“Quasi tutte le storie più o meno celano una qualche menzogna. Ma non questa volta, è la mia promessa.”

Siamo nel 1973 quando, con questo voto, Orson Welles in persona introduce la storia di uno dei più grandi falsari mai esistiti, Elmyr De Hory, e di Clifford Irvin, scrittore divenuto celebre per una falsa biografia su Howard Hughes e in seguito per il racconto biografico dello stesso Elmyr. Un’avventura di sotterfugi e inganni rischiosi narrata con l’ironia di chi è riuscito a imbrogliare le più alte personalità del mondo dei connoisseurs del ‘900.

La linea sottile tra realtà e finzione si rivela essere il tema principale del film, presentandosi in più modi e occasioni e creando spunti di riflessione sul cinema stesso.

“Se li appendi in un museo dove c’è una collezione di dipinti e li lasci lì per molto tempo diventano veri.”

Elmyr divenne celebre per le sue rarissime capacità di riprodurre perfettamente i tratti di qualunque pittore, a dispetto della presunta competenza degli “esperti d’arte”. Ed è citando i versi di Kipling che Welles ci interroga sulla differenza tra un “bel falso” e un’opera d’arte.

“E’ bello, ma è arte?” 

L’elemento discriminante è il giudizio delle autorità, quindi se ai loro occhi il quadro è vero, che statuto l’opera assume?

Per la prima ora del film De Hory e Irving sono i nostri protagonisti nel racconto della grandiosa vita del falsario e dei rischi corsi per il suo lavoro, l’incontro con lo scrittore e la storia della falsa biografia che lo aveva reso celebre. Al termine di questa vicenda al centro della narrazione c’è Oja Kodar, una bellissima ragazza che in vacanza nel paesino di Toussaint aveva fatto la conoscenza di Picasso, facendolo innamorare perdutamente di sé.  La sequenza che illustra questo momento è realizzata con una commistione di materiale girato, fotografie e quadri. Le passeggiate di Oja si alternano agli occhi veri del pittore, che la scrutano con uno sguardo che sarà sempre più affascinato da lei, fino ad impazzire e a trasformarsi… in un dipinto.

In perfetta sintonia col tema fondamentale del film questo momento mostra come il significato associato a delle immagini sia cambiato in base alla loro collocazione, quasi come un falso in un museo.

GLI ANNI ’70 E IL TEMA DELL’AUTORIFLESSIVITA’

Negli anni ’70 uno dei temi – inconsciamente o consapevolmente – preferiti dai registi era quello dell’autoriflessività, ossia far parlare il mezzo artistico di se stesso. Ciò era stato generato da tensioni ideologiche che volevano opporsi alla prospettiva rinascimentale, cioè il punto di vista ideale di uno spettatore che deve immedesimarsi nella finzione. Questa è vista come intrinsecamente borghese, perciò da eliminare. La miglior maniera di farlo era portando allo scoperto la falsità del mezzo, l’inganno del cinema.

Lo spunto proveniva dal teatro politico del drammaturgo Bertolt Brecht, che scrisse tra gli anni 20 e 40 e rese lo straniamento la caratteristica dei suoi spettacoli. Comunista, era convinto che impedire in tutti i modi possibili agli spettatori di immedesimarsi, straniandoli dalla vicenda, avrebbe permesso loro di avere un occhio critico sulle tematiche politiche trattate.

Lo stesso principio caratterizza molti film degli anni 70, e non sorprende ritrovarlo in una pellicola che ha come tema il rapporto tra fittizio e reale. Sono diversi, infatti, i momenti in cui la troupe viene svelata, l’illusione crolla subito dopo la promessa di ascoltare solo verità in un racconto sul falso. Noi, da spettatori, riprendiamo coscienza della distanza che ci separa dallo schermo, e sorridiamo con Orson Welles del tranello in cui siamo caduti.

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Gaia Fanelli, Redattrice