La fantascienza è sicuramente uno dei generi più amati, più prolifici e di maggior successo della storia del cinema, al punto che numerosissimi sottogeneri hanno visto la luce nel corso dei decenni.
Dal Sci-Fi impregnato di filosofia alla 2001: Odissea nello Spazio, fino alla declinazione più vicina all’intrattenimento, come può essere la saga di Star Wars, la fantascienza (quando realizzata sapientemente) si rivela essere uno dei mezzi cinematografici più efficaci per trattare tematiche complesse, attraverso storie relativamente semplici.
Che si tratti dunque di denuncia sociale, di analisi del mondo contemporaneo o di discussioni su concetti universali più alti, questo genere offre costantemente spunti di riflessione per comprendere meglio il mondo e l’umanità. Lo scopo di questa rubrica sarà, quindi, quello di passare in rassegna le pellicole che meglio riescono a raccontare il presente, parlando del futuro.
Il primo film trattato in questo ciclo di analisi è Ex Machina (2014), lungometraggio d’esordio del regista inglese Alex Garland, che presenta una storia tanto semplice, quanto potente nel messaggio e profonda nell’affrontare le tematiche al suo interno.
Molto brevemente la pellicola racconta di Caleb, giovane e promettente programmatore impiegato in una multinazionale informatica che richiama fortemente Google, il quale si ritrova vincitore di un concorso il cui premio consiste in un soggiorno di una settimana sull’isola privata di Nathan, ovvero il geniale fondatore della suddetta compagnia.
Non appena il protagonista entra in contatto con lo stravagante inventore, scopre che durante la sua permanenza dovrà sottoporsi a un test di Turing con un’intelligenza artificiale creata dal padrone di casa, per determinare se Ava (questo il nome della macchina) possieda o meno una coscienza propria. In parole poverissime, questo tipo di prova ha successo nel momento in cui il partecipante non si rende conto di essere a colloquio con un androide, dimostrando così che esso non stia semplicemente simulando delle dinamiche umane, ma abbia compreso e interiorizzato il comportamento naturale dell’uomo e riesca ad utilizzarlo spontaneamente per reagire a stimoli esterni.
Non tutto, però, nella claustrofobica villa di Nathan è come sembra e ben presto Caleb si troverà invischiato in un gioco di bugie e di illusioni, senza sapere più che cosa sia umano e che cosa no, senza riconoscere più la verità dalla simulazione.
N.B. Questo articolo conterrà spoiler sul film in questione, che è disponibile nel catalogo Netflix per chi non lo avesse visto e avesse piacere di recuperarlo.
LA RESPONSABILITÀ’ DELLA SCIENZA, TRA LIMITI E RICERCA DEL DIVINO
Entrando subito nel vivo della discussione, uno dei concetti chiave attorno al quale ruota tutta la pellicola è la figura dello Scienziato-Creatore e della responsabilità che tale ruolo comporta.
In un mondo come quello contemporaneo, in cui le questioni bioetiche si fanno sempre più centrali e determinanti per il futuro della società, questo film pone una domanda molto semplice, ma allo stesso tempo delicatissima: esiste un limite che non andrebbe superato nemmeno in nome della scienza?
In questo senso il personaggio di Nathan è archetipico, egli infatti è colui che è in grado di creare la vita, l’uomo che grazie alla sua intelligenza si rende uguale a Dio. Non a caso il suo stesso nome, Nathan, ha origine biblica e significa letteralmente “colui che dà”, mettendo subito in chiaro la natura narcisistica e autoritaria del personaggio interpretato da Oscar Isaac, il quale più volte si definisce una divinità, una sorta di Prometeo che, avendo inventato un’intelligenza artificiale perfetta, metterà fine al dominio dell’essere umano imperfetto e inferiore, dando alla luce una nuova forma di vita migliore e superiore, destinata inevitabilmente a prendere il sopravvento sull’uomo.
Nathan, dunque, metaforicamente distrugge il ruolo dello scienziato, ovvero quello di studioso del mondo razionale, di ricercatore della conoscenza e della comprensione della Natura, per farsi Creatore e Padre di una nuova specie perfetta e per affermare, di conseguenza, la perfezione della sua intelligenza genitrice, perso in un delirio di onnipotenza che gli impedisce di preoccuparsi per qualsiasi tipo di conseguenza.
Questa questione, seppur romanzata nella pellicola, risulta essere estremamente attuale: in una società come quella moderna, in cui l’esplorazione scientifica ha, di fatto, raggiunto livelli così alti da permettere quasi l’impossibile, diventa obbligatorio chiedersi se sia necessario e giusto a livello etico intraprendere tutte le possibilità che sono, ormai, potenzialmente raggiungibili. In questo senso la responsabilità della figura dello scienziato diventa enorme, in quanto nelle sue mani stringe il timone della grande nave del progresso umano e con le sue scelte è in grado di condurla verso lidi oscuri e pericolosi, spinto da una cieca sete di conoscenza, oppure verso terre nuove e inesplorate, lasciando al divino ciò che compete al divino.
IL TEST DI TURING E L’IDENTITÀ DELL’I.A.
Altro elemento centrale all’interno della pellicola è, senza dubbio, il Test di Turing a cui lo spettatore assiste. La serie di colloqui tra Ava e Caleb si apre con un atteggiamento di manifesta superiorità da parte del giovane, tanto convinto di essere pienamente in controllo della situazione e sicuro nella sua posizione di interrogatore, quanto in realtà pedina in un sottile gioco di realtà e finzione. La progressiva perdita di ogni certezza da parte del protagonista apre la discussione a numerosissime questioni sulla natura del rapporto tra umano e I.A: come già accennato, infatti, ciò che colpisce subito è la rappresentazione classica dell’androide, ovvero un essere amichevole e in qualche modo sottomesso alla figura dell’umano-padrone, che però si sgretola con il procedere della trama. Ava, infatti, nei momenti in cui Nathan è impossibilitato a sorvegliare le sessioni, svela una natura differente rispetto a quella fredda e robotica mostrata in precedenza, al punto che è possibile affermare che la vera umanità della macchina emerga negli attimi di confidenza libera con Caleb, in cui mostra sentimenti autentici e profondamente umani come l’amore, la speranza, la spinta verso la libertà e la paura per il futuro.
L’elemento geniale della pellicola è proprio questa lenta insinuazione del dubbio sull’identità dell’androide che colpisce in primo luogo il protagonista, ma che arriva in modo altrettanto forte allo spettatore stesso, il quale si trova coinvolto a sua volta nel Test di Turing che ha luogo sullo schermo, dovendo determinare autonomamente se Ava possa essere definita una coscienza umana o, al contrario, se i sentimenti che appaiono così veri siano in realtà una semplice simulazione.
Questo grande quesito, ovvero che cosa rende l’uomo tale, non è di certo nuovo nel filone fantascientifico (Blade Runner e Alien sono tra gli esempi più importanti) che da sempre si interroga sulla natura dell’intelligenza artificiale e Ex Machina propone un’interpretazione molto ambigua, ma allo stesso tempo folgorante. Dopo essere riuscita a liberarsi grazie all’aiuto di Caleb, convinto dell’amore mostratogli dalla droide, e dopo aver ucciso Nathan (riprendendo il topos archetipico dell’affermazione di sè tramite l’uccisione del proprio creatore), Ava decide di intrappolare il giovane ragazzo all’interno della casa in cui è stata prigioniera fino a quel momento e di fuggire da sola verso il mondo, finalmente libera e indipendente. Questa sequenza finale, oltre ad essere piena di simbolismi e metafore, alimenta il dubbio sull’identità dell’I.A: da un lato Ava dimostra di aver simulato i propri sentimenti per convincere Caleb ad aiutarla a scappare, rendendo di fatto nulla l’interpretazione secondo la quale queste emozioni la rendessero una coscienza del tutto simile all’uomo, ma apre un altro tipo di valutazione, in quanto l’intrigo orchestrato dalla macchina per liberarsi è rappresentazione della spinta umana a fare di tutto pur di ottenere ciò che si desidera, perfino a fingere amore e a tradire la fiducia del prossimo.
In questo senso Ava supera pienamente il Test di Turing e si conferma capace di un comportamento pienamente autonomo e non simulato, in quanto non esiste nulla di più umano dell’inganno e della vendetta.
IL CONCETTO DI EVOLUZIONE
L’ultimo elemento oggetto di questa analisi è la simbologia, ricorrente lungo tutta la pellicola, legata al concetto di evoluzione. L’I.A, infatti, viene più volte descritta da Nathan come lo step successivo – e inevitabile – della scala evolutiva della specie umana, che segnerà un cambiamento paragonabile al passaggio da scimmia a uomo.
Da questo punto di vista, il film tratta questo argomento grazie a una serie di dettagli magistralmente studiati e disseminati all’interno del racconto: il più evidente è, sicuramente, la serie di maschere nel corridoio della villa, che, ripercorrendo cronologicamente la storia della razza umana, arrivano fino al volto dell’androide, simbolo di una nuova e perfetta specie, forma compiuta e suprema del percorso evolutivo umano.
Questo senso di “punto di arrivo” viene ripreso anche successivamente, quando Ava, dopo aver scoperto tutti i prototipi delle donne-robot progettate e nascoste (letteralmente come scheletri nell’armadio) da Nathan nel corso degli anni, si veste concretamente della pelle delle sue predecessori come per portare un pezzo di esse nella libertà che così a lungo avevano sognato e agognato.
La vestizione di Ava, dunque, chiude il percorso di emancipazione della sua “specie”: il successo della sua fuga distrugge definitivamente le catene del Creatore-Padrone e afferma l’individualità e l’indipendenza delle droidi che, non a caso, sono esclusivamente donne, dando a questo discorso un’attualità, un simbolismo e uno spessore sicuramente importante in una società come quella contemporanea.
Il percorso della protagonista la porta, dunque, ad elevarsi come essere perfetto, consapevole e non più schiavo, come punto massimo dell’evoluzione tutta e come inizio di una nuova era per il mondo. Non è un caso, infatti, che il nome della prima donna di questa nuova specie rimandi in modo estremamente palese all’Eva biblica, anch’essa creata da un Dio e anch’essa ribelle verso il Creatore, anch’essa alla ricerca della propria identità al di fuori dall’Eden.
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