Per Steven Spielberg i film sono la terapia che si è sempre risparmiato di pagare. Anche se in The Fabelmans è più evidente l’approfondimento psicologico, è dal suo debutto cinematografico nel lontano 1971 che Steven Spielberg mette a nudo i mostri del suo passato. Prima di trasformarli in grandi squali bianchi, alieni e padri assenti, venivano rappresentati da un camion assassino sulla corsia di sorpasso.

Duel segue la vicenda di David Mann, un uomo qualunque che si ritrova invischiato in un gioco mortale al gatto e topo con un camionista assassino. Sullo sfondo del deserto californiano, dopo un apparente innocuo invito al sorpasso da parte del camionista, il protagonista si rende presto conto, in una studiatissima escalation di tensione, che la persona alla guida ha tutte le intenzioni di ucciderlo.

Girato per la televisione e non per il grande schermo in undici giorni e con budget ridotto, Duel segna l’ingresso di Steven Spielberg nel mondo del cinema e lo slancio che gli servirà a raccogliere il supporto finanziario per realizzare Lo Squalo. Soprattutto, però, Steven Spielberg ha soli 25 anni appena compiuti quando gira il film, età in cui negli Stati Uniti non è nemmeno legale noleggiare un auto. È un film semplice, del resto, così semplice che la sua esecuzione risulta impossibile nelle mani della persona sbagliata. Duel ruota infatti attorno a un solo protagonista e a un solo avvenimento. Nessun particolare colpo di scena, nessuna premessa e nessuna maestosa conclusione.

I personaggi secondari sono pochi e irrilevanti, tant’è che le scene che introducono la voce moglie del protagonista sono state girate più tardi in quanto scene aggiuntive su esigenza dei produttori. Si tratta semplicemente di un esercizio di stile riuscitissimo che si sposa perfettamente con lo stile ingenuo e a tratti “infantile” che colora questo debutto.

Duel, però, non è solo questo. Il sentimento di ansiogena tensione è sintomo di un percorso di crescita turbolento, dettato da un relazione difficile con i genitori, con la religione e con la scuola. Nel caso specifico di questo film, è quest’ultima l’influenza più evidente. Steven Spielberg dichiara più spesso nelle interviste di aver subito bullismo durante il suo intero percorso scolastico. L’incessante fuga del protagonista nei confronti di un camion dal “volto” minaccioso e opprimente è metafora di un sentimento di inferiorità nei confronti dei più grandi e potenti. Il gioco tra Davide e Golia nato a scuola si trasforma nel film in una vera e propria minaccia di morte. Sono, del resto, solamente traumi non processati che prendono vita attraverso l’arte in maniera meravigliosamente drammatica.

C’è una particolare scena in Duel in cui si nota nella porta d’entrata della cabina telefonica l’immagine riflessa di Steven Spielberg che gira il film. È un momento brevissimo e difficile da notare, ma rappresenta molto più di un errore dettato dall’inesperienza. Oltre a rappresentare le condizioni economiche e tempestive sotto le quali è stata girata la pellicola (probabilmente non c’era né tempo né denaro per rigirare la scena dopo essere entrata in sala di montaggio), la scena rappresenta metaforicamente molto di più. I film di Steven Spielberg sono appunto il riflesso dello stesso regista, un riflesso che entra in profondità e rende vulnerabile l’anima dello stesso attraverso la narrazione del suo passato. Ci accompagnano durante l’infanzia nello stesso modo in cui l’infanzia li ha plasmati. Il riflesso di Steven Spielberg nella cabina telefonica rappresenta quanto c’è di umano nei suoi film, che non si limitano solo al genere fantascientifico a cui spesso appartengono, ma si avvicinano a noi spettatori attraverso narrazioni reali e sentimentali di storie e persone come noi, e nelle quali di conseguenza ci vediamo riflessi con una facilità disarmante nello stesso modo in cui lui si vede crescere e “diventare” nel riflesso di una cabina telefonica.

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Lara Ioriatti,
Redattrice.