In questa rubrica faremo un viaggio alla scoperta dei registi più influenti della storia del cinema, di ieri e di oggi. Per conoscere al meglio la loro poetica non si può prescindere dal contesto storico e culturale in cui lavorarono, fonte di stimoli e opportunità ma, in qualche caso, anche di vincoli.

FEDERICO FELLINI: TRA ONIRISMO E REALTÀ

“Un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo.”

È così che si definiva Federico Fellini, uno dei più significativi registi della storia del cinema. Sin dagli anni Quaranta, collabora con l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) come autore televisivo, scrivendo gag e copioni per piccoli film ma anche per programmi radiofonici. Lavora come autore, aiuto regista e sceneggiatore. A cambiare la sua vita è l’incontro con Roberto Rossellini, con cui collabora per la scrittura di Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), film che daranno il via alla stagione del Neorealismo, insieme anche alle opere di altri autori, tra cui spiccano Vittorio De Sica e Luchino Visconti.

FILM D’ESORDIO ALLA REGIA

Dagli anni Cinquanta, alcuni cineasti iniziano a mettere in scena personaggi di classi medio-elevate per analizzare la vita contemporanea attraverso la loro psiche. Tra questi troviamo Federico Fellini che, nel 1952, esordisce alla regia con Lo sceicco bianco. È in questi anni che l’attività di regista prende il sopravvento su quella di sceneggiatore. A partire da quest’opera si definisce lo stile di Fellini come ‘fantarealismo’, termine usato per indicare i film in cui immagini realistiche si uniscono ad immagini di fantasia e oniriche. L’espressione fu coniata appositamente per definire lo stile felliniano, il quale non poteva essere ricondotto a nessun movimento già esistente.

All’interno dei suoi film, sin dalla primissima pellicola diretta in co-regia con Alberto Lattuada Luci del varietà (1950), è possibile rintracciare una rete di simboli ricorrenti nelle sue opere: la strada deserta, il matto, il clown, la figura materna, il circo, la spiaggia, i caffè-concerto o ancora le piazze deserte nel cuore della notte. A proposito del clown il regista afferma:

“un personaggio col quale mi sono identificato è il clown che fugge dall’ospizio. Muore ridendo. Vorrei farlo anch’io, è un bel modo di andarsene”.

Una scena del film Lo sceicco bianco

UN CINEMA AUTOBIOGRAFICO…

Nel frattempo in quegli anni matura sempre più l’idea del cinema come forma d’arte. Di conseguenza, i registi considerati più prestigiosi iniziano ad essere coloro che scrivono le proprie sceneggiature e seguono uno stile personale, dando voce alle loro sensazioni e convinzioni. Federico Fellini riflette perfettamente questa visione: la sua abilità risiede nel saper creare un mondo personale, e in effetti i suoi film sono profondamente autobiografici. Pensiamo a (1963), che racconta l’incapacità di un regista di realizzare il film progettato. Questa pellicola viene realizzata dopo sei film interamente da lui diretti, più tre “mezzi” film, costituiti dalla somma ideale di tre opere co-dirette con altri registi. La sua adolescenza riminese è alla base di alcune delle sue opere più famose, tra cui i due capolavori I vitelloni (1953) e Amarcord (1973), in cui racconta la Rimini degli anni Trenta. Non è però solo una rievocazione di quegli anni: per Fellini si tratta piuttosto di riferire personaggi e sentimenti con gli occhi dell’adulto che riguarda gli anni dell’infanzia, collegandoli comunque a qualcosa di strettamente attuale. Da notare come riesca perfettamente ad evocare e far apprezzare la sua Rimini, sebbene nessuno dei suoi film sia realmente stato girato lì: la Rimini di Amarcord, per esempio, fu interamente ricostruita a Cinecittà.

Una scena del film Amarcord

… MA ANCHE ONIRICO

Caratteristica del cinema di Fellini è la continua unione tra sogno e realtà, tra la razionalità e il pensiero che scorre senza vincoli. Negli anni Sessanta, Fellini inizia il suo rapporto con lo psicanalista junghiano Bernhard, che lo sollecita a scrivere in un diario le sue fantasie oniriche e a effettuarne una traduzione verbovisiva. È l’incontro con Bernhard che avvia la scrittura del Libro dei sogni, un diario tenuto dalla fine degli anni Sessanta fino all’agosto 1990 in cui il regista annota fedelmente sogni e incubi. I sogni sono però una massa informe, con segni non precisamente identificabili che, per essere tradotti in opere, hanno bisogno del rigore del senso linguistico. La dialettica realtà-sogno è presente a partire da Lo sceicco bianco (1952), fino alle Notti di Cabiria (1957) e La dolce vita (1960). Nello stesso Amarcord (1973), il più autobiografico tra i suoi film, il regista non si limita a una ricostruzione documentaristica della sua vita, ma la dimensione onirica è molto presente, e le due forze di sogno e realtà si sovrappongono fino a confondersi.

Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set di 8 e mezzo

“Sono molto più vere le cose che non mi sono accadute ma che mi sono inventate. Così è successo per la città dove sono nato, Rimini. Rimini, quella vera, in cui ho passato la mia esistenza di ragazzetto e di studente, si è quasi allontanata per lasciar posto a Rimini, alla città, al paese, completo in tutti i suoi dettagli, dei film in cui ne ho parlato, I vitelloni o Amarcord. Mi sembra ora che queste due sovracostruzioni di una Rimini completamente ricostruita appartengano molto di più alla mia vita dell’altra, la Rimini topograficamente accertabile. Insomma: sono un gran bugiardo. Questa è la conclusione.”

Fellini amava dire che, alla vita, preferiva i sogni. Nei sogni l’azione avviene e basta, lì il pensiero fluisce liberamente senza il filtro della razionalità. A proposito di, in un’intervista con Sergio Zavoli del 1964, afferma che ciò che vive nell’immaginazione non deve essere inquietante, anzi “lo è se ci mettiamo in conflitto con la nostra immaginazione, se tentiamo di schematizzarla e interpretarla. Se la accettiamo per quella che è, non c’è niente di più confortante perché è l’unico modo di realizzarla”. Fellini sostiene che coloro che lo rimproverano di essere confusionario, lo fanno perché sono dogmatici e credono di non dover dubitare di nulla.

Alla base della commistione di queste due dimensioni si scorge la sua filosofia di vita: non solo i sogni possono diventare realtà, ma essi aiutano anche a vivere meglio.

“I nostri sogni sono la nostra vita reale. Le mie fantasie e ossessioni non sono solo la mia realtà, ma la materia di cui sono fatti i miei film”.

La scena del sogno in 8 e mezzo

Questo articolo è stato scritto da:

Alessia Agosta, Redattrice