Sottovalutare v. tr. [comp. di sotto- e valutare] – Considerare una persona o una cosa meno di quello che effettivamente vale.
Nel discorso cinematografico contemporaneo le parole “sottovalutato” e “sopravvalutato” vengono molto spesso utilizzate a sproposito per riflettere un’opinione soggettiva. L’errore in cui di norma si cade è quello di non specificare chi effettivamente sottostima o sovrastima il prodotto in questione: un film può, infatti, essere valutato in maniera fredda dalla critica specializzata, che magari si accanisce in maniera esagerata nei confronti di una pellicola; può venire ignorato dal pubblico che non riconosce un’opera di qualità portando, dunque, a un flop al botteghino; oppure può scivolare ai margini, se non sparire completamente, dal dibattito cinefilo sulle piattaforme web dedicate.
Laddove molte pellicole subiscono un trattamento simile a ragion veduta, ricevendo critiche negative su più fronti, è altrettanto vero però che esistono prodotti sottostimati da una o più parti in maniera ingiusta e che meriterebbero una rivalutazione, oppure una maggiore attenzione dell’opinione cinefila.
In questo articolo verranno presentati 3 film di 3 grandi registi che – sempre secondo la soggettività di chi scrive – vengono, in qualche modo, sottostimati da critica, pubblico o dalla comunità web e che, appunto, meritano di essere riscoperti e rivalutati.
BLACK RAIN – RIDLEY SCOTT (1989)
Ridley Scott è sicuramente uno dei registi più prolifici del panorama hollywodiano, avendo firmato in 45 anni di carriera la bellezza di 28 lungometraggi, da I Duellanti del 1977, fino al recentissimo House of Gucci uscito in Italia nel dicembre del 2021.
Avendo prodotto mediamente un film ogni 18 mesi è fisiologico, dunque, che nella filmografia del regista inglese esistano film estremamente riusciti e considerati ancora oggi capolavori totali della storia del cinema, come allo stesso tempo pellicole mediocri e dimenticabili, passi falsi comprensibili in una carriera comunque leggendaria.
Il film in questione, ovvero Black Rain – Pioggia Sporca del 1989, viene spesso considerato un’opera minore di Sir Ridley non riescendo ad emergere tra i grandi lavori dell’ era scottiana pre-2000, venendo relegato allo status di prodotto mediocre e poco ispirato sia dalla critica (Metascore di 56 punti su 100) sia dalla comunità cinefila (3,1 su 5 di media su Letterboxd), nonostante il grande successo di pubblico, con un incasso di 135 mln a fronte di un budget di 30.
Se i numeri avessero valenza assoluta, quindi, questa pellicola potrebbe essere catalogata come un film difettoso in più punti, non convincente e malriuscito, ma dato che in questo format i numeri hanno un valore relativo, è il momento di entrare nello specifico e analizzare perché, in realtà, quest’opera sia una tra le più interessanti tra i “non-capolavori” di Ridley Scott.
Innanzitutto bisogna evidenziare come Black Rain sia un thriller poliziesco estremamente calato nella produzione mainstream del suo tempo e quindi – per definizione – nel contesto del cinema d’azione hollywodiano anni ‘80/’90, risultando in questo modo già di per sé un ottimo film di intrattenimento, forse uno dei migliori nel suo genere di tutto il decennio.
Tuttavia ciò che rende questa pellicola veramente degna di nota è l’efficace rimaneggiamento degli elementi del noir classico, mescolati e adattati al cinema dell’epoca, per creare un prodotto popolare (come è il filone action appunto), ma con un sottostrato che riprende certi stilemi del passato per dare spessore a un’opera all’apparenza molto semplice.
Andando nel concreto la figura dell’investigatore privato – ovviamente con gli immancabili trench coat e cappello – lascia spazio al detective della polizia, il quale è molto spesso un cane sciolto, un agente insubordinato e istintivo, con una morale ambigua e un passato misterioso e drammatico, come nei migliori film dell’epoca d’oro del genere. In questo senso il personaggio di Michael Douglas diventa il prototipo perfetto del nuovo anti-eroe noir: un uomo violento, che disprezza l’autorità e che vive secondo un codice etico personale e deviato nella convinzione – errata – di essere al di sopra della legge.
Oltre a ciò, Scott mette in campo una messa in scena di ispirazione marcatamente noir, creando degli ambienti urbani notturni, in una Osaka meravigliosa e spettrale, in cui dominano chiaroscuri e tagli di luce al neon che penetrano sbuffi di fumo costantemente presenti nell’inquadratura.
Dal punto di vista tematico, invece, il film porta sullo schermo lo scontro culturale tra Stati Uniti e Giappone, criticando fortemente la chiusura mentale e il carattere imperialista degli americani che, messi di fronte all’integrità morale, al senso dell’onore e al valore del rispetto così radicati nella società giapponese, appaiono in tutta la loro arroganza, avidità e corruzione.
In conclusione, nonostante qui abbia riportato un’analisi per forza di cose superficiale e sbrigativa, Black Rain resta sicuramente un film da riscoprire e da rivalutare all’interno della carriera di Scott, il quale non firma sicuramente qui uno dei suoi capolavori, ma senza dubbio uno dei thriller-noir più belli degli anni ’80, fatto di un impianto visivo strabiliante e di una profondità tematica non indifferente.
THE HUNTED – WILLIAM FRIEDKIN (2003)
Se è vero che esistono grandissimi registi universalmente riconosciuti come maestri della Settima Arte e che vengono amati e venerati in lungo e in largo, è altrettanto vero che esistono altri cineasti del medesimo valore artistico e storico, i quali non vengono, però, mai nominati quando si parla dei grandi con la G maiuscola.
L’esempio forse più eclatante di questo fenomeno è William Friedkin, regista fondamentale della Nuova Hollywood e autore di grandissimi capolavori, che viene ricordato dai più unicamente per L’Esorcista. Nonostante la pellicola del ’73 sia indubbiamente una delle opere più importanti del regista di Chicago, non bisogna dimenticare il lavoro straordinario che Friedkin ha portato avanti all’interno del genere poliziesco, firmando alcuni dei capisaldi del genere come Il Braccio Violento della Legge e Vivere e Morire a LA.
Sarebbe troppo semplice in questa sede, però, parlare di uno di questi grandi thriller del Maestro e quindi l’analisi si concentrerà su un film del 2003 veramente poco discusso e riconosciuto da critica e pubblico, ovvero The Hunted – La Preda.
Con un Metascore di 40 su 100 e un flop al botteghino non indifferente, questo film potrebbe apparire come un passo falso clamoroso nella carriera di Friedkin, ma se si va oltre le statistiche, ci si trova davanti un’opera estremamente compatta e riuscita, fatta di un impianto registico formidabile, che fa larghissimo uso del piano olandese – la macchina da presa è infatti quasi sempre inclinata – per aumentare costantemente il senso di straniamento che pervade tutta la pellicola, coadiuvato da questo punto di vista da un montaggio efficacissimo nel tenere alta la tensione e il ritmo dall’inizio alla fine. Oltre a ciò, dopo un meraviglioso incipit bellico in notturna, la fotografia glaciale e distaccata è notevolissima, grazie a un sapiente uso dei toni grigi e azzurri costantemente desaturati, perfetti per il contesto in cui la vicenda si svolge.
Il film tuttavia non è semplicemente un buon thriller girato con grande maestria: leggendo l’opera più in profondità si può interpretare questo The Hunted come una grande metafora dello Stato americano che distrugge – fisicamente e psicologicamente soprattutto – i propri giovani attraverso la guerra, per poi abbandonarli a loro stessi nel momento in cui i traumi subiti vengono a chiedere il conto. In questo senso, il rapporto padre-figlio tra il personaggio di Tommy Lee Jones e Benicio del Toro (entrambi in splendida forma, soprattutto il secondo) è emblematico, con il primo che addestra il giovane rendendolo una macchina da guerra, privandolo di qualsiasi sentimento umano affinché diventi un soldato perfetto e infallibile, salvo poi dovergli dare la caccia nel momento in cui questo spietato assassino “governativo” si ribella al sistema che lo tiene prigioniero e che lo ha, di fatto, reso quello che è. Un discorso, quindi, di denuncia politico-sociale la cui chiave di lettura, in realtà, viene fornita in maniera geniale fin da subito, con una frase ripresa Highway 61 Revisited di Bob Dylan che ripropone la vicenda biblica di Abramo: “God said to Abraham kill me a son”.
Allo spettatore non resta, dunque, che inserire i personaggi di Tommy Lee Jones, Benicio del Toro e lo Stato americano al posto giusto in quest’ equazione dylaniana per avere in mano un film che è molto più di un semplice inseguimento di 94 minuti e che meriterebbe una rivalutazione critica importante, così come tutta la filmografia del buon vecchio William Friedkin.
SPIDER – DAVID CRONENBERG (2002)
David Cronenberg è un nome che, già da solo, è garanzia di altissima qualità cinematografica, essendo uno dei più importanti artisti della sua generazione, nonché esponente di punta di generi come l’horror e la fantascienza. Quando si parla del regista canadese, infatti, è impossibile non citare grandi capolavori del passato come Videodrome (1983) – vero e proprio manifesto del cinema cronenberghiano – ma anche pellicole più recenti e in egual modo imprescindibili come A History of Violence (2005).
Una pellicola raramente nominata quando si discute della filmografia di Cronenberg e che rappresenta forse l’opera più dimenticata del grande cineasta è certamente Spider del 2002 che, nonostante sia largamente amato dalla critica, come testimonia il Metascore di 83 su 100, purtroppo passa sempre in secondo piano rispetto ad altri film più blasonati del regista.
Prodotto che si distacca fortemente da quel tipo di body horror che ha reso grande il nome di Cronenberg, Spider è una pellicola sicuramente ostica, fatta di ritmi lenti e dilatati, quasi muta e che vive di atmosfere – oltre che di una colonna sonora meravigliosa firmata dal grande Howard Shore – ma capace di offrire un viaggio di sola andata nella mente distorta del protagonista, avvicinandosi di fatto ad opere come Inseparabili e Crash, piuttosto che a film come La Mosca o il già citato Videodrome.
In questo senso, la pellicola in questione si rivela essere pienamente cronenberghiana, affrontando tematiche come l’instabilità mentale, l’alienazione, la solitudine e il disfacimento psicologico dell’individuo in una maniera estremamente analitica, abbandonando qui gli stilemi del cinema di genere per un approccio più sperimentale e autoriale che genera un effetto straniante nello spettatore, ma risultando, alla fine, il vero lato affascinante del film.
Oltre a questa complessità tematica intrinseca, Spider si rende notevole anche e soprattutto per la perfetta sinergia che si instaura tra la regia di Cronenberg e il protagonista Ralph Fiennes – che regala qui un’interpretazione indimenticabile recitando non più di 10 battute di dialogo, la maggior parte delle quali perfino farfugliate – il cui sguardo assente e stralunato viene costantemente indagato con primi/primissimi piani ossessivi e ossessionati, che scavano nella mente del protagonista per decostruire il trauma e la nevrosi di cui è vittima, evidenziata anche dal perenne tremore schizofrenico delle mani, soggetto sul quale Cronenberg sofferma molto spesso la sua inquadratura.
Se tutto ciò non non fosse comunque capace di convincere qualcuno dell’importanza e dell’unicità di Spider all’interno della carriera del regista, basti pensare che questa pellicola rappresenta uno spartiacque all’interno della produzione cronenberghiana, essendo la prima in cui l’elemento della mutazione corporea lascia totalmente spazio alla deviazione mentale che sarà poi centrale in tutte le opere successive e aprendo, di fatto, un nuovo e fortunato sviluppo del linguaggio filmico del cineasta di Toronto.
In conclusione, quindi, ci si trova di fronte a un’opera complessa e forse respingente, ma che rappresenta uno dei punti più alti raggiunti dal Cronenberg post-2000, il quale realizza con Spider un film estremamente coraggioso negli obiettivi che si pone e pienamente riuscito nell’indagine psicologica che si prefigge.
In sintesi un film che meriterebbe di essere discusso, analizzato e sviscerato, ma che invece, ad oggi, resta nell’ombra dei grandi titoli venuti prima di lui, i quali non sono necessariamente opere d’arte superiori a questa.
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