A tutti quelle ragazze e quei giovani che per realizzare un loro sogno riescono a sposarsi- attraverso vicende penose e spesso stravaganti – questa favola d’amore è dedicata.
Intro Giorni d’Amore.

Perché è così difficile sposarsi nella società italiana del dopoguerra?
E’ la domanda che ci pone Giuseppe De Santis nel film Giorni d’amore del 1954, scritto da De Santis, Libero de Libero, Gianni Puccini e infine Elio Petri, che è anche co-regista. Nella sua personale esperienza neorealista, De Santis si è distinto nel panorama cinematografico per film connotati da tematiche forti che spesso mettono in discussione le ideologie egemoni o che sono ispirate ad eventi di cronaca, quali ad esempio Roma Ore 11 (1952). Questa sua tensione alla critica sociale lo ha portato ad attirare a sé numerosi giudizi negativi tanto da spingere Togliatti in persona a consigliargli di realizzare un film dai toni più leggeri, vicini a quello che viene definito “realismo rosa”. All’epoca tale scelta ha suscitato, a sua volta, numerose critiche da chi vide in Giorni d’amore un allontanamento dalla sensibilità sociale dimostrata da De Santis nei film precedenti. Questa posizione si rivela, tuttavia, estremamente superficiale poiché anche Giorni d’amore, come altri lavori del regista, venne scritto a partire da un lavoro di inchiesta: l’Italia del dopoguerra è una nazione matrimoniale, ma i tempi difficili fanno sì che il matrimonio diventi un traguardo sempre più difficile da realizzazione per ragioni economiche, specialmente per le classi popolari. Il film ritorna dunque sul problema amoroso e sulle difficoltà legate al matrimonio, precedentemente affrontate ne Un marito per Anna Zaccheo (1953) in chiave melodrammatica; in Giorni d’amore, invece, l’argomento viene declinato nei briosi stilemi della commedia popolare. Fondi, patria dello stesso De Santis è il paese in cui si inserisce la scena: i due protagonisti, Pasquale (Marcello Mastroianni) e Angela (Marina Vlady), fanno parte della classe contadina di una Ciociaria coloratissima e sospesa in un tempo mitico-favolistico. I due si amano teneramente e desiderano sposarsi, ma al loro matrimonio si contrappongono le norme e le aspettative sociali, le tradizioni popolari e i continui problemi economici: la dote della sposa, i costi per la cerimonia, per il banchetto, per gli abiti, il viaggio di nozze… e chi li ha tutti questi soldi? A ciò si aggiungono anche le ambizioni dei due fidanzati che sembrano apparentemente inconciliabili: se Pasquale ben si adatta alla vita dei campi, Angela invece si mostra insofferente tanto che nelle primissime scene del film la vediamo ripresa dal padre al grido di: “Angelina non ti mettere a sogna’!”. La ragazza desidera, infatti, andare al cinema e farsi la permanente come le signore di città, e dunque riscattarsi da quella società contadina che vede come un limite alle proprie aspirazioni. Dinanzi a siffatte difficoltà appare evidente che i fidanzati debbano ingegnarsi in qualche modo e improvvisamente arriva l’idea: decidono di inscenare una fuga coinvolgendo le proprie famiglie, nella speranza che questo gesto estremo li porti a coronare il loro sogno d’amore senza più alcun tipo di vincolo.

Il ritorno a colori nella terra di Ciociaria

Sin dagli albori della sua carriera, De Santis ha sempre mostrato un particolare legame con la terra. Lo si nota particolarmente in tre pellicole che, non a caso, vanno a costituire quella che viene definita come la prima “Trilogia della Terra”: Caccia Tragica (1947), Riso amaro (1949) e infine a Non c’è pace dagli ulivi (1950).  I temi di questi film ruotano attorno al legame vitalistico che intercorre tra la terra e l’uomo, il quale non è un più borghese come nel cinema fascista. Al contrario, De Santis costruisce un vero e proprio “epos popolare” e collettivo, prestando la voce a quelli che per anni sono stati dimenticati dalla società, come i pastori, i poveri, i contadini, i vagabondi, i reduci, le casalinghe, i disoccupati e le operaie. Nei suoi film ogni personaggio possiede una sua importanza ai fini della storia, anche quelli secondari che spesso assurgono al ruolo di coro, commentando la vicenda e sostenendo i protagonisti nella loro missione. Per De Santis tutto è degno di essere impressionato su pellicola e ancor più di divenire spettacolo, e dunque Cinema. Con Giorni D’amore si può quasi dire che il regista inauguri una seconda trilogia della terra a colori.  Affidando al pittore e compaesano, Domenico Purificato, la consulenza del colore, De Santis vuole spingersi oltre il modello della verosimiglianza e dare vita ad una storia dai forti connotati antinaturalistici, pur mantenendo l’attualità della vicenda.

L’utilizzo del colore in senso pittorico contribuisce a caricare di lirismo le immagini del regista, inserendole a pieno titolo nell’universo popolare dei cantastorie e delle favole. Lo si può notare sin dai titoli di testa, nei quali viene esplicitata la modalità narrativa in cui la storia sarà raccontata. In particolare, vi è un evidente richiamo alla struttura della commedia tradizionale latina nella definizione dei conflitti e dei ruoli all’interno delle famiglie dei due fidanzati. La cultura popolare si manifesta inoltre attraverso la “teatralizzazione” del paese, ma anche nell’attenzione dedicata alla comunità piuttosto che al singolo: i paesani sono interpretati da attori non professionisti che, accanto a Mastroianni e Vlady, contribuiscono a restituire un ritratto vitalistico e autentico della vita ciociara nell’Italia contadina del dopoguerra. Da non dimenticare che la massa, intesa come comunità, si configura come una dei grandi protagonisti della cinematografia di De Santis. Nel caso di Giorni d’amore il paese stesso partecipa attivamente e coralmente al problema divenendo talvolta un grande teatro dove realtà e finzione si intrecciano inesorabilmente.

L’importanza di fare la commedia



Quando i due fidanzati architettano la fuga d’amore, convincono le proprie famiglie a mettere su una sceneggiata. Il piano è semplice: i genitori devono “fare la commedia” e darsi la colpa a vicenda affinché si sparga la voce della loro fuga. Dinanzi alla richiesta dei due innamorati, vola un’esclamazione: “ma io non so litigare”- a cui fa eco un: “ti scrivo io quello che devi dire!”.
Inizia così la commedia, in cui il paese di Fondi si trasforma in un palcoscenico a cielo aperto. In particolare, la sceneggiata viene messa in atto sui balconcini delle due famiglie che gettano l’una sull’altro. Il sipario è reso dalle tapparelle dipinte che si alzano e si abbassano in seguito ad ogni battuta. Sembra di assistere ad uno spettacolo di burattini.

Dopo un iniziale tentennamento, le famiglie iniziano a prenderci gusto e la commedia a farsi realtà: all’insulto del padre di Angela, risponde quello di Pasquale con un’ingiuria ancora più grossa. Il coro è composto dagli stessi paesani che reagiscono alle loro provocazioni con rulli di tamburo e schiamazzi, schierandosi dall’una o dall’altra parte. In questa scena il paese svela la sua natura esplicitamente finzionale, trasformandosi in un presepe vivente con figuranti e case fatte di cartapesta. La vita di Fondi si alterna continuamente alla fuga dei due innamorati, che si svolge principalmente negli spazi esterni e autentici della campagna laziale. Ben presto, tuttavia, il paese partecipa alla vicenda lanciandosi alla ricerca dei due fidanzati per convincerli “a fare le cose per bene” e dunque scongiurare la possibilità di un matrimonio riparatore. Dopo i primi momenti di serenità, iniziano ad emergere le prime difficoltà legate alla fuga, al vivere da soli e alla diversità caratteriale di Angelina e Pasquale. L’elemento finzionale si manifesta nel gioco di seduzione tra i due fidanzati che viene continuamente interrotto e disturbato dagli animali, da un sorvegliante di un campo, da un gruppo di zingari e infine dai loro stessi paesani, i quali hanno imbastito una vera e propria caccia per scovarli e farli tornare a casa. Ciò nonostante, è grazie a questi numerosi ostacoli che Angela e Pasquale imparano a conoscere sé stessi sia in quanto individui che coppia. La vicenda si risolve in un lieto fine con una risata liberatoria del pubblico, composto da famiglie e paesani, all’uscita dei due novelli sposi dalla chiesa. A differenza del finale amaro di Roma ore 11, in Giorni d’amore attraverso il ritorno alla terra si raggiunge la felicità coniugale che culmina con la reintegrazione dei due membri all’interno della comunità. La terra assume quindi un valore fortemente vitalistico e permette ai due di sposarsi, ma anche ad Angelina di coronare il sogno e farsi la permanente.


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Benedetta Lucidi,
Redattrice.