“Il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”
Federico Fellini
Se a rendere immortali certi autori sono le opere realizzate in vita, a riavvicinarli ai mortali sono le imprese fallite tentando di superare i propri limiti. Ciascuno dei cinque registi che tratteremo in questo approfondimento, oggi tutti celebrati come geni a molti anni di distanza dalla loro morte, ha tentato in vita la propria fallimentare campagna russa.
Dal biopic napoleonico di Stanley Kubrick all’assedio di Leningrado di Sergio Leone, dal viaggio nell’Aldilà di Federico Fellini a quello nei meandri del male di Orson Welles, passando per il primo slasher della storia diretto da Alfred Hitchcock, ecco cinque film perduti per cinque grandi autori del cinema del Novecento.
Stanley Kubrick, Napoleon
Se è vero che Napoleone fu una delle figure più complesse, monumentali e inafferrabili che la storia ci abbia consegnato, Napoleon di Stanley Kubrick è il più grande (e più famoso) kolossal che la storia del cinema non ci abbia concesso la possibilità di vedere.
Concepito dopo il successo di 2001: Odissea nello spazio come risposta sonora al capolavoro muto di Abel Gance, Napoleon divenne l’ossessione del regista, che svolse una monumentale ricerca su più di 500 libri insieme a storici ed esperti fino a ritenere di conoscere qualsiasi cosa sull’imperatore. Nei vari stadi di progettazione del film, David Hemmings e Jack Nicholson furono in lizza per interpretare Napoleone, affiancati da Audrey Hepburn nel ruolo di Giuseppina. Il maniacale studio dietro la chimera di Kubrick confluì parzialmente in Barry Lyndon dopo che la MGM respinse il titanico progetto di tre ore narrante origini, ascesa e caduta del condottiero.
Tutti i retroscena della campagna russa di Kubrick sono reperibili nel volume Stanley Kubrick’s Napoleon: The Greatest Movie Never Made. Ciò che il volume Taschen non dice è che da più di dieci anni il nome di Steven Spielberg è legato alla concretizzazione di Napoleon come serie limitata HBO, anche se al momento sembra tutto fermo (colpa del film di Ridley Scott con Joaquin Phoenix?).
Sergio Leone, L’assedio
Ospite d’onore nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza, nel giugno 1986 Sergio Leone parlava dei suoi progetti futuri e in particolare di un film sull’assedio di Leningrado: “Sto aspettando il visto dall’Unione Sovietica e mi sembra che in questa direzione ci siano aperture. Se il film sarà realizzato, sarà una coproduzione fra l’Italia e l’URSS. Su una ossatura storica, narrerà una storia d’amore fra un corrispondente americano e una donna sovietica”. Seguirono numerosi altri aggiornamenti, che evidenziavano la complessità di adattare una materia così imponente e stratificata di ideologie.
Il kolossal appariva monumentale ancora prima di essere confermato: accarezzato per 15 anni dal regista, prevedeva almeno 3 anni di lavorazione, un budget di 100 milioni di dollari e coproduttori di prestigio come Steven Spielberg e Rai Uno. La lingua sarebbe stata un insieme di inglese, russo e tedesco, coinvolgendo migliaia di figuranti e attori delle rispettive nazionalità; Robert De Niro e la top model cecoslovacca Paolina Porizkova sembravano i protagonisti più quotati. Le principali fonti d’ispirazione sarebbero state 900 giorni dell’americano Harrison Salisbury e Il libro dell’assedio dei sovietici Daniil Granin e Oles Adamovich, per incontrare tutte le parti politiche coinvolte nell’approvazione del progetto.
L’assedio (questo il probabile titolo del film) naufragò con la prematura morte del regista, avvenuta il 30 aprile 1989. Abbastanza a sorpresa, il maggio successivo al Festival di Cannes il figlio Andrea Leone confermò di voler portare a compimento il sogno del padre riallacciando i rapporti diplomatici creati dall’autore e identificando un nuovo regista. Non vi riuscì, ma il soggetto di Sergio Leone fu impiegato da Jean-Jacques Annaud per realizzare nel 2001 Il nemico alle porte.
Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna
Mastorna, celebre violoncellista di 45 anni, prende un aeroplano che in seguito a una tempesta atterra d’emergenza nella piazza di una città nordica, familiare e sconosciuta allo stesso tempo. Tutti sono confusi, i cartelli stradali sono incomprensibili e Mastorna in stazione riconosce che lo saluta un suo vecchio amico morto da anni. Il violoncellista è morto, e questo è solo l’incipit del suo viaggio in un Aldilà delirante e caotico, dove ci sono uomini che festeggiano la liberazione dalla paura della morte gettandosi nel vuoto, monatti che caricano sui carri persone che non si svegliano più, e ciascuno riceve un premio in un’assurda cerimonia come quella degli Oscar.
Quando nel 1965 completa la prima stesura di quello che Vincenzo Mollica definisce “il film non realizzato più famoso della storia del cinema”, Federico Fellini ha 45 anni e due Oscar alle spalle, e ha appena attraversato una profonda mutazione professionale e personale. Essendo il soggetto ispirato alla lettura adolescenziale di un racconto di Dino Buzzati, il regista comincia a lavorare alla storia insieme all’autore, ma insieme incontrano il sensitivo torinese Gustavo Adolfo Rol, che sconsiglia a Fellini di completare il film. Scaramantico com’è, il regista rinuncia al progetto, innescando una battaglia legale con il produttore Dino De Laurentiis che sulla Pontina aveva già costruito un set da fare invidia a Cinecittà.
I rapporti produttivi si ricuciranno, ma il Mastorna non vedrà mai la luce, sempre funestato da messaggi simbolici. Anche nel 1992, quando Fellini ha intenzione di riprendere il film con protagonista Paolo Villaggio (anziché Marcello Mastroianni come preventivato negli anni ‘60), tutto si esaurisce nel nulla. Dopo aver già lavorato con Milo Manara su una storia chiamata Viaggia a Tulum, Fellini passa al fumettista lo storyboard che lui stesso aveva realizzato e che viene trasformato nelle tavole del fumetto Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, di cui viene pubblicata la prima di tre parti sulla rivista Il Grifo. Ancora una volta è il fato a decidere per Mastorna: per un errore sull’ultima pagina viene stampata la parola “Fine” anziché “Continua”, e Fellini decide di chiudere lì la storia, con Mastorna che ha appena realizzato la propria morte.
Orson Welles, A Heart of Darkness
Dopo il successo del programma radiofonico The Mercury Theatre On the Air (famoso per il caso di La guerra dei mondi che il pubblico credette una vera invasione marziana), nel 1939 Orson Welles firmò un faraonico contratto con RKO che gli forniva completa libertà creativa. Il suo primo progetto fu Heart of Darkness, adattamento del romanzo d’avventura Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Welles scrisse una sceneggiatura e i primi modellini furono realizzati, ma il budget lievitò a tal punto (si dice un milione di dollari) da spingere il regista a ripiegare su Quarto potere (e che ripiego!).
Il romanzo di partenza parla di una traversata del fiume Congo che diventa un viaggio metaforico verso il male incarnato dal misterioso Kurtz, considerato una divinità dagli indigeni. Proveniente dalla tradizione teatrale e radiofonica di interpretare più ruoli, Welles sarebbe stato sia Kurtz, la cui caratterizzazione avrebbe ricordato Adolf Hitler, sia il capitano Marlow. Il regista intendeva girare tutto il film in soggettiva dal punto di vista del capitano, che sarebbe stato inquadrato esclusivamente attraverso il riflesso nel vetro della cabina dell’imbarcazione.
Sfumò così la possibilità di vedere al cinema il primo film in soggettiva e il primo adattamento del romanzo di Joseph Conrad. Per il primo dovremo aspettare nel 1947 il noioso The Lady in the Lake di Robert Montgomery, e per il secondo nel 1979 il capolavoro Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, che trasporta la vicenda nella guerra del Vietnam con Marlon Brando nel ruolo di Kurtz.
Alfred Hitchcock, Kaleidoscope
Insoddisfatto per l’insuccesso di Marnie e Il sipario strappato, a metà degli anni Sessanta Alfred Hitchcock concepì Kaleidoscope, quello che sarebbe potuto essere il film più violento ed estremo mai realizzato fino a quel momento. La vicenda sarebbe ruotata attorno ad un serial killer newyorkese necrofilo e forse gay che uccide solo donne, sempre in contesti legati all’acqua (come una vasca da bagno, una cascata e una vecchia nave da guerra).
Hitchcock fece scrivere la sceneggiatura ad alcuni amici (tra cui Robert Bloch, autore del romanzo Psyco) basandola sulle biografie dei veri serial killer britannici Neville Heath e John George Haigh, e iniziò a ragionare sullo stile visivo del film, che avrebbe previsto inquadrature insolite, luci naturali e camera a mano, ispirato alla Nouvelle Vague, al Neorealismo e ai registi François Truffaut e Michelangelo Antonioni. Proprio il regista francese autore del celebre video-intervista Hitchcock-Truffaut si disse preoccupato per la quantità esplicita di sesso e violenza che sarebbero apparsi sullo schermo, ma a Hitch disse “Tu giri tali sequenze con grande potenza drammatica, non soffermandoti mai su dettagli inutili”.
Fedele allo stile europeo che aveva stabilito per il suo progetto, il regista arruolò attori sconosciuti e un fotografo per realizzare foto e video di test. Questo materiale (parte del quale ci è pervenuto) fu sottoposto alla MCA/Universal, che rifiutò un film tanto estremo nonostante il budget richiesto fosse solo di un milione di dollari. Hitchcock rinunciò al progetto dedicandosi a Topaz, e parte delle idee, incluso il titolo di lavorazione alternativo Frenzy, confluì nel film successivo.

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