Un anno fa ci lasciava Ryūichi Sakamoto, musicista giapponese “nato” come membro della band elettronica Yellow Magic Orchestra e divenuto negli anni ‘80 autore di colonne sonore per alcuni dei più importanti registi contemporanei (citiamo Bertolucci, Almodóvar, Iñárritu e De Palma). Durante la sua carriera,  sia nelle composizioni da solista sia in quelle per i film, Sakamoto ha mescolato le sonorità della musica orientale con quelle orientali, ha cercato di utilizzare suoni nuovi, dissonanti e mai sperimentati (interessantissimo per scoprirne il processo creativo il documentario di Stephen Schible a lui dedicato, Ryuichi Sakamoto: CODA).

Nel primo anniversario della sua morte ci dedicheremo al film che ha segnato l’inizio del suo percorso come compositore per il cinema, un film nel quale Sakamoto è stato sia compositore sia attore. Ci riferiamo a Furyo (Merry Christmas Mr Lawrence, Nagisa Ōshima, 1983), un particolarissimo war movie che, lasciando da parte la grandiosità epica di schemi militari e politici, si concentra su un conflitto più contenuto che richiede, appropriatamente, un “campo di battaglia” ridotto.

Due musicisti per due culture

Siamo a Giava nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale. All’interno di un campo di prigionia giapponese, diretto col pugno di ferro dal Sergente Hara (Takeshi Kitano, qui al suo debutto cinematografico in una parte drammatica) e il Capitano Yonoi, i prigionieri facenti parte dell’esercito degli Alleati convivono a fatica coi loro carcerieri. A causare tensioni sono tanto le condizioni di vita e la violenza dei giapponesi quanto l’incapacità delle due fazioni di comprendersi. Un prigioniero, John Lawrence (Tom Conti, che abbiamo visto l’anno scorso nel ruolo di Einstein in Oppenheimer), mette a disposizione la propria conoscenza della lingua e della cultura nipponica, creando un rapporto di reciproco rispetto con Hara. 

Il picco delle tensioni si raggiunge quando nel campo viene trasferito un prigioniero particolarmente irruento, Jack Celliers, che instaura subito un ambiguo rapporto col Capitano Yonoi. Ad interpretare i due personaggi, estremi di un curioso binomio, due musicisti di fama internazionale: David Bowie (Celliers) e Ryūichi Sakamoto (Yonoi).

Un gioco dialettico interessantissimo, quello messo in atto dal regista. Scegliendo per la parte di avversari militari personaggi tanto riconoscibili, idealmente rappresentanti delle culture di appartenenza, si materializza in maniera estremamente chiara il conflitto alla base di tutto il film che contrappone anche gli altri due protagonisti, Hara e Lawrence. Il fatto che la musica assuma poi un ruolo importante all’interno del film stesso, in maniera probabilmente consapevole (uno dei rari momenti di comicità offerti dalla pellicola è quello in cui Celliers canta e si rivela stonato come una campana), non può non richiamare nella mente dello spettatore anche il discorso metatestuale.

Un film di contrasti

Quello instauratosi tra Sakamoto e Bowie è solo il primo di una serie di contrasti e contaminazioni culturali che si vanno ad innestare sia all’interno del film sia nella sua produzione. Furyo è infatti una coproduzione nipponica-anglosassone-neozelandese legata al nome del leggendario produttore inglese Jeremy Thomas, tratta da un libro di memorie, Il seme e il seminatore, di Laurens van der Post, autore sudafricano che raccontò le sue esperienze personali di prigioniero. Nel film il fulcro della vicenda non si sposta (il protagonista e le esperienze raccontate restano quelle di Lawrence), ma certamente muta il punto di vista, nel momento in cui a dirigere il film è un giapponese. 

Nagisa Ōshima, regista del film, avrebbe avuto per tutta la propria carriera la fama di autore estremamente provocatorio e critico del suo stesso popolo e i suoi valori, in particolar modo a seguito della Seconda Guerra Mondiale. 

Celliers: Che c’è che non funziona in questa gente?

Lawrence: Non lo so. Erano una nazione di individui bramosi. Individualmente non hanno possibilità. Sono diventati pazzi, in massa.

In Furyo, il comportamento dell’esercito giapponese viene visto e analizzato attraverso lo sguardo esterno dei prigionieri, e in quanto tale ci risulta spietato. Ugualmente, anche la macchina da presa fà da filtro alla nostra percezione, e non concede sconti, oltre che al loro atteggiamento crudele e violento, anche alla loro rigidità. Bowie ricordò in un’intervista di come Ōshima dirigesse gli attori nipponici in maniera estremamente precisa, lasciando invece maggiore libertà al resto del cast. Ciò emerge chiaramente nell’opposizione tra i gesti estremamente ritualistici e precisi dei carcerieri e quelli dei prigionieri, specialmente nelle scene in cui i due eserciti sono contrapposti.

Le diverse pose assunte da Celliers e Yonoi nel momento in cui si preparano a combattere

Nel corso del film d’altronde l’elemento rituale viene reiterato più volte, con la rappresentazione di diverse cerimonie performate specialmente dall’esercito giapponese. Queste cerimonie finiscono per diventare sineddoche del popolo nipponico tutto (in un dialogo, Lawrence dice di non voler assistere all’harakiri, il suicidio rituale, domandando ad Hara: “volete che odi i giapponesi?”) e della rigidità ed attaccamento alle tradizioni denunciate dal regista.

Ma in realtà anche i prigionieri hanno i loro riti: in almeno due punti del film il canto è usato come strumento per celebrare i propri morti, e diventa occasione per unire la comunità a discapito delle diverse nazionalità di cui questa è composta. A noi spettatori occidentali, forse, questi “riti” risultano più comprensibili e pertanto più accettabili perché più vicini alla nostra sensibilità, proprio come è per il personaggio del Capitano Hicksley?

Infine, parlando di contrasti, abbiamo la colonna sonora firmata da Sakamoto. Già nel suo primo lavoro il compositore unisce suggestioni sia occidentali sia orientali nella musica, dando vita a brani dalle sonorità interessantissime che sembrano strizzare l’occhio ad una possibile unione di culture. Il picco viene raggiunto nella traccia “Forbidden Colours”, tema principale composto da Sakamoto e cantato dal britannico David Sylvian, con un titolo che per di più rimanda al romanzo dell’influente scrittore Yukio Mishima.

Ma questa unione è possibile?

Lost in translation: mediazioni fallite e riuscite

In Furyo la lingua appare un ostacolo quasi insormontabile nel rapporto tra i personaggi. La mancanza di comprensione del giapponese è l’ennesimo intralcio tra carcerieri e prigionieri, la manifestazione più tangibile di una impossibilità di capirsi più radicale.

Lawrence, in quanto prigioniero che conosce il giapponese, si propone come tentato mediatore sia linguistico sia culturale. Per questo motivo, non si riesce mai davvero ad inserire né nell’uno né nell’altro gruppo, trovandosi sempre fuori posto: dai prigionieri viene trattato come una figura estranea, e pur avendo la simpatia di Hara e il rispetto di Yonoi questo non impedisce al Capitano di provare a sacrificarlo nel momento in cui ciò potrebbe salvare la sua percezione del mondo. Per di più, il più delle volte i suoi atti di mediazione finiscono per essere frustrati.

La mediazione riesce solo quando ad emergere è l’umanità dei nemici. Hara e Lawrence condividono un rispetto reciproco che sfocia quasi in amicizia, in nome dei quali (o, forse, grazie ai quali?) riescono a tenere discussioni  attorno a diversi argomenti, occasioni vissute sempre come momenti di arricchimento sia per i personaggi sia per il pubblico.

Hara: Quando avevo 12 anni visitai il tempio nel mio villaggio. Offersi la mia vita all’imperatore. Io sono già morto per il mio paese.

Lawrence: Sì, ma… Non siete morto, vero?

Yonoi e Celliers, l’altra coppia di protagonisti, sono anche più radicali da questo punto di vista, perché legati da nient’altro ma la loro silenziosa tensione erotica. Questa si materializza in un singolo atto che è anche il momento culmine -potremmo dire il “climax”?- del loro legame, ovvero il bacio di Celliers di fronte a tutti i due eserciti, un momento che funge da riaffermazione pubblica dei sentimenti umani e dell’uguaglianza che questi garantiscono, anche tra nemici.

Non è un caso che la battuta “Buon Natale, signor Lawrence”, che dà il nome al film e quindi ne suggella il significato, sia proferita in occasione di un atto di pietà, quello di Hara che rilascia Lawrence e Celliers dopo che erano stati condannati a morte. Non è neppure un caso che questo atto avvenga in occasione del Natale, una festa che il pubblico occidentale vive come momento dedicato ai propri amati e caratterizzato da un’esasperata bontà (“a Natale siamo tutti più buoni”, si dice).

Ma è anche la battuta con cui Furyo si chiude, mostrandoci il volto di Kitano che aveva anche aperto il film. Il richiamo ciclico non fa altro che sottolineare quanto le cose siano cambiate ma rimaste le stesse: l’ultima scena del film, ambientata dopo la fine della guerra, vede Lawrence andare a trovare Hara, adesso prigioniero, il giorno prima della sua esecuzione. Questo momento di condivisione finale tra i due nemici, come anche la risoluzione di Celliers a Yonoi, ci dimostrano che la comprensione è possibile, ma non in tempo di guerra, un momento in cui, come Lawrence giustamente ripete più volte nel corso del film, “Tutti quanti sbagliamo” perché tutti siamo convinti di essere nel giusto.

Hara: Io non capisco. I miei crimini erano come quelli di tutti i soldati.

Lawrence: Lei è vittima di… Di uomini convinti di essere nel giusto. Come una volta lei e il Capitano Yonoi eravate convintissimi di essere nel giusto. In realtà, poi… Nessuno è nel giusto.

Bibliografia:

  • Mehdi Derfoufi, “Embodying Stardom, Representing Otherness. David Bowie in ‘Merry Christmas Mr. Lawrence’”, in Eoin Devereux, Aileen Dillane e Martin J. Power (a cura di), David Bowie: Critical Perspectives, Londra, Routledge, 2015, pp. 160-175
  • Karen Jaehne, “Merry Christmas Mr Lawrence”, Film Quarterly, Vol. 37 No. 3, primavera 1984, pp. 43-47. https://www.jstor.org/stable/3697199
  • Chuck Stephens, “Deadly Youth”, Film Comment, n. 36 (6), novembre-dicembre 2000, pp. 22-26. https://www.proquest.com/scholarly-journals/deadly-youth/docview/210265807/se-2?accountid=9652
  • Dario Tomasi, “Identità, crimine e sessualità: cinema e politica secondo Ōshima”, in Stefano Francia di Celle (a cura di), Nagisa Oshima, Milano, Il Castoro, 2009, pp. 60-115

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Silvia Strambi,
Redattrice.