Colto da un improvviso attacco di nostalgia, in una fredda serata di gennaio ho deciso di riguardare uno dei tanti film che aveva colorato la mia infanzia: Le 12 Fatiche di Asterix (Les douze travaux d’Asterix), diretto da René Goscinny, Albert Uderzo, Henri Gruel e Pierre Watrin nel 1976. Perla francese d’animazione con protagonisti i gallici più famosi del mondo, creati proprio da René Goscinny (padre anche di Lucky Luke) e Albert Uderzo, protagonisti della serie a fumetti capolavoro della bande dessinée ad opera di due maestri assoluti della lineachiara francese, desiderosa di rivendicare il proprio orgoglio nazionale contro l’Italia (rappresentata ovviamente dai Romani) e contro il Belgio sul piano editoriale, data la grande superiorità dimostrata da quest’ultimo nella letteratura disegnata. Le 12 Fatiche è il primo lungometraggio animato di Asterix con una storia originale non tratta da un albo a fumetti, ed è di gran lunga il più riuscito, anche per via della diretta partecipazione alla regia di Goscinny.
Chiara rivisitazione e parodia del mito di Ercole, più volte citato, con una graffiante critica alla società contemporanea (la memorabile Casa che rende Folli). Per pura curiosità personale, ho scelto di (ri)guardare questa perla in lingua originale. E qualcosa mancava. Non solo la scarsa comprensione da parte mia dei numerosissimi giochi di parole in francese e nemmeno per semplice effetto nostalgia: il doppiaggio italiano, insieme all’adattamento dei dialoghi basato sulle traduzioni degli albi a cura del grande Marcello Marchesi, era più colorato, espressivo, vivo. Non era solo fiato soffiato in un microfono, l’adattamento si accompagnava perfettamente ai disegni raffinati e lineari uniti ad un’animazione tuttavia volutamente grezza. Tutt’altra cosa rispetto al monocorde doppiaggio francese. Ma qui la domanda sorge spontanea: in un film animato, quante altre volte il doppiaggio ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione dell’opera stessa?
È inutile negare quanto negli ultimi dieci anni la visione che il pubblico ha del mondo del doppiaggio sia radicalmente cambiata. Nel ventesimo secolo questa pratica nel nostro paese era data per scontata anche nei film italiani, al punto che l’orecchio di molti spettatori meno giovani non è ancora adesso abituato a distinguere una voce in presa diretta da una voce registrata in studio e poi mixata col resto dei dialoghi, anche quando lo stacco è evidentissimo (e cacofonico). Nel ventesimo secolo la visione in lingua originale di un film straniero era riservata al circuito festivaliero e al cinefilo duro e puro. Intorno al 2010, con la crescente popolarità delle serie tv da vedere in contemporanea con gli Stati Uniti per paura degli spoiler, gli spettatori millennial hanno iniziato a cercare gli ultimi episodi di Lost e The Big Bang Theory su portali web ormai morti e divenuti mitologia pop. La pirateria è riuscita dove i DVD e i blu-ray avevano fallito: il pubblico non vuole più sentire voci preconfezionate ma gli autentici accenti americani, francesi, coreani e così via.
Il doppiaggio rapidamente diventa una pratica demonizzata. Ferruccio Amendola, Tonino Accolla e Oreste Lionello hanno lasciato questa valle di lacrime, i doppiatori viventi non sono spesso all’altezza di chi li ha preceduti e cresciuti e in un mondo globalizzato dobbiamo tutti imparare a leggere anche quando guardiamo un film.
Al netto di queste posizioni radicali, è innegabile che gran parte degli appassionati di cinema rigetta il doppiaggio, che resta il tema di dibattito principale tra il pubblico: guelfi italianisti e ghibellini atlantisti. Quando si parla di animazione, però, sembriamo uniti tutti dalla stessa bandiera.
Siamo abituati alle voci dei nostri amati personaggi e difficilmente riguarderemmo La Carica dei 101 in inglese, se non per curiosità.
Perché parlando chiaramente: il luogo comune del doppiatore italiano che è il migliore al mondo nella mente dell’italiano è alimentato da questi ricordi. Ma i fatti ci danno ragione.
Prendendo come esempio una pietra miliare dell’infanzia di ogni italiano: Gli Aristogatti. E dico “italiano” non a caso.
Ultimo Classico Disney direttamente approvato da Walt Disney in persona, contiene tutti gli elementi tipici della Disney del periodo: personaggi animali che devono tornare da un punto A ad un punto B, cattivo buffo e per niente minaccioso, disegni smatitati, umorismo a raffica. Tutto già visto e cotto in una maniera non particolarmente rifinita. Perché lo amiamo tutti? Perché ha avuto più successo tra il pubblico italiano rispetto ad un Libro della Giungla per certi versi assolutamente simile? Perché negli Usa è considerato invece poco più che una stanca copia gattara dei dalmata? È evidente che l’adattamento e il doppiaggio italiani hanno davvero rivoluzionato il film, incarnato dal personaggio di Romeo doppiato da Renzo Montagnani. È davvero superfluo a tratti individuare i motivi per cui Romeo er Mejo der Colosseo con l’accento romanaccio sia amato dagli italiani mentre quel Thomas o’ Malley the Alley Cat dall’Irlanda nella versione originale si sia perso nei ricordi degli americani. Destino comune in realtà a molti personaggi comici della Disney dagli anni ’90 in poi, e questo magari è dovuto molto alla presenza del talent (personaggio famoso chiamato a doppiare un personaggio) di turno. Dove gli americani amano lo Jago di Gilbert Gottfried e lo Zazu di Rowan Atkinson noi ridiamo a crepapelle ascoltando le voci di Anna Marchesini o di Luca & Paolo ne Le Follie dell’Imperatore, film che in America non è particolarmente amato così come un’altra scheggia impazzita come Hercules. I momenti più comici del Rinascimento Disney in Italia hanno la stessa potenza di quelli drammatici e questo è senza dubbio merito di quel colore, quell’arte di cui siamo stati sempre maestri e che si spera possa rinascere.
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