L’esorcista (1973) di William Friedkin è passato alla storia come uno dei film più terrificanti di tutti i tempi. Tutti, anche coloro che non l’hanno visto, lo conoscono per le contorsioni e il vomito verde della piccola Regan, per la masturbazione col crocifisso, per la celebre rotazione a 180° della testa della posseduta. In pochi, tuttavia, ricordano che il film si apre con una sequenza di circa dieci minuti ambientata in Iraq e girata in parte tra le rovine dell’antica città di Hatra (tra l’altro un sito Patrimonio dell’UNESCO tra quelli parzialmente devastati dalle milizie dell’ISIS nel 2015), che rappresenta uno tra i più bei passaggi dell’intera pellicola: un piccolo capolavoro di narrazione allusiva, in cui per la prima volta lo spettatore percepisce la presenza del male, un’entità antica, infida e strisciante che riemerge dalla terra e dal tempo.
Prima di inoltrarci nell’analisi della sequenza irachena, due precisazioni sono dovute. Anzitutto, nella versione Director’s Cut del 2000, che presenta undici minuti di scene inedite (tra cui la celebre discesa “a ragno” di Regan), il film non si apre in Iraq. La sequenza di nostro interesse, infatti, è preceduta da un’inquietante carrellata, che parte dall’inquadrare la celebre finestra di casa MacNeil e percorre tutto l’edificio fino alla strada, e da un primissimo piano della statua della Madonna che comparirà più volte nel corso della pellicola. Solo allora, dopo tre cartelli di titoli di testa, si passa allo scenario mediorientale. La seconda precisazione, di maggior interesse ai nostri fini, è relativa al libro L’esorcista (1971) di William Peter Blatty (anche sceneggiatore del film e tra l’altro premiato con l’Oscar per il suo adattamento), che si apre proprio con un prologo di circa quattro pagine ambientato in Iraq, rispetto al quale però la sequenza irachena del film di Friedkin è ben più ricca. Ciò, dunque, le attribuisce subito una particolare importanza, visto che è stata chiaramente oggetto di una significativa operazione di ampliamento e ristrutturazione.
La sequenza si apre con un’immagine – inizialmente in bianco e nero, poi a colori – del sole alto nel deserto [fotogrammi 1-2]. Il passaggio cromatico, assai significativo, trasmette la sensazione di una luce accecante, che richiede qualche attimo per essere messa a fuoco nelle sue tonalità di rosso acceso, quasi sanguigno: il calore evocato da questa immagine è quello dell’Inferno. In sottofondo, inoltre, si ode il canto di un muezzin, che funge da primo richiamo a una dimensione spirituale che, come vedremo, è centrale tanto nella sequenza irachena quanto nell’intera pellicola (Blatty stesso vedeva nel suo L’esorcista un’opera di religiosità profonda).
Friedkin, a quel punto, inquadra in campo lunghissimo le antiche rovine di quello che pare essere un tempio [fotogramma 3] e, subito dopo, trasporta lo spettatore all’interno del relativo cantiere archeologico. Il regista, che fa largo uso di campi totali per rendere le dimensioni e il brulichio degli scavi [fotogramma 4], dedica anche un curioso dettaglio a un piccone che, con rumore cupo e sordo, affonda nella sabbia, smuovendo pietre e insinuandosi in profondità nella terra [fotogramma 5].
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Dopo una serie di altre dinamiche inquadrature degli scavi, si vede un ragazzino correre per il cantiere e raggiungere un uomo per comunicargli il ritrovamento di alcuni oggetti antichi. Quest’ultimo, intento a lavorare, è Padre Lankester Merrin (interpretato da Max von Sydow), archeologo e sacerdote, nonché colui che più avanti nel film guiderà il rituale dell’esorcismo. Il breve dialogo tra il ragazzo iracheno e Padre Merrin è ripreso da una prospettiva bizzarra: Friedkin inquadra l’uomo dall’altezza dei piedi del giovane, che si trova in posizione sopraelevata rispetto al prete, chino a terra in una buca. In questo modo, il personaggio di Max von Sydow finisce per trovarsi inserito in (e, a ben guardare, sovrastato da) una sorta di triangolo composto dal terreno e dalle gambe del ragazzo [fotogramma 6]. Questa forma geometrica, com’è noto, in buona parte delle religioni monoteiste e politeiste è considerata simbolo di perfezione e di armonia e, nel caso del Cristianesimo, rimanda chiaramente alla Trinità. Friedkin, dunque, sottolinea anche con la composizione delle inquadrature la spiritualità del contesto e comincia, a poco a poco, ad affastellare rimandi alla sfera religiosa che sarà centrale nel film.
A quel punto, Padre Merrin esamina insieme a un collega archeologo alcuni reperti, tra cui una moneta [fotogramma 7] che, come vedremo, ricorrerà diverse volte sia nella sequenza irachena sia nella pellicola in generale. Gli archeologi, peraltro, convengono immediatamente sulla stranezza di questo oggetto, chiaramente di epoca diversa rispetto agli altri ritrovamenti.
In seguito, con una semi-soggettiva, Friedkin mostra Merrin estrarre da una cavità nella roccia una strana pietra [fotogramma 8], la cui fuoriuscita dalle tenebre è accompagnata da un’inquietante folata di vento e da uno sbuffo di polvere e sabbia: quasi un alito del tempo o il respiro di un’antica creatura tornata alla luce dopo secoli di letargo. Ci si rende subito conto, infatti, che non si tratta un normale sasso, bensì di un amuleto rappresentante il volto del demone Pazuzu, che Blatty nel romanzo chiama “personificazione del vento di sud-ovest” e “principe della malattia e dell’infermità”. Non a caso Merrin, squadrando il volto della statuetta [fotogramma 9], deglutisce inquieto [fotogramma 10] e in sottofondo si fa largo un suono disturbante che ricorda il fitto ronzio di un nuvolo di mosche, insetti normalmente attratti dalla malattia, dai cadaveri in decomposizione, dal disfacimento del mondo.
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Il ronzio è bruscamente interrotto da uno stacco di montaggio sul profilo di una moschea, nuovamente un edificio di culto, immerso nella luce rossastra del sole [fotogramma 11]. Qui la sequenza irachena passa al suo secondo scenario, un bar in una cittadina locale. Si tratta di un’ambientazione apparentemente quotidiana, in cui però i rimandi alla sfera religiosa e demoniaca – spesso collocati in secondo piano e non facili da cogliere – si sprecano. Un cameriere serve del tè da una sorta di enorme brocca il cui beccuccio ha la forma di una creatura ibrida e alata [fotogramma 12] e, qualche secondo più tardi, lo stesso figuro con la brocca passa davanti alla telecamera, attraendo per un istante l’attenzione degli occhi vacui di Padre Merrin, sempre più inquieto e spaesato [fotogrammi 13-14]. Ancora: in secondo piano rispetto a Merrin vediamo passare un ragazzino con in mano il disegno di una rossa creatura demoniaca [fotogramma 15] e, pochi istanti più tardi, notiamo un uomo giocherellare con un amuleto, come stesse sgranando un rosario [fotogramma 16, in alto a sinistra]. Tutti questi piccoli segnali potrebbero apparire casuali, ma chiaramente non lo sono: ogni elemento che appare sullo schermo fa parte del testo filmico ed è stato voluto dal regista che, come detto all’inizio di questo articolo, adotta un linguaggio ambiguo e allusivo, che suggerisce la presenza (e la quotidianità) del male tramite piccoli segnali impliciti.
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La sequenza del bar ha almeno altri due aspetti interessanti. Anzitutto Merrin è chiaramente osservato da una serie di figuri [fotogramma 17], attrae il loro sguardo, come se portasse su di sé il segno dell’incontro col maligno. L’altro elemento da tenere in considerazione sono i riferimenti, che non mancheranno anche più avanti, alla malattia e all’infermità, di cui il demone Pazuzu – come già accennato – è il principe: il prete è scosso da un forte tremore e assume faticosamente delle pastiglie bianche [fotogramma 18] e, poco più avanti, Friedkin inquadra un uomo cieco tenuto per mano da un altro che gli fa da guida [fotogramma 19].
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In seguito, siamo trasportati in una fornace infernale [fotogramma 20], dove alcuni fabbri sono intenti a forgiare quella che sembra una spada, segno di un’imminente lotta. Il battito dei colpi di martello sull’acciaio, peraltro, fungeva da colonna sonora già durante tutta la scena al bar. Friedkin inquadra Merrin in semi-soggettiva mentre osserva gli artigiani al lavoro [fotogramma 21] e il prete incontra lo sguardo di uno di essi: ha un occhio malato, infetto, forse cieco [fotogramma 22]. Il sacerdote, ancora una volta, suda freddo [fotogramma 23].
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A quel punto la scena si sposta in un ufficio, dove Merrin e un altro uomo stanno procedendo a catalogare i reperti rinvenuti nel sito archeologico. Le teste mozze delle antiche statue paiono osservare i due uomini [fotogrammi 24-26]. Il prete si trova in piedi di fronte a un tavolo [fotogramma 27] e prende in mano la moneta ritrovata in precedenza [fotogramma 28]. Ora è stata ripulita ed è possibile osservarla con attenzione: riporta l’invocazione “Sancte Joseph ora pro nobis” (“San Giuseppe, prega per noi”) e presenta in rilievo un’immagine del Santo con in braccio un bambino. È chiaramente un reperto cristiano, rinvenuto nello stesso luogo dov’è stato trovata la statuetta di Pazuzu: il segno di un’antica lotta tra le forze del bene e quelle del male.
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Merrin prende poi in mano l’amuleto del demone e, tra sé e sé, dice: “Il male contro il male.”, facendo riferimento alla natura apotropaica ed esorcizzante dell’oggetto [fotogramma 29]. Proprio in quel momento il pendolo alle spalle del prete cessa di oscillare [fotogramma 30] e l’uomo si volta terrorizzato, percependo la presenza di una forza occulta nella stanza [fotogramma 31]. Merrin allora si siede, come esausto, e dice all’altro individuo di doversene andare perché “c’è qualcosa che deve fare” [fotogramma 32]. Nell’inquadratura successiva vediamo i due uomini salutarsi: nel libro si limitano a stringersi la mano, nel film si abbracciano e si stringono forte, come disperatamente consapevoli che si tratti del loro ultimo incontro [fotogramma 33].
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Padre Merrin, a quel punto, comincia a vagare senza meta per la città. Lo vediamo passare in un luogo di preghiera, dove alcuni fedeli musulmani sono intenti a compiere il classico inchino di devozione. Il prete passa dietro di loro, mentre davanti ad essi, come fosse oggetto della loro adorazione, un cupo figuro col turbante è seduto nell’ombra di un arco [fotogramma 34]. In seguito vediamo Merrin camminare, sempre perso nei suoi pensieri, come in trance, in quello che sembra un oscuro bazar [fotogramma 35]. Dopo accade qualcosa di bizzarro: la cinepresa non inquadra più il prete, bensì una donna coperta da un burqa nero che, ripresa alle spalle, svolta dietro l’angolo di una strada. La macchina da presa, posta su un carrello, fa come per seguirla e anch’essa pare sbirciare dietro l’angolo, dove scorgiamo nuovamente Merrin camminare in direzione opposta rispetto alla donna [fotogrammi 36-37]. Questa scelta stilistica sembra suggerire nuovamente che l’uomo sia osservato: in questo caso chi guarda è lo spettatore, che pare osservare il prete tramite gli occhi (a parere di chi scrive si tratta dunque di un’inquadratura soggettiva) di un personaggio misterioso (il male stesso, forse), che non vedremo mai. La sensazione che il sacerdote sia guardato è poi confermata anche dall’inquadratura successiva, in cui vediamo chiaramente una donna con un velo nero spiare l’uomo affacciata da un tetto [fotogramma 38]. Padre Merrin, infine, rischia addirittura di essere investito da una carrozza, dalla quale una donna pare guardarlo spaventata, con la bocca torta in un’espressione di sconvolgimento [fotogrammi 39-40].
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Dopo la concitata scena della carrozza, lo scenario cambia ancora e si ritorna tra le rovine dell’inizio del film. Merrin vi giunge guidando una jeep e Friedkin riprende il suo arrivo in campo lungo, da dietro alcune rocce [fotogramma 41]. Nuovamente si ha la sensazione che questa inquadratura suggerisca che il prete sia osservato e ciò vale anche per una carrellata che, pochi secondi più tardi, vede l’uomo aggirarsi nel sito archeologico, mentre la cinepresa lo riprende muovendosi dietro alcune colonne, come un ente strisciante, celato alla vista [fotogramma 42]. Il silenzio in questi passaggi è assordante: non c’è musica, né rumore di vento, si odono solo i passi del sacerdote sul terreno sabbioso. Seguono due inquadrature di antiche facce statuarie (un volto umano e il muso beccuto di un rapace) che scrutano la scena, spettatori immobili ed eterni del male all’opera e di ciò che sta per verificarsi [fotogrammi 43-44]. Con uno zoom all’indietro, Friedkin ci mostra lo scenario di distruzione e desolazione in cui Merrin si trova [fotogramma 45]: è solo, quando un’ombra, accompagnata da una folata di vento (proveniente da sud-ovest, probabilmente) che spezza la quiete, oscura il suo volto [fotogramma 46].
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È Pazuzu, una cui imponente statua si frappone tra Merrin e la luce di Dio [fotogramma 47]. Il male occulta il bene. Una musica stridente diviene il sottofondo della scena. Il prete allora sale su un piccolo promontorio e Friedkin lo inquadra alle spalle, zoomando lentamente su di lui, come se – ancora una volta – un occhio celato lo guardasse da lontano [fotogramma 48]. Giunto in cima alla collinetta, Merrin si trova finalmente di fronte alla statua del demone e Friedkin lo inquadra in semi-soggettiva [fotogramma 49]. Pazuzu è rappresentato secondo la sua iconografia tradizionale, ma la zampa destra alzata in questo contesto pare quasi un gesto di saluto al nemico. Merrin, sentendosi osservato, si volta e nota un impassibile uomo con un turbante alle sue spalle [fotogramma 50] che, a ben guardare, parrebbe essere uno degli individui che lo osservavano già nella scena al bar [l’individuo a sinistra nel fotogramma 17].
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Il prete è spaventato [fotogramma 51] e la sua attenzione è richiamata dal ringhio di due cani che, poco distanti, si azzuffano come impazziti [fotogramma 52]. Questa inquadratura potrebbe essere interpretata sia come una metafora della lotta tra bene e male (i cani sono uno bianco e l’altro nero) sia come la percezione, da parte degli animali – che, si sa, si accorgono del sopraggiungere di un pericolo ben prima degli uomini –, della presenza del maligno. In ogni caso, il verso furioso delle due bestie diviene assordante e, quando l’inquadratura successiva torna a mostrare frontalmente la statua di Pazuzu [fotogramma 53], il ringhio pare provenire direttamente dalle sue fauci, peraltro aperte in una sorta di ghigno, che non può non rimandare direttamente ad alcune trasformazioni che nel corso del film subirà la piccola Regan e, più in generale, all’atteggiamento beffardo che il maligno dimostrerà più volte. L’imminente scontro tra bene e male, infine, è ufficialmente dichiarato dalla penultima inquadratura della sequenza irachena, in cui Friedkin riprende lateralmente dal basso Pazuzu e Padre Merrin che, faccia a faccia, paiono squadrarsi come gli sfidanti di un duello western, scompigliati dalla sabbia sollevata dal possente soffiare del vento di sud-ovest [fotogramma 54]. La scena si conclude con una dissolvenza sul sole del deserto [fotogramma 55], che gradualmente sfuma sul punte di Georgetown, il quartiere di Washington D.C. dove si ambienta il resto del film.
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Così si conclude la sequenza irachena de L’esorcista: un passaggio di cinema raffinatissimo e di grande stratificazione semiotica, una delle testimonianze più straordinarie dell’immane talento di William Friedkin, tra i più dimenticati e sottovalutati registi della Nuova Hollywood. Senz’altro il più truce, il più disturbante, quello che meno è sceso compromessi. La sequenza che abbiamo analizzato mette in scena un mondo in cui il male è una pestilenza endemica, un’entità antica che riemerge periodicamente dal tempo e dalle viscere della terra, per riaccendere quello scontro agghiacciante col bene che fra gli archetipi narrativi è il più eterno e ancestrale. E Friedkin per tutta la sua carriera – da Il braccio violento della legge a Vivere e morire a Los Angeles, passando per Cruising – non ha raccontato che questo.
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