dell’autore incida sensibilmente nella formazione di un vocabolario concettuale e interpretativo che possa collegare, se non interamente, almeno una buona parte della filmografia di un regista. 

Nel caso di Oliver Stone, grande cineasta newyorkese classe 1946, questa esperienza spartiacque è – senza dubbio – il servizio armato in Vietnam tra il 1967 e il 1968, periodo in cui l’autore, appena ventenne, si arruolò come volontario per prendere parte al conflitto, venduto dal governo come una campagna gloriosa e un’occasione di riscatto per una generazione senza punti di riferimento come quella Post – Seconda Guerra Mondiale, ma che si trasformò presto in un inutile e insensato massacro di giovani vite.

Appare chiarissimo dunque, guardando alla filmografia di Stone nella sua totalità, come la guerra (in particolare quella del Vietnam, ma non solo) sia effettivamente uno dei più importanti fil rouge della produzione del regista, che permea fortemente anche pellicole che non mettono esplicitamente al centro l’esperienza bellica: basti pensare a opere come Talk Radio (1988) che dipinge un quadro sociale post-Vietnam estremamente spaventoso e problematico, riprendendo idealmente la lezione del già citato Scorsese in Taxi Driver (1976), ma alla maniera politicamente caustica di Stone, ovviamente.

Oltre a pellicole di questo tipo, in cui la guerra e le sue conseguenze sono tratteggiate come una densa e torbida atmosfera socio-politica, il regista newyorkese si è cimentato largamente anche in war movies ben più canonici – tra cui quelli oggetto dell’analisi qui presentata – e che pongono ogni volta l’attenzione su un punto di vista differente, un angolo interpretativo diverso, anche diametralmente opposto, come accade in Salvador e Platoon, usciti entrambi nel 1986, vero e proprio Annus Mirabilis della carriera del regista.

SALVADOR (1986)

Il primissimo lungometraggio di Stone che tratta dichiaratamente ed esplicitamente di guerra, però, paradossalmente non ha nulla a che fare con il Vietnam: Salvador, infatti, è il racconto tratto dall’esperienza autobiografica di Richard Boyle (interpretato qui da uno dei migliori James Woods mai visti) della guerra civile che sconvolse, appunto, El Salvador all’inizio degli anni ’80. 

La vera forza del film, in realtà, risiede esattamente nella scelta di affrontare questo conflitto, così brutale e politicamente controverso, da un punto di vista esterno, attraverso gli occhi del reporter Boyle che, non avendo un ruolo attivo nella guerra in atto e trovandosi a dover documentare ciò che sta avvenendo, non si schiera con nessuna delle due fazioni, che anzi vengono dipinte in maniera molto simile e ugualmente critica. Sia i ribelli comunisti, infatti, che il vigente governo militare (supportato in maniera esplicita dagli Stati Uniti) si macchiano di crimini terrificanti e gravissimi: tanto crudele è la repressione dell’esercito, che assassina brutalmente gli oppositori e perpetra massacri inauditi nei confronti dei civili, tanto gratuita e similare è la violenza con la quale i guerrilleros giustiziano i soldati catturati in battaglia dopo aver avuto la meglio nel grande agguato verso il finale. 

Lo spettatore, dunque, segue il protagonista in questo viaggio infernale e attraverso il suo sguardo assiste al tremendo svolgersi della guerra; non è un caso, infatti, che la primissima esecuzione del film venga inquadrata tramite una soggettiva del personaggio di James Woods, mettendo fin da subito in chiaro i presupposti quasi documentaristici del regista, che – parallelamente alle vicende dei protagonisti – fa scorrere una lenta e silenziosa parata di morte, che si palesa sempre più fragorosa man mano che la narrazione procede. Stone dissemina, infatti, dettagli e momenti mortiferi lungo tutto lo svolgimento della pellicola: dal corpo carbonizzato sul bordo della strada che “accoglie” Richard Boyle in El Salvador, a madri che si trovano a dover identificare figli e mariti brutalmente assassinati attraverso immagini raccolte in enormi faldoni, passando per reportage fotografici a resti di massacri disumani (sicuramente una delle scene più potenti e importanti del film), creando in sintesi un’opera che non si configura come un film sulla guerra, quanto più un film nella guerra, una pellicola in cui il conflitto bellico non è al centro delle vicende dei protagonisti, ma piuttosto tutto intorno ad esse, permeandone ogni singolo momento in maniera sempre più incisiva e penetrante.

Nonostante Salvador racconti una guerra civile “extra-statunitense”, la critica all’intervento e alla manipolazione americana – più o meno indiretta – è evidentissima. Appare chiaro, infatti, il ruolo centrale degli USA nel fomentare il conflitto armato per perseguire interessi interni: nel pieno dell’era Reagan, Stone si scaglia fortemente contro la politica imperialista del proprio paese, dipingendo uno stato che – pur mantenendo una facciata neutrale e insabbiando le vere attività in America Centrale – ha in realtà causato un numero incredibile di morti, creando vere e proprie polveriere pronte ad esplodere pur di mantenere salda la propria egemonia globale. 

La noncuranza della stampa e della politica, rappresentata dalla borghesissima reporter bionda e dall’inettissimo ambasciatore Kelly, nei confronti delle operazioni americane in El Salvador rappresentano perfettamente il clima dell’opinione pubblica statunitense all’inizio degli anni ’80; un sistema uscito con le ossa rotte dal Vietnam (che appunto torna inevitabilmente a essere elemento cardine nell’analisi dell’opera di Stone) e che quindi ha imparato a fare la guerra con le braccia degli altri, perpetrando in questo modo una narrazione quasi mitica di un’America paladina della democrazia e della libertà anti-comunista. Mentre la politica di Washington, dunque, gioca con le pedine di una guerra civile come fossero pedoni degli scacchi, la povera gente di El Salvador continua a pagare il prezzo più alto di tutti, venendo massacrata brutalmente sia dai militari governativi, sia dai ribelli rossi. 

Nella straordinaria sequenza del confronto tra Boyle e il generale americano, Stone mette gli USA di fronte a tutti i proverbiali scheletri nell’armadio della propria storia recente, dal Vietnam, fino alle losche e controverse manovre in Centro e Sud America, dichiarando – attraverso le parole del protagonista – che gli Stati Uniti abbiano di fatto creato una situazione, ormai fuori controllo, della quale sono totalmente responsabili: dittatori addestrati nelle accademie militari americane, forniture belliche spacciate come aiuti umanitari e mistificazioni agli occhi dei propri cittadini. 

Salvador, in conclusione, rappresenta il primissimo film in cui Stone riesce a portare totalmente a compimento la sua idea di cinema come arte politica e sferzante nei confronti della contemporaneità, creando un’opera che è fondamentale nella sua intera produzione e ne rappresenta uno dei picchi assoluti, se non addirittura – per la soggettività di chi scrive – il più completo e sorprendente.

PLATOON (1986)

Quattro premi Oscar, tra cui miglior regia e miglior film, per la pellicola che consacra e inscrive definitivamente il nome di Oliver Stone nella storia del cinema e che sarà destinata a diventare il più famoso titolo della filmografia del regista di New York; Platoon si staglia come un memoriale intimo e personale, ma contemporaneamente enorme e “generazionale”, della guerra del Vietnam. 

Scritto dallo stesso Stone ispirandosi largamente alla propria esperienza diretta (molte delle sequenze e dei concetti espressi in Platoon sono pressoché identici al racconto di quel periodo presente nell’autobiografia del cineasta Chasing the Light), la pellicola racconta la storia di una giovane recluta – alter ego del regista stesso – che, partendo pieno di illusioni e speranze, si scontra rovinosamente con la crudissima realtà del Vietnam. 

A differenza di Salvador, però, in cui il punto di vista era senza dubbio esterno e portava con sé una critica feroce, palese e tagliente al sistema americano e alla sua condotta estera, in questo film il regista abbandona la denuncia esplicita ed esplicitata, affidando il proprio punto di vista antimilitarista alla grandissima portata emotiva e umana del racconto e delle immagini. Scegliendo dunque un approccio diametralmente opposto e prediligendo un racconto in prima persona, che intende calare lo spettatore all’interno di quel preciso luogo e di quel preciso momento, Platoon si configura fin da subito come un film dal carattere marcatamente esperienziale e immersivo, che non intende mettere in campo riflessioni dal respiro universale come pellicole che trattano dello stesso periodo storico, vedasi Apocalypse Now o Il Cacciatore, rinunciando dunque a un racconto della guerra in senso lato, per costruire una testimonianza vivida, cruda e mai edulcorata di una specifica tragedia collettiva.

Proprio l’autenticità della narrazione – scambiata da alcuni per superficialità ed eccessiva semplicità – è a conti fatti la vera arma vincente del film che, evitando qualsiasi tipo di sovra lettura, riesce a raccontare in maniera spaventosamente lucida l’esperienza di centinaia di migliaia di giovani soldati, non cadendo – quasi – mai nella retorica cameratista e nell’eroismo patriottico. Tutti i componenti del plotone, in realtà, si odiano profondamente e sono specchio della società americana dell’epoca: il razzismo è dilagante e sistemico, il potere e l’autorità si esercitano solo con la prevaricazione, il consumo smodato di stupefacenti è per molti l’unica occasione di esorcizzare il trauma e la violenza che li circonda, mentre per altri il fanatismo e la brutalità diventano la sola maniera per riscattare un’esistenza anonima e vuota. 

È importante notare come tra i personaggi di Platoon non figuri nemmeno un comandante, un leader, un politico, quasi a mettere in scena una guerra “proletaria”, combattuta in prima persona da quella che può essere definita manovalanza bellica, giovani vite mandate al macello, carne per cannoni. I ragazzi che scendono dall’aereo nell’incipit del film sono innocenti, puri in un certo senso e fin da subito sono messi di fronte alla morte: una delle prime inquadrature, infatti, riprende dei corpi senza vita che vengono “scambiati” con le nuove reclute per rifornire una macchina mortale, un sistema che si alimenta con il sangue, con gli arti mutilati dei soldati buttati in una giungla asfissiante a migliaia di chilometri da casa per combattere una guerra prettamente politica, che cambierà per sempre le loro vite, distruggendo la bellezza della gioventù e inaridendola con la violenza e la morte. Non è un caso, infatti, che alla fine del proprio arco “involutivo” il protagonista uccida il comandante del plotone, simbolo metaforico dell’esercito americano e – per estensione – del sistema statunitense, costruito fondamentalmente per essere politicamente ed economicamente dipendente dalla guerra, in una catartica vendetta – che ha il gusto della liberazione – nei confronti di chi è veramente e colpevolmente responsabile del massacro disumano perpetrato in Vietnam. 

Proprio per questo carattere così diretto e senza filtri, Platoon può essere considerato il film definitivo sul Vietnam in senso stretto, la migliore testimonianza cinematografica di ciò che è stato, raccontato dagli occhi di chi era presente affinché resti indelebilmente nella Storia una prova tangibile e autentica della follia bellica del sistema America, un sistema che – secondo Stone – è profondamente marcio e autodistruttivo e la cui denuncia si staglia come premessa fondamentale e irrinunciabile per l’intera produzione artistica di questo grandissimo cineasta.

Questo articolo è stato scritto da:

Alessandro Catana, Caporedattore