Siamo alla fine degli anni ’50 quando in Francia l’urgenza dei cinéphiles di distaccarsi dalla “qualità francese” dei film prodotti negli anni precedenti ha un risvolto concreto. Nel 1958 il primo lavoro di Claude Chabrol, Le Beau Serge, costituisce un importante passo in avanti insieme ad altri film che si dividono tra il 1959 e il 1960, come Hiroshima mon amour (Alain Resnis, 1959) e À bout de souffle, (Jean-Luc Godard, 1960).
Ce n’è uno però che in questo momento storico si carica di un particolare valore simbolico, forse anche più degli altri. È un film le cui riprese iniziano con la tragica morte di André Bazin, padre spirituale e mentore dei Cahiers du Cinéma, e terminano con la nascita della prima figlia del regista. È un lungometraggio d’esordio ma nonostante ciò è già un film di bilanci e ricapitolazioni: non di una carriera cinematografica ma di un’infanzia, trattata in maniera emotivamente schietta e sincera. É I 400 colpi di François Truffaut.
La genesi de I 400 colpi
Truffaut aveva realizzato da poco il suo primo corto Les mistons, grazie a cui aveva guadagnato abbastanza sicurezza in sé da provare a lavorare ad un progetto più articolato, ma provando comunque una grande incertezza. Nel 1958 rivolge timidamente la sua attenzione all’adattamento di un romanzo di Jacques Cousseau, Temps chaud (1956) su commissione del produttore Pierre Braunberger. Per diversi eventi tuttavia le riprese non avranno mai inizio: si vorrà prima attendere il caldo, poi un’attrice si infortunerà, e dunque il giovane regista capisce di volersi dedicare ad altro. È sempre nel 1958 che suo suocero Ignace Morgenstern accetta di finanziare I 400 colpi, e già nel giugno di quell’anno, con solo una bozza di sceneggiatura come “garanzia”, il regista inizia a lavorare al film.
La componente personale nel vero sviluppo della sceneggiatura è essenziale. Truffaut attinge al suo vissuto personale, alla sua infanzia difficile e caotica, selezionando alcuni specifici eventi: la frequentazione della scuola di Rue Milton, l’esperienza nel centro di osservazione di minori a Villejuif, il rapporto con l’amico Robert Lachenay. Per avere una maggior certezza sulla qualità dello script chiede l’aiuto del romanziere Marcel Moussy, iniziando a occuparsi dell’aspetto pratico del film nell’autunno del 1958. Nel frattempo il regista nutre insicurezza sul tema della narrazione. Sebbene infatti abbia bene in mente ciò che vuole rappresentare, è conscio del rischio di mettere in scena una “confessione piagnucolosa e compiacente”. Ciò a cui mirava era invece la costruzione di uno sguardo particolare sul periodo dell’infanzia e sulla psicologia infantile, ragion per cui si era meticolosamente informato parlando con giudici minorili, leggendo molto e confrontandosi con Fernard Deligny, scrittore che aveva documentato l’adolescenza per strada di molti ragazzi. Sarà fondamentale il contributo di Deligny per la famosa scena di Antoine Doinel nel colloquio con la psichiatra. La prima impostazione che Truffaut intendeva darvi era diversa inizialmente, ma in seguito alle critiche dello scrittore la sostituisce con un una confessione priva di controcampi, più “sincera”.
L’incontro con Jean-Pierre Léaud
Uno dei momenti più importanti, che avrà riscontri significativi per tutta la successiva carriera del regista, è la scelta degli attori. È in questa occasione infatti che conosce Jean-Pierre Léaud. Il giovane quattordicenne si era distinto tra tutti gli altri ragazzi per la sua personalità insofferente e arrogante. Truffaut l’aveva sentito simile a sé proprio per questo, e non aveva potuto fare a meno di notarlo selezione dopo selezione. È con I 400 colpi che il regista dà vita al “ciclo Antoine Doinel” (di cui abbiamo scritto qui), serie di film in cui lo stesso personaggio ritorna in diversi momenti della sua vita, talvolta collegati al film precedente. Antoine non è solo Truffaut, sebbene nasca come una sorta di suo alter ego, ma è anche minuziosamente costruito su Jean-Pierre.
Il 5 gennaio 1959 le riprese si concludono, e per il montaggio sono necessari solo due mesi. I colleghi di Francois sono entusiasti, il film promette davvero bene. Lo conferma il fatto che il 14 aprile il Festival di Cannes proponga al ministro degli Affari Culturali André Malraux I 400 colpi per rappresentare la Francia, Insieme a Orfeo negro (Marcel Camus, 1959) e Hiroshima mon amour. Questo evento segna un momento di passaggio nella storia del cinema francese, l’abbandono della tradizione precedente per permettersi di sperimentare ed esplorare un nuovo movimento, la Nouvelle Vague.
La messa in scena e l’infanzia reale
L’infanzia di Truffaut, soprattutto nel periodo di passaggio verso l’adolescenza, fu il periodo interamente preso dal regista come spunto per il film. Molti eventi erano stati vissuti da lui in prima persona, e trasposti nella messa in scena con tutti i problemi e le peripezie che egli aveva dovuto affrontare. Già il titolo stesso, “i quattrocento colpi”, era un’espressione in uso nella Francia dell’epoca per indicare una serie di marachelle fatte da un bambino, simile a “farne di tutti i colori”. Vi era innanzitutto il rapporto conflittuale con i genitori, da cui raramente il piccolo François si era sentito davvero amato. Le sensazioni preponderanti con loro erano l’impressione di essere un peso, di essere lasciato da parte e costituire un intralcio ai loro divertimenti. Fu certamente significativo il fatto che suo padre, da cui aveva preso il cognome, non fosse il suo vero padre biologico. Già solo la sistemazione del suo letto, un “divano” pieghevole nell’ingresso della piccola abitazione, dava l’idea al piccolo di non essere il benvenuto in casa. I diversi problemi con la scuola poi non fecero altro che incentivare questo distacco e convincere il ragazzo di essere un criminale, un buono a nulla, capace solo di mentire e rubare. In questo quadro drammatico sono i libri, la solitudine, l’amico Lachenay e in seguito i film a costituire la parte più importante della sua crescita e a costruire le basi di quello che sarà poi da grande François Truffaut.
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