[IL PRESENTE ARTICOLO CONTIENE SPOILER DEI FILM IN OGGETTO]
Nel classico noir La donna del ritratto, di Fritz Lang, il protagonista Richard Wanley vive sulla propria pelle un’esperienza in qualche modo paragonabile a quanto lo spettatore sperimenta di fronte a un film noir. Il benestante e altoborghese “uomo comune” finisce catturato nelle spire di una storia sempre più torbida e oscura, un angoscioso labirinto di amanti gelosi e procuratori alla ricerca implacabile della verità che si stringe attorno al protagonista come un cappio. Alla fine dell’avventura il professore può tirare un sospiro di sollievo quando scopre che tutta questa vicenda è solamente un sogno. Ma l’inquietudine permane anche da sveglio: il sogno è così verosimile perché trova le radici nei desideri repressi del protagonista, nel suo lato più oscuro.
Una delle principali caratteristiche del noir come stile è proprio questo: la perenne inquietudine, lo sguardo obliquo, il perenne sbilanciamento tra giusto o sbagliato nei suoi stessi protagonisti. In un poliziesco classico o in un film di gangster, bene e male tendono a ricadere in maniera piuttosto netta. Il noir è fatto di sfumature, vive di una profonda incertezza.
Tale prospettiva, per sua stessa natura, contraddice spesso e volentieri la presunta integrità morale della figura centrale – tipicamente maschile – del genere crime o poliziesco. Il protagonista del noir raramente finisce il suo arco narrativo da vincitore assoluto: molto più spesso ne esce sconfitto in qualche misura, vittima di rovesciamenti della sorte, dell’altrui volontà o dei propri difetti fatali, come Joe Gillis in Viale del tramonto o Jeff Bailey in Le catene della colpa – di cui si è parlato nel più recente episodio di Strade perdute – . In alternativa, pur terminando il suo arco narrativo da vincitore, ne esce comunque toccato nelle sue convinzioni più radicate, come Holly Martins in Il terzo uomo o il sergente Dave Bannion in Il grande caldo.
Quello del perdente non è un archetipo, né vuole essere un modo di definire il protagonista tipico del noir. È una finestra interpretativa, un modo per definire l’essenza dello stile, il suo intrinseco pessimismo, lo sguardo critico del noir: uno sguardo in un’umanità oscura ma così vicina a noi che potrebbe essere tranquillamente fuori dalla nostra porta.
I ladri di Giungla d’asfalto – Uomini dall’altra parte della legge
“One way or another, we all work for our vice”
La prospettiva dalla parte dei criminali non è prerogativa dei soli gangster movie. Le vicende di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang – precursore di buona parte degli stilemi e temi del genere – toccano per buona parte un “mondo parallelo” fatto di delinquenti e di prostitute: una città sotto la città, con le proprie leggi e una concezione personale di giustizia e di colpa. Una simile ricostruzione urbana è anche al centro del classico caper movie Giungla d’asfalto, di John Huston. Se nel suo primo capolavoro noir, Il mistero del falco, il protagonista era il sarcastico detective Sam Spade, in Giungla d’asfalto la prospettiva viene rovesciata dall’altra parte della legge: nello specifico, dalla parte di una banda di rapinatori, riuniti dal “dottor” Riedenschneider (Sam Jaffe), per tentare il furto di un carico di gioielli da rivendere a un ricettatore.
Il furto viene progettato ed eseguito nei minimi dettagli, grazie anche alla determinazione dei rapinatori, in particolare del braccio armato Dick (Sterling Hayden), e svolto con cura. I problemi arrivano in seguito, a causa della somma dei vizi di ciascuno dei membri della banda, mossi da eccessiva ambizione, gelosia o semplice sbadataggine. La città parallela vive di leggi proprie, ma passioni e difetti umani sono sempre gli stessi, in ogni classe sociale o ambiente che sia.
Il fallimento del colpo sarà l’elemento centrale degli heist movies, tra cui Rapina a mano armata di Stanley Kubrick. La differenza, tuttavia, sta nello sguardo pienamente umanista che John Huston riserva ai suoi personaggi: se l’occhio da regista di Kubrick è, come sempre, spietatamente lucido nella disamina di vizi e crudeltà umane, John Huston non smette neanche per un secondo di guardare agli errori dei suoi personaggi, anche per quelli più spregevoli, con un senso di pietà. La banda di falliti di Huston è destinata alla sconfitta; ma quando questa arriva, ciascuno la affronta a testa alta e con uno profondo stoicismo.
Il detective privato di Il lungo addio – L’archetipo di un’altra epoca
“Well that’s you, Marlowe. You’ll never learn, you’re a born loser.”
Il noir è da sempre particolarmente adatto a rispecchiare inquietudini e umori della propria epoca. Se il noir classico restituisce un clima di perpetua trasformazione sociale ed economica, il neo-noir è a sua volta veicolo ideale per riflettere sul profondo pessimismo della sua epoca. E da qui arriviamo agli anni Settanta: le illusioni di innocenza e di eccezionalismo dell’America sono morte da tempo, con la guerra in Vietnam e l’uccisione di Kennedy, e quel che resta nel cinema noir è un paesaggio urbano desolato e spietatamente cinico.
Pochi personaggi, in questo senso, sono più emblematici di Travis Bickle: il tassista interpretato da Robert de Niro, rabbioso e alienato antieroe, è la perfetta incarnazione di un crisi delle coscienze e del lato più violento dell’uomo e dell’America. Ma questa tendenza si può ritrovare anche nella tradizionale figura del detective privato, trapiantata dal noir tradizionale in questo clima di rinnovata sfiducia. L’esempio più celebre nell’immaginario collettivo è rappresentato dal detective Jake Gitties, interpretato da Jack Nicholson in Chinatown, ma è ben presente anche nella rigenerata figura di un detective letterario quale è Philip Marlowe. L’investigatore creato da Raymond Chandler era già stato portato al cinema da numerosi interpreti – tra cui Bogart in Il grande sonno e da Robert Mitchum con una prova sottovalutata in Marlowe – Poliziotto privato-, ma trova una nuova incarnazione ne Il lungo addio di Robert Altman.
La sceneggiatura, scritta da Leigh Brackett, è in parte trasposizione dell’omonimo romanzo e in parte satira dell’intero filone hard-boiled e del noir classico. Il detective privato “classico” era a quel punto un cliché che sceneggiatrice e regista decidono di sovvertire, rendendo il detective, qui interpretato da Eliott Gould, un uomo fuori dal tempo, completamente scollegato dalla propria epoca. Il complicato doppio caso in cui viene invischiato “Rip Van Marlowe”, come venne soprannominato da Robert Altman, lo porta a zonzo per una Los Angeles in cui sembra perennemente incastrato per errore, nel tentativo di ripulire il nome del suo amico, Terry Lennox, accusato del brutale omicidio della moglie. Ma l’onestà di Marlowe è un disvalore nella società attorno cui gravita e da cui viene preso per il naso ad ogni occasione, perfino dal suo gatto. La maggior parte delle persone coinvolte nel caso si approfittano di lui, compreso lo stesso Terry Lennox, che Marlowe scopre essere tutt’altro che innocente.
Ma se in Chinatown Jake Gitties si rende conto troppo tardi dell’ineluttabilità del Male che lo circonda, e tutto ciò che riesce a contrapporvi è una dolente presa di coscienza (“Lascia perdere, Jake: è Chinatown”), la sconfitta dell’onesto investigatore privato ne Il lungo addio ha la forma di un beffardo rovesciamento: Marlowe fredda con un colpo di pistola il suo ex-amico omicida, e si allontana a passo di danza seguendo le note di una vecchia canzone, eternamente coerente con sé stesso, eternamente fuori tempo massimo.
Gli studenti di Brick – Il teatro dei rapporti sociali
Un esempio forse meno noto di neo-noir nel terzo millennio è Brick, esordio alla regia di Rian Johnson datato 2005. Il neo-noir di Johnson è un aperto omaggio, sul filo della parodia, al cinema e alla narrativa di genere – in particolare al padre dell’hard-boiled Dashiell Hammett -, ambientato in un liceo degli Stati Uniti. L’investigatore improvvisato è infatti lo studente Brendan (Joseph Gordon-Levitt) che, impegnato a indagare sulla scomparsa della sua ex fidanzata, scoperchia un giro di spaccio che coinvolge la comunità locale e un segreto signore della droga soprannominato “il perno”.
Gli adulti e le figure d’autorità in Brick sono quasi del tutto assenti. Detective, poliziotti o femmes fatales sono sostituiti da nerd introversi, cheerleaders e ottusi giocatori di football, ma Rian Johnson fa di più che accostare i clichè del teen drama a quelli del noir: costruisce un microcosmo di ragazzi che imitano gesti, frasi e modi di fare delle controparti adulte e, nel farlo, ne replicano in piccolo stereotipi e schemi di comportamento. La soluzione del mistero arriva e giustizia viene fatta, ma è una vittoria amara per il suo protagonista. La scoperta della verità e la risoluzione del caso conta meno del progressivo svelamento delle debolezze di un certo tipo di protagonista: alla perdita, come si diceva sopra, delle sue convinzioni più radicate; del suo status di eroe infallibile.
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