Nel marzo del 1995 il regista danese Lars von Trier lanciava una sfida radicale alla forma e all’industria cinematografica presentando, assieme al collega Thomas Vinterberg, il manifesto Dogma 95. Il documento, accompagnato da un cosiddetto “voto di castità” composto da dieci regole, mirava a purificare il cinema dalle sue sovrastrutture tecniche e narrative. L’obiettivo consisteva nel riportare la settima arte alla sua essenza, valorizzando l’immediatezza dell’immagine, la forza della storia e la verità della performance attoriale.

La genesi del Dogma affonda le sue radici nel clima culturale della Danimarca degli anni ‘90 e nella frustrazione di von Trier e Vinterberg nei confronti del cinema “mainstream”, ritenuto troppo manipolativo e artefatto. Ma per comprendere pienamente la nascita di questo movimento, occorre approfondire il percorso creativo e ideologico di Lars von Trier.

L’avversione per il cinema manistream e il “voto di castità”

Von Trier, formatosi alla National Film School di Copenaghen, aveva già guadagnato notorietà con la Trilogia dell’Europa (The Element of Crime, Epidemic, Europa), opere articolate e formalmente complesse. Pur essendo considerato già all’epoca un maestro del linguaggio visivo tuttavia von Trier iniziò a percepire la sovrastruttura estetica del cinema come una gabbia più che una risorsa. Questa profonda frustrazione lo condusse verso una ricerca di autenticità, culminata con il desiderio di una “riforma” radicale del mezzo cinematografico. La sua esperienza con il piccolo schermo – in particolare la serie The Kingdom (1994) – fu determinante per il passaggio a uno stile più immediato, basato su camera a mano e montaggio essenziale. Parallelamente, Thomas Vinterberg era allora un giovane regista emergente che condivideva la stessa insofferenza per la spettacolarizzazione e l’artificialità del cinema “commerciale”. Il loro incontro fu fondamentale: entrambi desideravano rimettere al centro l’uomo e la sua verità emotiva, rinunciando a ogni comfort tecnologico per inseguire un’essenzialità quasi ascetica. Durante un seminario a Parigi organizzato per il centenario del cinema, von Trier colse l’occasione per distribuire copie del manifesto, redatto insieme a Vinterberg e altri registi danesi (Kristian Levring e Søren Kragh-Jacobsen). Se la provocazione fu accolta inizialmente con perplessità, ben presto attirò l’attenzione internazionale.

Il “voto di castità” imponeva restrizioni severe: si poteva girare solo in location reali, senza scenografie aggiunte; la colonna sonora doveva essere interna alla scena; la macchina da presa doveva essere a mano; e ogni effetto artificiale, dalla luce all’azione di genere, era vietato. Questa “dimensione visiva ascetica” avrebbe dovuto impedire all’autore di dominare l’opera, esaltando invece la realtà e l’autenticità. Il manifesto in realtà, pur essendo scritto in tono perentorio nascondeva una vena ironica e performativa: von Trier stesso ne riconosceva l’ambiguità, definendolo “più un gesto provocatorio che un’ideologia”.

Il primo film ufficiale Dogma fu Festen (1998) di Vinterberg, una narrazione familiare densa di tensione e segreti, seguita da The Idiots (1998) di von Trier, più radicale e provocatorio. Entrambi i film incarnavano in modi diversi l’etica Dogma: se il primo metteva in scena un dramma realista sfruttando appieno l’estetica Dogma, il secondo spingeva il manifesto al limite, con scene disturbanti e improvvisate, in cui la rappresentazione dell’anomalia e del corpo diventava un gesto politico ed estetico insieme. La ricezione critica fu divisa: se Vinterberg ottenne riconoscimenti internazionali (Premio della giuria a Cannes), von Trier fu accusato di cinismo e provocazione gratuita, segno che l’applicazione del Dogma era tutt’altro che neutra.

Lo sviluppo del movimento e la sua fine

In seguito, il movimento si diffuse rapidamente. Tra il 1998 e il 2005 furono realizzati diversi film certificati Dogma, provenienti da diversi paesi e firmati anche da autori meno noti, come Jean-Marc Barr, Harmony Korine e Susanne Bier. La comunità Dogma era eterogenea, ma accomunata dalla volontà di rompere con i canoni dominanti e dalla fiducia nella potenza della semplicità formale. La rigidità delle regole funzionava da innesco creativo: l’assenza di artifici stimolava una nuova grammatica, fatta di imperfezioni, sguardi traballanti, attori messi a nudo anche emotivamente. Non mancavano però le contraddizioni. La certificazione Dogma, con tanto di numero progressivo e firma dei fondatori, suggeriva un’autorità che cozzava con lo spirito anti-istituzionale del manifesto. Alcuni film violavano apertamente le regole pur mantenendo il marchio Dogma, a conferma della natura ambigua del progetto. Già nei primi anni 2000, molti registi, inclusi von Trier e Vinterberg, iniziarono a disattendere apertamente le restrizioni. In una celebre intervista, von Trier dichiarò che “l’autore può anche barare, ma deve sentire il peso della sua colpa”.

Nel 2005, a dieci anni dalla nascita, il movimento venne dichiarato ufficialmente concluso. Ma la sua importanza va ben oltre la durata cronologica. Dogma 95 può essere letto come un esperimento estetico e ideologico, più che come una vera scuola o corrente. Nonostante la sua breve durata, ha lasciato un’impronta profonda sul cinema indipendente e digitale: ha anticipato lo stile raw di molte opere successive, valorizzando l’uso della camera a mano, della luce naturale e della messa in scena verosimile. Ha anche riacceso il dibattito sul ruolo dell’autore e sull’etica della rappresentazione, soprattutto in un momento storico in cui il digitale stava trasformando radicalmente la produzione e la distribuzione cinematografica. Molti registi contemporanei, pur senza aderire formalmente al manifesto, hanno assorbito la lezione del Dogma. Le influenze si ritrovano nel cinema dei Dardenne, nel primo Andrea Arnold, nel realismo sporco di Sean Baker o nei mockumentary che sfumano i confini tra finzione e realtà. 

A trent’anni di distanza, Dogma 95 continua a essere oggetto di studio e discussione. La sua eredità risiede non tanto nella fedeltà a un codice rigido, quanto nella tensione verso un cinema più vero, più vicino all’uomo e alla sua imperfezione. Un cinema che osa spogliarsi di tutto, per raccontare ciò che resta: il conflitto, il volto, la parola. Come ogni utopia, anche Dogma 95 ha conosciuto i suoi limiti e le sue contraddizioni, ma ha saputo scuotere il linguaggio filmico e porre domande ancora attuali sulla natura e sulla funzione del fare cinema. La parabola del Dogma può allora essere vista come un tentativo, affascinante e radicale, di ridare senso al cinema in un’epoca di sovrapproduzione e di immagini sovraccariche. Come ogni manifesto, ha funzionato più come scintilla che come modello, generando fermento e riflessione più che imitazione. Ed è forse in questa instabilità, in questa tensione mai del tutto risolta tra norma e libertà, che risiede il suo valore più duraturo.

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Gaia Fanelli,
Redattrice.