Fu in una cupa notte di novembre che vidi la fine del mio lavoro. Con un’ansia che arrivava quasi allo spasimo raccolsi intorno a me gli strumenti della vita per infondere una scintilla animatrice nella cosa immota che mi giaceva davanti. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva sinistramente sui vetri, e la candela era quasi tutta consumata, quando, al bagliore della luce che andava estinguendosi, vidi gli occhi giallo-opachi della creatura aprirsi; respirò ansando e un moto convulso gli agitò le membra.
– Mary Shelley, Frankenstein
Il fascino per il binomio vita-morte è alla base delle due invenzioni più rinomate dell’Ottocento: la fotografia e il Cinema. All’epoca uno dei principali timori nei confronti di queste nuove tecnologie riguardava l’idea che rappresentassero dei memento mori o una forma di stregoneria. In molte culture v’era la credenza che la fotografia potesse rubare l’anima delle persone, imprigionandola per sempre. Questo perché la foto cristallizza l’essenza del soggetto per l’eternità sottraendo la morte stessa dall’inesorabile azione dissolvente del tempo. L’ avvento del mezzo cinematografico ha complicato ulteriormente la questione poiché non si tratta più di immagini fisse, ma in movimento. Il Cinema evoca la morte riportandola costantemente in vita in quanto essa è riproducibile agli occhi del pubblico. Le immagini in movimento posseggono, inoltre, un rapporto di maggiore immediatezza con la realtà nei confronti della quale possono avere lo statuto di calco, impronta, testimonianza, mistificazione o interpretazione… e così via.
Ragionando sul piano dell’immaginario filmico, il Cinema presenta sin dalle origini una fascinazione rilevante per il binomio vita-morte, derivata tanto da un interesse scientifico quanto da una fascinazione orrorifica e magica che ha contraddistinto molte delle narrazioni letterarie del diciannovesimo secolo. Tra le molte opere di riferimento, il mito di Frankenstein è profondamente radicato nell’estetica cinematografica in quanto la creatura di Shelley è espressione della paura diffusa al tempo per lo sviluppo tecnologico. Quella stessa paura che aveva spinto molti a guardare con diffidenza la fotografia e poi il Cinema in quanto invenzione scientifica e successivamente opera d’arte, ma anche tensione verso un universo magico.
Stabilito questo duplice interesse, non sorprende che il personaggio di Frankenstein incarni uno degli archetipi principali della storia del cinema e uno dei soggetti maggiormente portati sullo schermo. Basti pensare a pellicole come Metropolis (1927) di Fritz Lang, il recentissimo Povere Creature (2024) di Lanthimos, ma anche a prodotti seriali quali Penny Dreadful (2014-2016). Nel corso del Novecento sono stati realizzate più di ventisei film ispirati alla creatura di Mary Shelley, tra i quali si ricordano in particolare Frankenstein (1931) e La moglie di Frankenstein (1935), entrambi diretti da James Whale, Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks e infine il Frankenstein di Mary Shelley (1994) con regia Kenneth Branagh.
Frankenstein approda sul grande schermo
Una trasposizione dell’opera della Shelley compare già nel 1910 in pieno periodo muto, ancor prima dell’iconico Frankenstein diretto da James Whale (1931) e interpretato da Boris Karloff, il quale ha definito l’iconografia classica del mostro. Il Frankenstein in questione è un film scritto e diretto da J. Searle Dawley ed è considerato il primo libero adattamento cinematografico dello spaventoso romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo, scritto da Mary Shelley nella prima metà dell’Ottocento. E’ un cortometraggio muto prodotto dalle compagnie cinematografiche Edison Studios, fondate da Thomas Edison nel 1894. Questa pellicola venne girata in soli tre giorni ed uscì nelle sale statunitensi il 18 marzo 1910, ma negli anni successivi finì nel dimenticatoio. La storia di questo film è straordinaria, seppur non inusuale dal momento che la stragrande maggioranza delle opere del muto sono andate perdute o disperse. Dopo anni di silenzio, Frankenstein di Dawley venne miracolosamente rinvenuto nei primi anni Settanta e successivamente restaurato nel 2018.
Negli anni dieci del Novecento iniziarono a definirsi i primi generi cinematografici, fortemente influenzati da quelli letterari e teatrali, quali la commedia, la tragedia, le storie fantastiche e dell’orrore e molti altri. In particolare l’horror divenne uno dei generi più redditizi e di successo per l’industria appena nascente, grazie all’influenza straordinaria della letteratura gotica del diciannovesimo secolo, in cui il mito di Frankenstein si colloca pienamente. La popolarità di tali storie fu uno degli elementi principali che permise la loro diffusione attraverso il mezzo cinematografico. Si trattava, infatti, di racconti fortemente radicati nella cultura europea e dunque noti pressappoco a chiunque. La trama del cortometraggio di Dawley è estremamente semplice, nonostante si discosti molto dal romanzo. Una delle differenze più interessanti con lo scritto di Mary Shelley riguarda la nascita della creatura che avviene per mezzo di un incantesimo, non attraverso l’assemblaggio di componenti del corpo umano e la sperimentazione galvanica per mezzo degli impulsi elettrici. Nell’adattamento di Dawley, il giovane dottor Frankenstein inserisce uno scheletro all’interno di un grande calderone nel quale poi mescola vari ingredienti alchemici. Dal fumo denso del calderone, in cui lo studioso ha riversato i vari ingredienti, emerge una creatura deforme – e buffa agli occhi di noi moderni spettatori abituati a ben altri effetti speciali.
Non appena il dottore si rende conto di ciò che ha compiuto, si precipita fuori dalla stanza in preda all’orrore rinnegando la sua creatura. La pellicola conserva ancora molte caratteristiche del cinema delle origini quali la fissità della macchina da presa, l’impostazione prettamente teatrale riscontrabile nella recitazione esagerata, nelle scenografie con i fondali dipinti e nella divisione in quadri dei singoli avvenimenti. In aggiunta a questo, si denota ancora un interesse nella ripresa delle figure intere a discapito del primo piano che invece sarà la firma del cinema classico hollywoodiano. Nonostante ciò, si inizia a scorgere qualcosa di nuovo che va oltre la semplice attrazione per le immagini in movimento e per i trucchi speciali e che sfocia piuttosto in una sperimentazione narrativa. Il Frankenstein di Dawley vuole raccontare una storia attraverso l’uso del montaggio e delle didascalie esplicative, ma anche attraverso i personaggi stessi che iniziano ad assumere delle prime connotazioni psicologiche. A tal proposito, è estremamente significativa la scena in cui la creatura si guarda in uno specchio per la prima volta e apprende con rabbia e vergogna quale sia il terribile aspetto cui è stata condannata dal suo creatore.
Nel 1910 il tempo delle vedute dei Lumière è ormai tramontato: si passa, dunque, da un sistema di rappresentazione primitiva delle attrazioni mostrative ad uno di rappresentazione istituzionale/ di integrazione narrativa! La scelta di sostituire l’aspetto scientifico della storia originale con quello faustiano magico ed esoterico è esemplare nella definizione stessa dell’essenza cinematografica di quegli anni. Nella prima metà del Novecento, negli Usa il cinema è un po’ come il calderone del dottor Frankenstein di Dawley: non più solamente una mera invenzione, ma un’industria creativa in evoluzione che già possiede alcuni dei tratti fondamentali di quella che successivamente sarà definita “la fabbrica dei sogni”.
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