La storia è nota: l’opera teatrale di Orson Welles accompagna i suoi esperimenti alla radio e predata – e giustifica – le prime incursioni nel lungometraggio cinematografico. In particolare è William Shakespeare l’oggetto di alcune ambiziose produzioni che rendono Welles un nome assai noto nella scena di Broadway. Tra queste, di grande successo e a sua volta pietra miliare nella storia teatrale novecentesca, figura una trasposizione di Macbeth in un contesto caraibico – non a caso, soprannominata Voodoo Macbeth – con un cast interamente composto di attori afroamericani.
Di minor successo una produzione originale chiamata Three kings, portata in scena nel 1939, che unisce i drammi storici Enrico IV parte 1, parte 2, Enrico V e Riccardo II. Welles riprende il progetto nel 1960, con il nuovo nome di Chimes at midnight. Ma questa nuova produzione si concentra su un personaggio che gli sta particolarmente a cuore e che definisce “la più bella creazione di Shakespeare”: il personaggio di Sir John Falstaff. Produzioni che in retrospettiva sembrano prove generali per un particolare passion project che Welles gira in Spagna tra 1964 e 1965: l’omonimo Chimes at midnight.

Orson Welles è Falstaff

“I know thee not, old man: fall to thy prayers; How ill white hairs become a fool, and jester!” (Enrico IV, Parte II, Atto V, Scena V)

Anche la storia di Sir John Falstaff è nota. Personaggio comico, aristocratico spaccone, compagno di bevute e di scherzi del giovane principe di Galles, il giovane Hal: soprannome del futuro re Enrico V. Questi si circonda degli amici borderline e plebei di Falstaff, ma il suo lignaggio lo chiama: il rapporto turbolento con il padre Re Enrico IV lo distoglie dalla sua vita di gozzoviglie e lo costringe a maturare per affrontare i nemici della corona, nella fattispecie il ribelle Henry Percy. La storia di Enrico V si dipana nelle due tragedie, ma qui è condensata in un unica vicenda: l’ambiente dei bassifondi in cui si muove Falstaff è descritto anche ne Le allegre comari di Windsor.

Come il titolo italiano lascia intendere, il punto di vista privilegiato (ma solo fino a un certo punto) è proprio quello di Falstaff. Uno sguardo dal basso che si contrappone alle vicende nobiliari di tradimenti, intrighi e guerre: come da tradizione Shakespeariana il basso e l’alto, il volgare e il nobile, le ragioni della politica e quelle dei sentimenti si combattono e si mescolano in una contaminazione di toni che va dal drammatico all’epico al grottesco. Entrambi, Falstaff e Hal, camminano in questo territorio ibrido, continuamente sospesi in un gioco di pulsioni e idealità (e identità) contrapposte. Ma Welles non ha alcun dubbio sulle reali motivazioni del giovane principe: i giochi con Falstaff e compagnia non lo distolgono dal pensiero dei doveri e, soprattutto, della corona sua per diritto regale. Un destino che incombe, che Hal abbraccia con freddo calcolo e travolge Falstaff, forza primordiale e terrena, non uno sciocco ma una creatura elementale la cui sincerità buffonesca è tradita dalle sottigliezze della Storia.

Chimes at midnight getta una luce sul personaggio di Falstaff non negandone il suo status di personaggio secondario, al contrario. Rispetto alle opere di Shakespeare, Welles approfondisce la malinconia del personaggio per i tempi passati; malinconia che esprime già piena consapevolezza del suo posto nelle vicende, dietro le quinte di una figura più grande, nobile e terribile come il futuro Re. Come eroe, verrà consegnato agli annali della Storia solo Hal, il valoroso, equanime e astuto Re Enrico V. Falstaff sarà solo una parentesi in un capitolo più grande, un nome oggetto di prese in giro e di pietà e, successivamente, di una morte off screen annunciata dalla locandiera Nell Quickly. E con Falstaff, muore anche l’idilliaca merrie old England delle storie e comincia l’Inghilterra moderna, che scorre sempre sullo sfondo delle vicende Shakespeariane, anche quando la sua penna sembra rivolgersi a passati così lontani da essere leggenda.

Shakespeare con tre soldi

“Ha, cousin Silence, that thou hadst seen that that this knight and I have seen!—Ha, Sir John, said I well?”

“We have heard the chimes at midnight, Master Shallow.” (Enrico IV, Parte II, Atto III, Scena II)

Se la figura di Falstaff affascina così tanto il Welles giovane e ambizioso studente, non c’è motivo di dubitare che, nel vecchio crapulone esiliato da un sistema che lo rinnega, il Welles cinquantenne disilluso da Hollywood potesse riconoscersi ancor di più. Come altre delle sue produzioni europee, Orson Welles si trova a lavorare a Chimes at midnight con mezzi e garanzie decisamente inferiori a quelli consentiti con uno studio hollywoodiano alle spalle. Nelle sue conversazioni con Peter Bogdanovich, Welles sostiene di aver sacrificato finanziamenti più cospicui legati alla condizione di girare a colori; tra gli altri, Jeanne Moreau e John Gielgud (Dorothy Tearsheet ed Enrico IV, rispettivamente) erano disponibili per pochi giorni: Welles è costretto a ricorrere a sostituti camuffati e ripresi di spalle. Il montaggio viene effettuato in fretta e furia, perché il film fosse presentato in tempo al Festival di Cannes nel 1966.

Le limitazioni di budget, le costrizioni temporali, sia in fase di riprese che di post-produzione, ma anche lo stile di Welles, più istintivo e meno tecnico, traspaiono chiaramente nella pellicola, decisamente lontana da qualsivoglia perfezione tecnica, se vogliamo piena di sbavature nel montaggio e nel blocking. Ma anche di soluzioni originali come la frenetica sequenza della battaglia di Shrewsbury, che trasforma i due eserciti contrapposti in un’unica massa informe di lamiere, fango e alberi ripresi in slo-mo, accelerazioni e stacchi serratissimi. Una ingombrante macchina da guerra (definizione di Michael Andregg) difficilmente leggibile sul piano figurativo, molto efficace su quello simbolico e letto come personale statement antibellicista.

Sequenza di battaglia che, da sola, basterebbe a esemplificare un’Opera come quella di Welles: regista spericolato, sempre personale e contrario ai compromessi. Una autentica forza della natura, un po’ come l’immenso Falstaff che interpreta.

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Valentino Feltrin,
Redattore.