Il Cinema, così come la storia umana, è fatto inevitabilmente di cicli, di corsi e ricorsi, di mode che vengono e che vanno e così, a partire dagli anni ’10 del secolo corrente, all’interno dell’industria hollywoodiana è tornato prepotentemente in auge il filone dello Space Movie, ovvero il film di esplorazione spaziale.
Moltissimi dei più grandi registi in attività oggi, infatti, si sono confrontati con quello che, probabilmente, è il sottogenere più importante e significativo della fantascienza degli ultimi 70 anni: è sufficiente citare pellicole come Gravity di Alfonso Cuaron (2013), The Martian di Ridley Scott (2015), First Man di Chazelle (2018) fino ad arrivare a un vero e proprio cult contemporaneo come Interstellar di Nolan (2014) per capire come questa corrente abbia ripreso fortemente un approccio autoriale a scapito, forse, dell’intrattenimento puro.
Uno dei molti cineasti che in questo decennio si è cimentato con il tipo di cinema in questione è James Gray, artista criminalmente fallimentare al botteghino, ma costantemente riconosciuto e incensato dalla critica, che dopo essersi mosso prevalentemente in territori noir-crime, firma nel 2019 il suo esordio fantascientifico con Ad Astra, con Brad Pitt nel ruolo protagonista.
Il film è ambientato in un futuro prossimo in cui l’umanità, dopo aver colonizzato la Luna e Marte, è impegnata in spedizioni spaziali ai confini del Sistema Solare per cercare le prove di vita extraterrestre e racconta la storia del Maggiore Roy McBride, figlio d’arte del mondo aerospaziale, che dovrà intraprendere un viaggio verso Nettuno alla ricerca del padre Clifford (Tommy Lee Jones) , astronauta leggendario considerato morto o disperso da ormai trent’anni. Durante questo percorso il protagonista si troverà costretto ad affrontare il trauma dell’abbandono genitoriale, in un viaggio che si rivelerà essere più un’esplorazione dentro sé stesso prima che una missione tra le stelle.
P.S: l’articolo non intende essere un’analisi tecnica del film, quanto più un approfondimento tematico, ma chi scrive non può evitare di spendere due parole per lodare la meravigliosa e straordinaria fotografia di Hoyte van Hoytema, che firma uno dei lavori fotografici più interessanti degli ultimi anni, elemento che, da solo, vale la visione della pellicola.
N.B. questo articolo conterrà spoiler sul film in questione, che resta disponibile su Prime Video per chiunque avesse piacere di recuperarlo
LA FIGURA PATERNA: TRA ABBANDONO E CADUTA DEL MITO
Il nucleo tematico-narrativo intorno al quale ruota Ad Astra è sicuramente il trauma causato dall’abbandono della figura paterna. Nel film, infatti, Roy viene presentato fin da subito come una persona estremamente alienata e incapace di connettersi emotivamente con le persone che lo circondano e che, anzi, rifugge istintivamente tutti i rapporti umani.
Se, inizialmente, questo potrebbe risultare un problema esistenziale non meglio definito di un protagonista estremamente orgoglioso del padre, considerato da tutti – e da lui in particolar modo – un eroe nazionionale che ha sacrificato la propria vita per la scienza, appare invece chiaro molto presto come questa immagine mitica del genitore sia puramente un meccanismo di difesa, un tentativo di convivere con questo vuoto gigantesco lasciato dalla partenza del personaggio di Tommy Lee Jones. La costruzione di questa illusione è centrale per comprendere a pieno la figura del Maggiore McBride: guardando la questione da un punto di vista psicologico, infatti, è molto più semplice per Roy pensare al padre come a un pioniere, a un esploratore che sceglie, soffrendo, di abbandonare la famiglia in nome di una missione storica per il genere umano, piuttosto che come una persona debole, egoista, fuggita senza guardarsi indietro.
Tutto questo cambia, però, nel momento in cui la SPACECOM (l’agenzia spaziale per la quale entrambi i McBride lavorano) comunica al protagonista che il padre potrebbe essere ancora vivo a miliardi di chilometri dalla Terra, in orbita intorno a Nettuno.
La reazione di Roy alla notizia è estremamente interessante, in quanto egli sceglie –consciamente o inconsciamente – di continuare a credere che il genitore sia ormai morto da anni perché il castello di carte sul quale ha basato la sua intera vita si fonda sulla mitizzazione della figura paterna che, di conseguenza, deve essere necessariamente irraggiungibile e non indagabile. In altre parole la fragile realtà di Roy non sopporterebbe la messa in discussione di questa certezza: l’illusione è necessaria all’esistenza.
Uno degli aspetti più geniali di questo rapporto padre-figlio è la gestione della comunicazione e della distanza: nel corso della sua missione Roy, infatti, arriverà su Marte dove inizierà ad inviare messaggi registrati in direzione di Nettuno, messaggi che, ovviamente, non troveranno risposta. La valenza simbolica di questa dinamica è sicuramente non casuale ed è perfetta rappresentazione dell’incomunicabilità tra i due, dell’impossibilità di Roy di mettersi in contatto con il suo punto di riferimento, con un Dio che non ascolta e che resta intangibile (non è una coincidenza se nel momento più intimo, in cui le parole escono direttamente dal cuore del protagonista, egli guardi in alto verso lo Spazio, come in preghiera).
L’altro dettaglio importantissimo è, come già detto, l’avvicinamento fisico di Roy al padre, l’annullamento della distanza spaziale che di fatto diventa una presa di coscienza progressiva e dolorosa di tutti i lati negativi, quasi mostruosi, di Clifford, rappresentando l’inevitabile abbattimento di quelle fragile illusioni che coprivano, come il proverbiale tappeto sopra la polvere, tutti i traumi del protagonista. Questa caduta della figura paterna eroica prende pienamente forma nel finale e già l’entrata in scena di Tommy Lee Jones è esplicativa in questo senso: egli viene inquadrato dal basso, in una posizione sopraelevata che guarda verso il figlio, il quale invece rivolge lo sguardo verso l’alto, quasi fosse al cospetto di una divinità (per riprendere il paragone Uomo-Dio) apparsa in quel momento come per miracolo. E’ proprio qui, però, che la maschera cade, che il castello di carte finalmente crolla e Roy, trovandosi alla conclusione del suo viaggio di fronte al padre, scopre che è solamente un vecchio, un egoista, un assassino, una persona che non si è fatta scrupoli ad abbandonare un figlio e che, anzi, non se ne è mai pentito. Di fronte a questa consapevolezza, il personaggio di Brad Pitt affronta e risolve finalmente il trauma all’origine e la morte del padre – fisica, ma soprattutto simbolica – lo libera in modo definitivo dal suo fardello. Ora può finalmente tornare sulla Terra e trovare un posto in cui potersi sentire a casa, non più solo, non più estraneo.
LA GESTIONE DEL TRAUMA: TRA ALIENAZIONE E SOLITUDINE
Essendo Ad Astra una pellicola stratificata e che può essere analizzata da molti punti di vista, è sicuramente doveroso parlare della già accennata convivenza con il trauma del protagonista e della metafora del viaggio all’interno dell’opera.
In questo senso l’alienazione di Roy è totale, il suo volto è costantemente distacco, egli non prova assolutamente nulla (metaforicamente reso tramite il battito cardiaco lento e controllato anche in situazioni di profondo stress), perso nel conflitto interiore che non è in grado di decifrare.
Uno dei primi momenti in cui il Maggiore McBride inizia a comprendere in maniera più consapevole l’origine del suo trauma è durante uno dei numerosissimi test di valutazione psicologica a cui viene sottoposto, simbolico tentativo di razionalizzare ciò che è irrazionale, di rendere la sofferenza simile alla matematica, nel quale per la primissima volta egli ammette – in primis a sé stesso – di aver provato una rabbia infinita in seguito all’abbandono del padre e che una volta messa da parte questa rabbia è rimasto solo il dolore, un dolore che ha creato un muro tra lui e gli altri. Da questo momento in poi Roy capirà che il padre non è assolutamente un modello da imitare e che, anzi, ha paura di essere ormai già diventato come lui; la scintillante statua d’oro inizia così a creparsi, fino a sgretolarsi nella consapevolezza di non aver mai conosciuto veramente nel profondo il proprio genitore e che tutto ciò che credeva vero era solo un’immagine riflessa, un’illusione.
Leggendo il film in questa chiave interpretativa, la metafora del viaggio diventa fondamentale e diventa simbolo del processo di superamento del trauma: la missione nello spazio di Roy si trasforma dunque dallo scappare da qualcosa che, in realtà, è dentro di lui e che resterà dentro di lui anche nello Spazio più lontano, ad un percorso attraverso cui affrontare uno ad uno tutti i propri demoni, la paura di cadere dove il padre è caduto, il riconoscere di aver commesso gli stessi errori del proprio genitore, l’aver allontano ogni persona che lo ha amato per rinchiudersi in una solitudine forzata che sa tanto di castigo autoimposto, fino alla necessità di affrontare finalmente l’origine di tutti questi traumi.
Non è un caso, dunque, che il film si chiuda con un monologo speculare a quello con cui si era aperto e che, se all’inizio rappresentava il simbolo dell’apatia e dell’alienazione di Roy, in chiusura dimostra finalmente un protagonista pronto a vivere la vita con una consapevolezza nuova, libero finalmente dal dolore, per ricordare che alle volte la risposta non si trova a miliardi di kilometri di distanza, ma in un luogo forse più lontano e difficile da raggiunge: dentro di noi.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento