Il regista belga Fabrice Du Welz, conosciuto in tutto il mondo per il suo horror d’esordio Calvaire, torna sul grande schermo tre anni dopo il thriller Inexorable con Maldoror e sbarca Fuori Concorso alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il film coprodotto da Francia e Belgio (e dove titolo e tematiche richiamano I Canti di Maldoror, il controverso poema epico di fine ‘800 del Conte di Lautréamont dove il protagonista incarna la ribellione contro la morale, la religione e le convenzioni sociali), narra di un caso che ha scosso il Belgio a inizio anni ‘90, quello del serial killer Marc Dutroux. Maldoror è infatti anche il nome dell’unità segreta a cui viene assegnato il giovane e impulsivo agente di polizia Paul Chariter (Anthony Bajonè), impegnato nella risoluzione del caso di un pedofilo assassino che ha rapito due bambine. L’indagine diventerà però un’ossessione incontrollabile. Le musiche del film sono di Vincent Cahay, già collaboratore di Du Welz per Calvaire, Alleluia, Adorazione e Inexorable.

Abbiamo incontrato Fabrice Du Welz al Lido di Venezia e questa è stata la nostra chiacchierata.

Maldoror non assomiglia a nessuno dei tuoi film passati, è una delle prime volte che affronti il thriller con questo approccio ma è curioso notare che il tema della mutazione identitaria è presente sin dal tuo esordio, il bellissimo Calvaire: pare che con il passare del tempo insieme a te sia mutato anche il tuo cinema.

Sì, com’è normale che sia. Penso infatti che Maldoror sia il film più diverso nella mia filmografia ed è quello dove ho cercato di essere più autentico, volendo restituire i fatti in tutta la loro autenticità. Ho trattato un caso realmente accaduto che ha segnato la mia giovinezza,  così come la storia del Belgio, avevo molte più responsabilità, infatti c’è una grande attenzione al contesto sociale in cui è ambientato e penso che la parte più importante, al di là delle pieghe del finale, probabilmente sia la prima. Il mio presupposto alla base di questo film era restare sempre sincero, perché il caso di Marc Dutroux riflette lo stato attuale del Belgio, nazione allo sbaraglio, senza una precisa identità, vittima della disinformazione, dove manca completamente la comunicazione fra esseri umani, non per niente è una nazione fortemente multilingue. È questo il punto centrale del film, non capisci più cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Il serial killer è il villain, certo, ma il buono è così buono come crediamo? Il personaggio di Anthony Bajon si muove in un sistema in cui deve seguire le regole e dove gli è imposta un’unica opzione, un’unica strada, ma cosa fare quando è proprio il sistema ad essere marcio? Quindi il mio cinema è mutato, sì, però non ho abbandonato il cinema di genere, resterò sempre all’interno del genere perché permette di intrattenere lo spettatore in maniera intelligente, per esempio quando ho tempo riguardo sempre l’Esorcista, oppure Zodiac, per citare un film più recente che amo e che ha anche ispirato Maldoror. Cercherò sempre di fare un tipo di cinema più diretto, anche per pensare alle persone che magari non vanno spesso al cinema ma che potranno sempre apprezzare film di questo tipo. In generale per me ogni lavoro è un nuovo inizio, così come ogni film dopo Maldoror sarà sempre diverso.

L’Italia occupa un posto speciale in Maldoror, essendo recitato in gran parte anche in dialetto sicliano. In più occasioni hai dichiarato il tuo amore per l’Italia e guardando il tuo nuovo film si nota anche un certo gusto per un cinema artigianale come quello italiano di vecchia data: quanto di quel cinema c’è in Maldoror?

Partiamo dal presupposto che prima di essere un regista sono un cinefilo compulsivo, guardo film in continuazione, è una sorta di dipendenza. È inevitabile che ci sia il cinema italiano anche in Maldoror perché ormai quel cinema fa parte del mio DNA, più cresco e più amo l’Italia. Sto anche imparando l’italiano, ogni anno faccio un viaggio in Italia, per esempio quest’anno sono andato al Cinema Ritrovato di Bologna a vedere Sedotta e Abbandonata di Pietro Germi [guarda caso ambientato in Sicilia, ndr] e il suo cinema mi ha sempre influenzato sin dal mio primo film. Il cinema d’exploitation degli anni ‘70 attraversa tutta la mia filmografia, compreso Maldoror. L’unica differenza rispetto al passato è legata al discorso dell’autenticità e della responsabilità che facevo prima, perché ora ho cercato di essere il meno citazionista possibile, non volevo “commentare” il cinema del passato ma essere in tutto e per tutto onesto col soggetto. Ovviamente per farlo sono dovuto restare in Europa, perché se fossi andato a girare in America non avrei mai potuto fare un film del genere, qui almeno abbiamo la libertà di gestire cose come il montaggio, negli Stati Uniti no, almeno questo è quello che ho vissuto nella mia esperienza americana. In America devi essere per forza super popolare e alla ricerca del consenso del pubblico perché cinema e politica vanno a braccetto. Devi puntare al box office. Per questo non guardo tanto cinema horror contemporaneo, dove Netflix ha inglobato praticamente tutto. Non giudico nessuno, ho provato a vedere qualcosa ma per me l’horror di oggi è abbastanza noioso, per questo torno sempre a rivedere i film di William Friedkin e tutto il cinema degli anni ‘70, anche Sidney Lumet. Oggi l’horror, ma anche il cinema più in generale, è per élite, i registi girano film solo alla ricerca del red carpet. Per me non è così, fare film è la gioia più grande al mondo e voglio condividere questa gioia circondato da amici, da collaborazioni autentiche, ovviamente è limitante, sia per le lingue che per i budget, però è così che amo fare cinema.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.