Federico Fellini e Marcello Mastroianni, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, Vittorio De Sica e Sophia Loren, Michelangelo Antonioni e Monica Vitti: plurimi e celeberrimi sono i sodalizi artistici, tra registi e attori, che hanno caratterizzato e continuano a influenzare il cinema italiano. Diversi i motivi che conducono a sodalizi come quelli citati poc’anzi: l’attore feticcio può divenire l’alter ego del regista, l’attrice la musa ispiratrice; possono sussistere legami sentimentali o relazioni di “amore e odio” che non inficiano, tuttavia, la resa finale del prodotto.

Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, nel panorama cinematografico italiano, s’instaura un rapporto prolifico tra l’attore Gian Maria Volonté e il regista Elio Petri: la condivisa militanza politica, in un quadro socio-culturale di fervore ideologico e denuncia sociale, ha permesso ai due artisti di costruire un legame fecondo che ha lasciato un profondo segno non solo nel cinema civile italiano, ma anche nella storia del cinema mondiale. Quattro lungometraggi e un mediometraggio sono il frutto di un incontro che ha reso Volonté e Petri due esponenti di quel cinema che ha saputo assoggettare una nuova visione autoriale alla denuncia di corruzioni e politiche stagnanti, che indirizzandosi contro il potere costituito ha fatto riaffiorare realtà storiche a lungo rimaste celate.

L’incontro siciliano: A ciascuno il suo (1967)

È Leonardo Sciascia, in un certo senso, il mediatore per il primo incontro tra Volonté e Petri. È il 1967, e l’attore, già conosciuto al grande pubblico per le sue interpretazioni in Per un pugno di dollari (Leone, 1964), Per qualche dollaro in più (Leone, 1965) e L’armata Brancaleone (Monicelli, 1966), viene ingaggiato per interpretare il protagonista del quinto lungometraggio di Petri. Volonté impersona l’impacciato e «sessualmente incompetente» maestro Paolo Laurana, coinvolto suo malgrado in un torbido omicidio di mafia: A ciascuno il suo (1967) è infatti uno dei primi film a denunciare, in maniera esplicita, l’organizzazione criminale sicula retta da una solida rete fatta di omertà, violenza, omicidio e miti fondativi. Qualche anno prima, nel 1962, Volonté aveva già partecipato a un lungometraggio di denuncia verso la mafia: Un uomo da bruciare, diretto da Valentino Orsini e dai Fratelli Taviani, rievoca la vita e l’attività del sindacalista Salvatore Carnevale, che in cerca di una solidarietà sindacale si scontra con gli interessi dei mafiosi. 

Elio Petri, dal canto suo, proviene dalla direzione di film come L’assassino (1961), I giorni contati (1962) e Il maestro di Vigevano (1963), lungometraggi intrisi, più o meno evidentemente, della lezione neorealista appresa da Petri fin dai suoi primi passi nel cinema italiano. Con A ciascuno il suo, s’inizia a delineare l’inclinazione di Petri verso il filone del cinema civile, tendenza animata non solo dalla feconda collaborazione con Volonté, ma anche dal sodalizio con lo sceneggiatore Ugo Pirro, fedele collaboratore anche nei successivi film. 

Di indagine in indagine

Dopo A ciascuno il suo e Un tranquillo posto di campagna (1968) con Franco Nero e Vanessa Redgrave, è il 1970 che segna la svolta nella filmografia di Elio Petri – e, contestualmente, di Gian Maria Volonté. In Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, l’attore, in stato di grazia, interpreta un Dirigente della Pubblica Sicurezza – senza nome, identificato solo con l’appellativo di “Dottore” – che intende mettere alla prova la sua insospettabilità, a seguito dell’omicidio dell’amante Augusta (Florinda Bolkan). Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto viene presentato alla 23ma edizione del Festival di Cannes, vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria, e ottiene il Premio Oscar al miglior film straniero nel 1971. Il film, primo della trilogia della nevrosi – qui declinato nel senso di onnipotenza dato dal potere costituito, dunque la nevrosi del potere – è accolto con una moltitudine di critiche su più fronti: colto nei riferimenti letterari, da Franz Kafka a Bertolt Brecht, da Karl Marx a Fëdor Dostoevskij, Indagine è il film che rende Petri, Pirro e Volonté bersagli prediletti dello scontro politico che anima l’Italia degli anni Settanta. È una lucida riflessione sulle nevrosi che agitano il sistema poliziesco post Sessantotto, le quali sono incorporate dal Dottore, affetto da onnipotenza ma interiormente incapace di agire come un bambino, del quale si accenna anche una repressione sessuale, resa manifesta dalla “rivoluzionaria” Augusta. Gian Maria Volonté, in questo senso, restituisce un’interpretazione che è rimasta negli annali della recitazione, impersonando un anti-eroe sfaccettato e controverso che è divenuto simbolo del cinema civile italiano. 

In contemporanea con Indagine, nel 1970 Elio Petri co-dirige, insieme a Nelo Risi, il documentario Documenti su Giuseppe Pinelli. Composto da due episodi – Giuseppe Pinelli, diretto da Risi, e Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, diretto da Petri – il documentario è una reazione al presunto suicidio dell’anarchico Pinelli, il quale ricostruisce e ironizza sulle dichiarazioni della polizia circa l’improbabilità del suicidio, dimostrando l’impossibilità della caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra della questura dove era in fermo. Nell’episodio diretto da Petri, Gian Maria Volonté dirige le tre diverse versioni fornite dal comando di polizia, ponendo in evidenza l’assurdità delle stesse. Il documentario, prodotto dal “Comitato cineasti contro la repressione”, nasce in prima battuta da Petri e Pirro, a seguito della strage di Piazza Fontana e alla conseguente linea repressiva da parte delle forze di polizia. Rimasto per lo più sconosciuto, a causa della limitata circolazione, Documenti su Giuseppe Pinelli rappresenta il versante non fiction del cinema civile italiano, in cui Gian Maria Volonté ed Elio Petri si presentano, nuovamente, come esponenti in stato di grazia.

La classe operaia (non) va in paradiso

Dopo l’indagine sulla nevrosi del potere, Elio Petri sceglie di scandagliare la nevrosi del lavoro: La classe operaia va in paradiso (1971) è una satira grottesca sul lavoro in fabbrica e sulle sue conseguenze, nella vita intima, della catena di montaggio e del cottimo. Come ricorda Petri stesso, al tempo dell’uscita del film tutti si scagliarono contro la pellicola: dai movimenti studenteschi nati a seguito del Sessantotto, i sindacati, gli intellettuali, i dirigenti, i maoisti; il film, invece, voleva essere il ritratto della classe operaia scevro di ogni ragione politica e ideologia.

Premiato con la Palma d’Oro alla 25ma edizione del Festival di Cannes, La classe operaia va in paradiso è il ritratto realistico dell’operaio Lulù Massa, interpretato da Volonté, trentunenne con quindici anni di lavoro alle spalle presso la fabbrica B.A.N.: il suo stakanovismo e il suo sostegno del lavoro a cottimo sono mal visti dai colleghi che domandano, invece, condizioni di lavoro più umane. Ma la perdita di un dito, a seguito di un infortunio sulla macchina, produce un effetto sconvolgente nella sua persona, e risvegliatosi da quel sonno dettato dalla sottomissione al lavoro, Lulù inizia a sentirsi parte di una lotta di classe comune.

Dal “Dottore”, spietato ma infantile, a Lulù Massa: il camaleontismo di Volonté è reso ampiamente manifesto se si confrontano i due personaggi interpretati a pochi mesi di distanza. Lulù è la grottesca rappresentazione dell’alienazione umana a seguito del lavoro a cottimo, il risvolto tragico e realistico del Charlot operaio di Tempi Moderni (Chaplin, 1936). A differenza della corporeità del “Dottore” – impeccabile nell’abbigliamento, nella pettinatura e nei modi – il corpo di Lulù è compromesso da due intossicazioni da vernice e da un’ulcera: ha trentun anni, ma ne dimostra quasi il doppio. Elio Petri, attraverso i suoi ricorrenti primissimi piani, esaspera i tratti grotteschi del suo protagonista e dei comprimari, palesando la nevrosi che caratterizza la vita operaia, dentro e fuori la fabbrica. In particolare, è degna di nota la presenza fondamentale di Mariangela Melato, interprete eccellente della compagna di Lulù, che incarna sia l’impossibilità di una vita intima con il cottimista Massa, sia il fronte opposto – e più lucido – delle lotte operaie e studentesche che, secondo Petri, si basano più sulle parole che sui fatti.

L’ultimo film: Todo Modo (1976)

Dopo La classe operaia va in paradiso, Elio Petri conclude la sua trilogia della nevrosi con La proprietà non è più un furto (1973): al posto di Volonté, Ugo Tognazzi e Flavio Bucci sono i protagonisti di una pellicola che scandaglia la nevrosi data dal denaro, nonché dell’assolutizzazione dell’avere in contrapposizione con l’essere. Accolto all’epoca molto negativamente dagli intellettuali di sinistra, il film viene considerato il meno riuscito della trilogia: pur contando sul sodalizio con Ugo Pirro, è sentita la mancanza dell’attore feticcio fra gli interpreti della pellicola.

Gian Maria Volonté ritorna davanti alla macchina da presa di Petri nel penultimo film del regista romano. Todo Modo (1976), liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, chiude simbolicamente il sodalizio artistico più iconico della stagione del cinema civile: interessante notare come sia un romanzo dello scrittore siculo a concludere tale collaborazione, aperta nel 1967 con il già citato A ciascuno il suo. Film ermetico e apertamente critico verso la Democrazia Cristiana – al tempo fautrice della formazione del cosiddetto Pentapartito – Todo Modo rappresenta il culmine della riflessione di Petri, Pirro e Volonté sul potere costituito, riflessione volta a mettere in scena il lato grottesco e controverso della classe dirigente. Accanto a interpreti del calibro di Mariangela Melato, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori e Ciccio Ingrassia, Gian Maria Volonté interpreta per la prima volta, sul grande schermo, il democristiano Aldo Moro (pur non venendo nominato esplicitamente): del politico, identificato come “Il Presidente”, si ha una rappresentazione grottesca, un personaggio che esplicita la sua nevrosi in una fede cieca; il suo controverso rapporto con Don Gaetano (Marcello Mastroianni) è esemplificativa del suo rapporto esasperato con la religione cattolica. Volonté esaspera la mimica facciale del politico, l’inflessione della sua voce e i suoi comportamenti, un’interpretazione che prende alla bocca dello stomaco. Un’incorporazione meno caricaturale verrà resa dallo stesso attore ne Il caso Moro (Ferrara, 1982), ricostruzione del rapimento e del successivo assassinio del politico italiano.

Todo Modo conclude il fecondo sodalizio artistico fra attore e regista, che rimane ad oggi uno dei più importanti della storia del cinema. Dopo la pellicola, Petri dirigerà il suo ultimo film, Buone notizie (1979), con Giancarlo Giannini e Angela Molina come protagonisti: a causa di un cancro, morirà nel 1982, a soli 53 anni. A lungo dimenticato dal grande pubblico, la figura di Petri è stata lentamente recuperata solo negli ultimi anni, palesando l’importanza di un regista che ha saputo essere uno dei maggiori esponenti del cinema civile italiano insieme all’indimenticabile Gian Maria Volonté.

shannon_magri
Shannon Magri,
Redattrice.