«Per la prima volta nella sua storia, il Centro Sperimentale di Cinematografia esce dalla consueta clausura e apre le porte a tutti» con queste parole il presidente Sergio Castellitto inaugura la rassegna culturale e cinematografica intitolata «Diaspora degli artisti in guerra» che si è svolta a Roma dal 19 al 21 giugno. Alla tre giorni hanno partecipato oltre 500 persone tra studenti e personalità legate al cinema, con ospiti decine di scrittori e registi provenienti da tutto il mondo, fra cui Aleksandr Sokurov, David Grossman e Hagai Levi.
Ognuna delle tre giornate prevedeva diverse proiezioni, introdotte da Castellitto e dislocate nelle sale principali del CSC, una sorta di tempio del film a due passi da Cinecittà; ogni proiezione accompagnata dagli incontri con gli autori, entusiasti di raccontare la propria prospettiva a platee di studenti e cultori di cinema. In questo momento, al mondo, ci sono oltre 50 conflitti, «noi offriamo un microfono a chiunque abbia voglia raccontarci il suo punto di vista» annuncia Castellitto.
Quindi i testimoni partecipanti provengono dall’Ucraina e da Israele e Palestina, ma anche dall’Africa, dal Medio Oriente e dai Balcani, e dibattono su ampi orizzonti: conflitti, nazionalismi, guerre civili, dittature, genocidi, religione, memoria. La ricerca che accomunava tutti i coinvolti sta nella domanda posta all’inizio della prima giornata dal regista libanese Khalil Joreige: «che cosa può fare il cinema per la guerra?». E più ampiamente: qual è il ruolo dell’arte nel conflitto?
19 giugno – La diaspora dei cineasti
Si comincia la prima giornata con Klondike, della regista ucraina naturalizzata turca Maryna Er Gorbach, giovane e dallo sguardo malinconico, che per questo film ha vinto il premio internazionale alla regia al Festival di Sundance 2022. Il Klondike, la terra dell’oro canadese, nel film diventa il Donbass nel 2014, all’indomani dell’abbattimento dell’aereo civile MH14 da parte delle forze separatiste. E racconta la storia di una famiglia confinata nello spazio e nelle scelte dalla minaccia incombente.
Nella forma di scontro locale che contraddistingueva quella fase precoce del conflitto Russia-Ucraina, si materializza una storia di dolore universale intorno ai difficili legami tra i protagonisti: una volitiva moglie incinta, un marito antipatico ma spaventato e impotente, e il fratello di lei che ha ideologie opposte. E lo sguardo della regista adopera come veicolo la tenerezza, insistendo sulle relazioni e sulle emozioni che vuole trasferire al pubblico, attraverso “blocchi” di ripresa in piano sequenza che ci avvicinano e allontanano dalle angosce dei protagonisti.
Inizia la proiezione di Daratt, Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia 2006, un film sulle conseguenze della guerra, e più specificamente la storia di un giovane del Ciad che cerca l’assassino del padre per vendicarsi. Ma la guerra civile ha portato via qualcosa a tutti, e nascerà una nuova inaspettata relazione tra reo ed esecutore, tra vittima e carnefice. Daratt è molto ispirato sul piano visivo, con immagini mozzafiato che l’autore riconduce ad una concezione dell’immagine cinematografica come affine all’arte pittorica. Anche sul piano dei contenuti e della messinscena ha significati profondi, basati soprattutto sul silenzio e sullo spazio vuoto. Il punto finale è domandarsi se uccidere una persona possa essere giusto.
Il regista Mahamat-Saleh Haroun è una figura di riferimento per il cinema africano, eppure è parso clamorosamente inconsapevole dei significati anzitutto del proprio film, che anzi riduce e demistifica (e certamente non per modestia). Riferimenti visivi attraenti e temi lirici sembrano, dalle sue parole, basati esclusivamente su fatti che ha visto in strada. Chissà, forse è un genio ingenuo, troppo avanti persino per se stesso: meno male che esiste la critica (che, tra parentesi, come ricorda la moderatrice, fu criticata aspramente dal regista in occasioni passate).
Verso fine giornata il cardinale Gianfranco Ravasi (referente culturale del Vaticano) tiene una lectio magistralis intitolata L’arte oltre la bufera del male e basata sul film Andrej Rublev di Tarkovskij, ma che spazia tra infiniti spunti culturali, da Dostoevskij a Steve Jobs, dalla Genesi alla Congiura di Catilina di Sallustio.
L’ultimo incontro del primo giorno è un dialogo tra due intellettuali: Margaret Mazzantini, attrice e autrice, intervista lo scrittore israeliano David Grossman, che parla apertamente del conflitto israeliano palestinese. Pone due inviti alla platea: ai giovani consiglia di non essere cinici perché il cinismo avvelena se stessi; a tutti dice che è indispensabile «descrivere il conflitto con parole nuove» perché se cambia il mondo non può restare bloccato l’artista.
20 giugno – Lo sguardo del cinema italiano sulle guerre
Sergio Castellitto apre la seconda giornata lodando i cineasti italiani che si sono recati in quei luoghi tormentati da conflitti e crisi umanitarie. La prima pellicola della giornata è il documentario Guerra e pace, dedicato agli archivi cinematografici di guerra. Il tema promesso, apparentemente astratto e complesso, si realizza in un documentario effettivamente lungo e stratificato, ma ben articolato e coeso nell’impianto di svolgimento (forse un po’ meno nella selezione dei contenuti). In quattro parti, si dispiega la storia dell’archiviazione cinematografica adottando come materia principale il found footage film.
Il racconto dei registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti mette in luce come e dove sia stato reperito e articolato il materiale, ma soprattutto espone una personale concezione del cinema come registrazione attiva della realtà, in questo caso anche un racconto della storia della diplomazia e dell’uso dei media. E i due autori rivelano anche un modo di “vivere” la produzione cinematografica in totale autonomia da produttori e collaboratori, con i lati positivi e negativi che ne conseguono.
Il documentario Isis Tomorrow – The Lost Souls of Mosul inscena il disperato dopoguerra vissuto dai bambini, ormai già adolescenti, che sono rimasti orfani dei miliziani dell’Isis. È facile giudicare il terrorista, ma chi sta nel mezzo? La regista Francesca Mannocchi narra alcuni aneddoti sullo svolgimento delle riprese e insiste sulla sensibilità indispensabile per entrare in relazione con quelli che sono sia testimoni sia protagonisti della storia.
«Durante la guerra tutti vogliono raccontare — spiega Mannocchi — ma immediatamente dopo nessuno vuole più parlarne» e ci sono voluti due anni e molti viaggi in Iraq per radunare tutte le testimonianze. «Tutto quel che vediamo ci scuote ma non ci appartiene»: infatti, se non fosse intervenuto l’Occidente, la storia sarebbe proceduta diversamente. I bambini e le famiglie dei miliziani dell’Isis vivono ancora segregati e allontanati, pagando per colpe non commesse.
L’ultimo incontro della giornata è con gli attivisti Rami Elhman e Bassam Aramin, ebreo uno e palestinese l’altro. Entrambi hanno perso una figlia negli attentati dell’altra parte, eppure si presentano insieme e come amici in tutto il mondo per sostenere la pace. È inutile prendere parti perché «non ci sono vie diverse dalla pace, la pace è l’unica via».
21 giugno – Nei paesi in guerra
L’ultima giornata prende il via con una conferenza di Hagai Levi, sceneggiatore israeliano ideatore di importanti produzioni televisive come BeTipul (adattata in varie parti del mondo, inclusa l’Italia con In Treatment che ha Sergio Castellitto per protagonista) e Scene da un matrimonio (con Jessica Chastain e Oscar Isaac). Levi ripercorre la propria vita: le origini italiane, la giovinezza in un Kibbutz che mescola religione ebraica e ideologia socialista, la responsabilità di selezionare e proiettare i film per la comunità, la carriera in televisione e la collaborazione con HBO.
A settembre inizierà le riprese di un nuovo progetto, un period drama politico ambientato ad Amsterdam nel 1941 e basato sul diario di una giovane donna ebrea. Sarà girata prendendo decisioni radicali, con un setting contemporaneo che potrebbe confondere ma parlerà più direttamente al pubblico. Levi commenta anche la situazione del suo paese: «non si può fuggire per un privilegio, ma bisogna essere solidali con la comunità», eppure, in questo momento per la prima volta, sta valutando di trasferirsi con la famiglia in Italia, perché sembra inutile nutrire speranze in una soluzione rapida e favorevole.
Una delle pellicole più attese della kermesse è stata Kafka a Teheran, già presentato a Cannes 2023, cui è seguito un lungo e intenso dibattito con l’affabile regista iraniano Ali Asgari. Il film è una raccolta di nove cortometraggi in piano sequenza e a camera fissa che presentano nove episodi di vita comune nei quali altrettanti protagonisti si trovano a scontrarsi con istituzioni opprimenti e ottuse. Mentre il titolo originale (Terrestrial Verses) rinvia alla poesia iraniana, che è una direttrice sottostante a tutti gli episodi, l’italiano Kafka a Teheran evidenzia la condizione di repressione da parte di un agente superiore arcano ed incomprensibile.
L’autore contestualizza la difficoltà della produzione cinematografica in Iran («esiste solo il cinema commerciale, i film indipendenti sono film clandestini») e della conseguente decisione di girare in pochi giorni e senza autorizzazione. L’aspect ratio in 4:3 veicola il senso di oppressione causato da una burocrazia ingombrante al servizio del potere. La limitazione crea l’arte, e il regista invita tutti quanti a fare un passo avanti, scrivendo e realizzando qualsiasi cosa che possa creare un mondo migliore.
Segue la proiezione di Quo vadis, Aida?, candidato all’Oscar al Miglior film internazionale nel 2021 per Bosnia ed Erzegovina. La vicenda riguarda il genocidio perpetrato dalle milizie serbe nel 1995 nella città di Srebrenica; il punto di vista è quello di Aida, una traduttrice delle Nazioni Unite, moglie e madre, che cerca di salvare la sua famiglia e il suo popolo da un destino inesorabile. Aida è un’Antigone che lotta tra regole e volontà, e il suo nome viene dalla parola araba per il ritorno, che era il cuore del film.
La regista Jasmila Žbanić viene accolta dall’applauso commosso del pubblico per un’opera sontuosa e profondamente drammatica. «Avevo 17 anni quando ho vissuto l’assedio di Sarajevo e ho subito capito che dietro ai conflitti ci sono sempre logiche di profitto» a vantaggio delle élite. Eppure è stato importante trovare il modo di rendere questa storia comprensibile a tutti, anche a chi non conosce i fatti (che il governo serbo tutt’oggi nega). L’autrice rimarca il suo sguardo femminile scegliendo di mostrare non la violenza ma le sue conseguenze, eliminando del tutto l’eroismo che viene, secondo lei, dalla prospettiva di registi uomini: «per me sono stronzate».
Il gran finale della manifestazione prevede una proiezione di Fairytale di Aleksandr Sokurov e un dialogo con il visionario maestro russo, che introduce la visione spiegando che sono stati creati nuovi software per generare le immagini del film, secondo uno studio dei mezzi del linguaggio cinematografico da sempre caratteristico del cinema russo. Stalin, Hitler, Mussolini e Churchill si aggirano spaesati davanti ai cancelli del cielo. Si confrontano, si scherniscono, ripercorrono relazioni personali e diplomatiche, proclamano ideali e ricordano le folle inebrianti. L’ambiente è un universo estetico bianco e nero ispirato ad architetture rinascimentali e alla Divina Commedia nel quale i grandi uomini di potere si riducono a semplici figure umane ridicole e ansiose per il giudizio universale.
«La storia si conosce attraverso i caratteri», che si comprendono grazie ai mezzi dell’arte. È fondamentale, per Sokurov, interrogarsi sul passato senza rifiutarlo acriticamente:«sarebbe stato bello se il nazismo fosse venuto da un altro pianeta, ma è una malattia della natura umana, con aspetto e azioni di un uomo: e infatti ha avuto impatto perché faceva appello a qualità umane». Fairytale, ci tiene a sottolineare il regista, permette di vedere che «il contenuto è più importante della forma»; siccome coi mezzi contemporanei tutto è possibile e la forma non è più un problema, l’invito ai cineasti del futuro è di perseguire il cosa più che il come, perché «il contenuto è la base del mestiere».
La manifestazione si chiude quindi con parole di incoraggiamento e di ispirazione per il cinema che verrà. Le guerre proseguono ma il cinema resta un punto di riferimento, un luogo di pensiero e azione che fissa momenti e li rielabora, consegnando alla storia istantanee che possono indicare come percepire il mondo nel presente, nel passato e nel futuro. Che cosa può fare, dunque, il cinema per la guerra? Come ha suggerito qualcuno in questi giorni citando Henry Miller: «L’arte non insegna nulla, eccetto il significato della vita».

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