“Leggendo i classici ho capito quanto è bella la fusione tra una vicenda privata e gli avvenimenti storici. La mia profonda formazione tolstoiana si rivela ugualmente in questa piccola equazione: una storia privata è ingrandita, e diventa straordinaria, cioè necessaria, se si presenta sullo sfondo un grande avvenimento storico.” (Valerio Zurlini)
Nel 1959, in pieno boom economico seguìto alla travagliata ricostruzione del Dopoguerra, in un clima di benessere entusiastico e rinnovato ottimismo del Belpaese, che di lì a un anno assaporerà il vortice inebriante della dolce vita felliniana, Estate violenta di Valerio Zurlini chiude il sipario su un decennio di (presunta) ripresa, facendo ritorno alle inquietudini recondite e mai davvero fugate nello scottante passato recente, collettivo e individuale, dell’Italia. E che gettano un’ombra scura e non riconciliata su quel posto al sole dell’abbiente prosperità e dell’evasione rilassata che gli italiani, oggi come ieri, cercano faticosamente di (ri)conquistarsi.
Ma che già si mostra in pericolo nell’immagine iniziale dell’aereo militare tedesco che sfreccia radente sulla spiaggia, terrorizzando i bagnanti in fuga. Come monito presago dell’imminente tempesta bellica che si infiltra tra le increspature di un benessere dorato solo in apparenza, e che paradossalmente si mostrerà ancor più falso e precario al sorgere di quegli anni ’60 – sereni e pacificati solo ad un occhio superficiale – su cui il film si affaccia. Ha infatti ragione Emiliano Morreale nel rilevare, nel film di Zurlini, l’“effetto straniante” di “quei giovani borghesi vestiti di bianco [che] sono anche, in parte, i giovani degli anni sessanta, e l’estate del 1943 una specie di involontaria versione tragica del filone balneare allora alle soglie della rinascita” (L’invenzione della nostalgia – Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, 2009).
AMARO SAPORE DI MARE
Estate violenta è su questo versante un film cerniera: declina un passato narrativo che fa da incubatore allo spirito del tempo futuro (il presente dell’epoca: gli anni ‘60). Abita un contesto appena storicizzato mentre illumina di riflesso una nuova fase storica di transizione, in cui la sensibilità, i costumi, lo stile di vita e i comportamenti degli italiani si stanno modificando profondamente e a impressionante ritmo accelerato.
Con ancora addosso, ben visibili, i cascami narrativi ed estetici delle ferite della guerra e delle pesanti scorie lasciate in sorte dalla tradizione, il film sviluppa nelle forme del melodramma quella critica acuminata al conformismo sociale e all’ipocrisia borghese già presenti, sotto un falso candore e una patina di leggerezza sentimentale, in opere come La spiaggia (1954) e Guendalina (1957) di Alberto Lattuada.
Sporcando da subito, con la spuma dell’ansia di vivere e delle passioni sciupate, la sabbia dei litorali turistici di tanto innocuo e spensierato cinema vacanziero a venire. Preparando il terreno alla deriva degli amorazzi estivi del “neorealismo rosa” affogati in un nerissimo e sconsolato pessimismo esistenziale, fino alla caustica e impietosa radiografia della “mutazione antropologica” della calca selvaggia, orgiastica e involgarita sdraiata sotto L’ombrellone (1975) cafonal di Dino Risi.
LA PRIMA ESTATE DI CAOS
Zurlini cala il suo tormentato melodramma amoroso nel prima e nel dopo di una data spartiacque: quel 25 luglio 1943 che, con la caduta del “governo” Mussolini, vede la repentina dissoluzione del ventennale regime fascista. In un frangente politico e sociale di doloroso trapasso e anarchia incontrollata, di radicale spaesamento della popolazione e disorientamento caotico degli ideali, che prelude alla guerriglia fratricida.
Una frattura che quasi per osmosi si insinua nei binari di una doppia crisi esistenziale, nel privato di coscienze infelici ridestate alla vita e al desiderio. Nella dirompente quanto osteggiata scoperta della passione tra lo sfaccendato studente in vacanza a Riccione Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), figlio di un ras del fascismo ferrarese, e la trentenne vedova borghese Roberta Parmesan (Eleonora Rossi Drago), ingabbiata dalla morale intransigente che la incatena ai doveri di madre premurosa e devota vedova in lutto.
Perché la violenza a cui il titolo si riferisce è sì quella dei disordini popolari scatenati alla notizia della deposizione di Mussolini (rappresentata da Zurlini nella rumorosa scena dell’assalto alla Casa del Fascio, con il gigantesco busto del Duce arpionato e fatto schiantare al suolo). Ma quella su cui più si concentra l’attenzione del regista è soprattutto l’impetuosa violenza istintuale dei sensi irretiti e travolti, la folgorante scossa di emozioni sopite e riattizzate di Carlo e Roberta, che si scontrano con la soffocante rigidità della norma sociale e di una dispotica ragion di Stato.
CRONACA (DI UN’ITALIA) FAMILIARE
Il bolognese Zurlini (1926 -1982) si era formato nel teatro, mostrando poi talento e sensibilità documentarista in un’intensa attività di autore di cortometraggi. Inevitabilmente inserito, come quasi tutti i registi e gli intellettuali del Dopoguerra, nella temperie ideologica e culturale del neorealismo.
Qui però, senza eludere la verità storica e le miserie del quotidiano, ne accantona i dettami di presa diretta e verosimiglianza mimetica. Optando con grande modernità per un registro audacemente formalista, ancorato agli sguardi totalizzanti e alla percezione soggettiva – dunque singolarmente parziale – dei protagonisti dell’intrigo. Incentrato sul lirismo della messa in scena, sulla dilatazione di inquadrature avvolgenti come una suite jazzistica, sulla raffinata tessitura compositiva delle immagini. Fedele all’intensità stilistica delle unità essenziali della grammatica filmica (in particolare, lo vedremo, l’impiego altamente significante della musica e l’uso simbolico e cangiante delle luci). Per scardinare, attraverso il trepidante disordine emotivo e psicologico provocato da Carlo e Roberta, l’assillante ossessione del controllo che pervade la società e l’Italia fascista. Non a caso, gli eventi della Storia ufficiale prendono il sopravvento solo nel momento in cui la magia del cinematografo viene interrotta e il proiettore si spegne. Quando l’irruzione della realtà interrompe bruscamente la culla delle illusioni, quando la grigia impassibilità telegrafica della voce radiofonica strappa al pubblico anche l’ultimo spazio di evasione personale per sognare sul grande schermo: l’annuncio del tracollo di Mussolini giunge proprio mentre Maddalena, la giovane cognata di Roberta, si è appena accomodata in sala con un giovane del luogo, e la visione viene sospesa.
Estate violenta descrive, sullo sfondo della nascita di un amore che resta sempre in primo piano, la caduta inattesa e fragorosa delle due inflessibili cattedrali su cui fino a quel momento si era edificata e retta la rigorosa condotta morale, la repress(iv)a e disciplinata vita sociale e sentimentale di un intero popolo: la dottrina fascista e la sacralità della famiglia.
Due facce della stessa medaglia che si rispecchiano nello stesso sistema ipocrita e tiranno di irreggimentare la vita pubblica e privata. Due colossi dai piedi d’argilla che franano improvvisamente l’uno addosso all’altro, ammucchiando un cumulo indistinto di rovine urbane e dilanianti macerie interiori. Entrambi squassati alle fondamenta, in un sol colpo, dall’autenticità del sentimento insopprimibile scaturito fra Carlo e Roberta: il vitale irrazionalismo romantico della passione – pur destinata a fallire – rompe per sempre la rigida architettura di trame e relazioni sociali.
Estate violenta è quindi un melodramma intimista eppure violentemente politico. Lo è senza la noiosa cronologia dei fatti e senza la programmatica retorica impegnata del pamphlet storico. In un crescendo animato dai moti sentimentali dei personaggi che con l’aura fragile e preziosa del pathos che li cinge vorrebbero farsi scudo del corso degli eventi, scampando al declivio di una Storia già inesorabilmente incanalata verso la disgrazia (anche nel coevo Tempo di vivere (1958) del maestro del melodramma Douglas Sirk, il romanticismo della coppia ingloba la Storia come nucleo resistente alla catastrofe umana del nazismo).
L’ARTE DEL MELODRAMMA E IL GRAN BALLO ZURLINIANO
Zurlini, da appassionato cultore di letteratura, infonde nello scenario precise suggestioni artistiche e romanzesche. Si veda l’invito di Carlo – poi non raccolto – a visitare il Castello di Gradara, teatro del fatale e galeotto romance di Paolo e Francesca narrato nell’Inferno di Dante: nella sua natura di amour fou irrealizzabile e condannato alle fiamme, riflette, come un patrono all’inverso, il tragico conflitto tra morale e passione che investe specularmente la vicenda di Carlo e Roberta. Nel corso di una breve gita fuoriporta a San Marino, i due vengono ripresi a distanza innaturale in una piazza deserta e metafisica con echi alla De Chirico (figura 1), in uno spazio figurativo carico di desolante vuoto esistenziale alla Antonioni (Rossi Drago era stata la protagonista di Le amiche, 1955), scandito solo dai rintocchi delle campane di una chiesa.
Figura 1
Un luogo di sperduta immobilità dove – dice Carlo – si respira “una falsa aria anteguerra e neutrale in un falso medioevo”, in cui la passeggiata dei due può sfuggire per qualche ora alle pressioni costringenti della realtà. Ma è negli ingombranti arredi della fascistissima Villa Caremoli, tra busti scultorei e improbabili soprammobili di testa caprina, pareti affrescate da basso impero e quadri di Carrà, che Zurlini instilla il satirico disprezzo per quelle “mostruosità” artistiche con cui la pacchiana grandeur del regime tenta di nobilitarsi.
Nella villa, Zurlini ambienta il bellissimo e visionario segmento centrale. Aperto da una sobria carrellata laterale sulla combriccola degli amici di Carlo: usciti all’esterno, alzano gli occhi al cielo per ammirare incantati i bengala dei ricognitori (figura 2), che rischiarano la notte come fossero poetici fuochi d’artificio (ancora una volta, il segno della minaccia esterna trasfigurato dalla proiezione soggettiva). L’unico a disinteressarsene è proprio Carlo, che, al riparo dagli occhi indiscreti ma momentaneamente distratti dei compagni, getta lo sguardo verso Roberta, che si trova fuori campo al margine destro dell’inquadratura: le prime, segrete e timide avances.
Figura 2
Svetta a questo punto la topica scena di ballo – “degna di un Visconti giovanilista”, suggerisce Morreale – adagiata sul motivo della grande canzone italiana (Temptation di Bing Crosby nella versione di Teddy Reno). Un preciso stilema zurliniano, più volte variamente ripreso. Per far venire a galla, per dare corpo e voce, come in Estate violenta, alla sotterranea, complicata incomunicabilità del gioco di seduzione sempre asimmetrico e squilibrato fra gli amanti.
In La ragazza con la valigia (1961) – altro toccante melodramma di solitudini di età diverse -, Impazzivo per te di Adriano Celentano traccia il gioco delle distanze tese e accorciate tra la bellissima Aida Zepponi (Claudia Cardinale) e il sedicenne Lorenzo, con la lenta e sicura camminata della donna che dalla terrazza dell’hotel si avvicina al giovane ammiratore per raggiungerlo su un dondolo.
Poco prima, similmente, la Cardinale scende languidamente in accappatoio le scale della villa domestica come giù da un palco teatrale, sull’aria dell’Aida di Verdi (appunto il nome della protagonista): una irraggiungibile femminilità celestiale al cospetto di un imberbe e ammaliato Jacques Perrin. In modi e forme diverse, ma non troppo dissimili, in La prima notte di quiete (1972), nella sordida e madida modernità dei lascivi balli in discoteca, l’incrocio di sguardi e silenziose concupiscenze tra il disilluso professore Alain Delon e l’enigmatica liceale Vanina è ricamato sulle note, orgogliosamente scorate, di Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni.
Anche in Estate violenta, l’inserto musicale diegetico non fa da banale accompagnamento, stile piano-bar e soap opera dei telefoni bianchi, ma tesse la dimensione velata del desiderio che pullula sotto l’affettazione delle maniere cortesi: un algido eppure infiammato vortice di emozioni trattenute e palpitazioni inespresse dai personaggi, che, nel tempo effimero del brano diffuso dal giradischi nell’aria della sera estiva, isola per loro, dentro la selva goliardica dei ragazzi nel salone, uno spazio ideale di intimità nel quale stringersi e riconoscersi. Un girotondo di impalpabile tensione sessuale che si taglia col coltello, per due anime affini che si cercano e si studiano con gli occhi ma ancora non possono uscire allo scoperto, ognuna al braccio di un anonimo partner di danza (figura 3).
Figura 3
In un’alternanza di lenti dove i corpi che fremono sotto la compostezza di facciata, vicini o lontani, si avvicinano timidi e furtivi per subito ritrarsi allarmati. Allacciando poi quel legame proibito dal comune senso del pudore in un malinconico arabesco di note struggenti che uniscono la coppia, nell’abbraccio prolungato dalla sinuosità tremolante di sassofono e tromba nella magnifica colonna sonora old style di Mario Nascimbene.
Una scena in cui vibrano l’insistito scambio di duetti e il gioco di sguardi incrociati, tra continue variazioni di spesse zone d’ombra e limpidi veli di luminosità tagliente. Una dialettica visiva nata appena prima sugli spalti del circo, quando nel mezzo di un blackout la torcia di Roberta illumina – quanto involontariamente? – il volto di Carlo come un bagliore di santità profana (figura 4).
Figura 4
Una rivelatrice “segnaletica” dei volti poi ripresa più avanti, dove c’è la stessa luce puntata in faccia a Carlo, dai gendarmi che sorprendono la coppia a tarda notte tra le cabine della spiaggia, ma con funzione diversa: nel primo caso, l’accidentale riflesso involontario di un’attrazione, nel secondo l’alone freddo di un’ispezione inquisitoria. Il tutto per riflettere la natura di un mutevole rapporto in chiaroscuro che, nelle splendide sfumature del bianco e nero di Tino Santoni, sembra non poter mai veramente venire alla luce. Se non sotto la lente deformata dalla severità invadente dell’occhio altrui, che scruta, giudica, si impiccia ed emette sentenze inappellabili.
Non a caso, l’agognato e castissimo bacio che Carlo e Roberta riescono finalmente a darsi, rifugiandosi nel giardino all’esterno, viene inizialmente ripreso a distanza, quasi senza romanticismo, in un quieto e impersonale pianosequenza in campo lungo dall’ingresso della villa (figura 5a), depotenziato dell’avvolgente carica passionale delle scene precedenti (affollate di allusivi “preliminari”). Come un evento qualunque, senza importanza, colto dallo sguardo di un osservatore casuale.
Figura 5
O, peggio, dall’occhio di qualcuno che deve tenersi appartato a distanza per spiare il fattaccio inammissibile: vale a dire la rivale Rossana (la deliziosa Jacqueline Sassard, all’epoca compagna di Zurlini), che spunta sulla soglia e sorprende gli amanti: ora, in reverse-shot, focosamente avvinghiati davanti allo spettatore (figura 5b). Rossana si vede defraudata dell’oggetto del desiderio da una donna più matura, verso la quale dimostra piena ostilità: si forma istantaneamente un triangolo amoroso di cui Zurlini racchiude tutti i vertici lungo una geometrica diagonale in profondità di campo (figura 6).
Figura 6
UN UOMO, UNA DONNA: TRINTIGNANT E ROSSI DRAGO
Se il film riesce ancora oggi a coinvolgere e a rapirci senza apparire datato – al netto di certi toni enfatici un po’ desueti, tipici della grande stagione del melodramma – gran parte del merito va all’alchimia e all’abbagliante presenza scenica dei due straordinari interpreti in stato di grazia.
Sensuale e angelicata, soavemente pallida e divinamente sgraziata da piccole rughe, bellissima e altera Eleonora Rossi Drago, che con grande sensibilità dona a Roberta la classe innata di una femminilità complessa, che cova il turbine della passione sotto l’algido portamento aristocratico e le pose ingessate della vedova costretta al sacrificio sull’altare domestico. Perennemente sorvegliata dallo sguardo indagatore dell’anziana madre, puntuta aguzzina della magione che grida allo scandalo (la splendida e quasi “gotica” Lilla Brignone), Roberta deve districarsi in un triangolo di legami familiari (madre, figlia piccola, giovane cognata) che si assomma a quello amoroso nel rafforzare il fardello moralistico dei sensi di colpa che le vengono affibbiati.
Un groviglio di impenetrabili tensioni interne e interiori che Zurlini ci mostra spesso in profondità di campo, appoggiandosi allo sguardo vicario di Carlo che, estraneo e intruso sulla soglia, quasi non osa mettere piede in quel territorio di relazioni rinserrate in salotto, che lo vede escluso (figura 7).
Figura 7
L’altra metà del mélo è il compianto Jean-Louis Trintignant (scomparso il 17 giugno). Al suo primo film italiano – quasi trentenne all’epoca delle riprese, nondimeno credibile nei panni di un ragazzo molto più giovane -, fa subito balenare nel nostro cinema l’intensità discreta ed elegante dei suoi tratti armoniosi e rassicuranti, “da bravo figliolo”, ma al tempo stesso incrinati da una lieve malinconia, da un’introversione meditabonda che gli scava sul volto il dubbio dell’alienazione e il senso di un’irresolubile inadeguatezza. Nell’espressione mite e assorta, nello sguardo attento eppure sempre obliquamente distorto in qualche pensiero ineffabile. In quel viso pulito di intelligenza acuta e sottile, di pacatezza indolente e autocontrollo educato, che però somatizza il sintomo dell’inquietudine che rode una coscienza accarezzata dalla velleità di desideri che non osa pronunciare fino in fondo.
In sintesi, la prima e già perfetta declinazione di quella mascolinità minuta e vulnerabile, vittima e complice, minata dal disagio dell’essere fuori posto e fuori tempo, plagiata dalle sirene di un vitalismo incerto e prematuramente interrotto, che poco dopo troverà immortale consacrazione nel personaggio di Roberto ne Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Corpo acerbo e delicato che ha già in sé sfumature di un’ombrosa maturità. Figura liminale, schiacciata tra il peso di modelli ingombranti, eredi di un paternalismo arcaico (il titanico padre-gerarca interpretato da Enrico Maria Salerno, che in pochi minuti ruba la scena nella magistrale incarnazione dell’atletico guerriero fascista, corpulento e caricaturale modello di maschio italico che Carlo, inconsciamente, aspira a non diventare), e una libertà di muoversi nel languore (e)statico di impacciate deviazioni sentimentali come un flâneur esistenzialista della nouvelle vague, che sta per affacciarsi nel cinema europeo degli anni Sessanta (in cui lo stesso Trintignant sublimerà la figura invecchiata dell’amante nello splendido mélo Un uomo, una donna (1966) di Claude Lelouch).
Protagonista perfetto per il melodramma zurliniano, tra laconici non detti, mezzitoni sussurrati e scariche di abbandono sensuale sulla spiaggia notturna. Per imbrigliare gli slanci e le fragilità di un uomo irrisolto e antropologicamente portato all’inazione, complesso e sensibile ma tutt’altro che positivo come Carlo: un vitellone tranquillo senza arte né parte, che si trascina blandamente, per inerzia ed abitudine, tra gite in barca e serate in villeggiatura, senza occupazioni e per di più esentato dal dovere militare che continua a rinviare (al sicuro degli appoggi burocratici dell’influente genitore).
Uno struzzo che tiene la testa sotto la sabbia, senza venire minimamente sfiorato dalle miserie che martoriano il tessuto dell’Italia del tempo di guerra. Ha appena l’ardire di smuovere la placida monotonia dell’estate prendendo l’iniziativa con Roberta (per la quale comunque prova un sentimento autentico e generoso). Ma, lo ammette lui stesso, non ha davvero la capacità di cambiare radicalmente il proprio essere, né di prendere in mano il destino con coraggio (“Tutto questo massacro mi fa orrore, ma io non riuscirò mai a ribellarmi”). Limitandosi a farsi trascinare dalla corrente (“Io vado dove va il branco, così mi sento meno solo”), evitando ogni possibile scoglio. In questo non troppo dissimile all’ipocrisia endemica e alla quieta vigliaccheria di tutti quegli italiani eterni opportunisti (di cui lo stesso Trintignant, dismessa la schiva indifferenza di Carlo, ne Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci esacerberà l’obbediente servilismo e il camaleontismo sottomesso).
VIA COL VENTO DI GUERRA
Le convulse riprese finali, con la tentata fuga in treno della coppia interrotta dai bombardamenti nemici, ritraggono con inedito e poderoso respiro da kolossal storico la brutale incursione (aerea) del realismo tragico e deflagrante della guerra, solo suggerito in precedenza, perché obliato dai personaggi. Fino ad allora immersi nella dimensione inattuale, atemporale e impermeabile di una sofferta liaison in difesa dalle sirene del mondo esterno.
È il momento in cui il peso della Storia collettiva giunge sul proscenio a reclamare il suo ruolo sulla caducità dei destini individuali, per tracimare irrevocabilmente nel terremoto affannoso della relazione impossibile, come una mareggiata che trascina via per sempre piani, sogni e illusioni degli innamorati (nel mondo dei sentimenti sommersi, si salva solo, per Carlo, un tardivo recupero di responsabile dignità).
Figura 8
Riportando a riva l’epica spoglia e prosaica degli amanti divisi e sfibrati che per un’ultima volta si cercano tra i cadaveri riversi, i sopravvissuti sui binari, i crateri delle bombe, nel paesaggio diradato di una massa dispersa e devastata, che simboleggia lo stato di atterrimento e prostrazione di un intero Paese (figura 8), in cui c’è forse un ricordo della catasta di sfollati nel celebre finale del melodramma per eccellenza, il Via col Vento (1939) di Victor Fleming. Anche per Carlo e Roberta, domani sarà un altro giorno, ma l’amarezza e lo sconforto della loro rinuncia non lasciano per nulla sperare che la prossima estate italiana sarà per tutti meno violenta.
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