“I am so glad I met you” [sono così grato di averti incontrato]: con queste parole il compositore Justin Hurwitz si rivolge al regista Damien Chazelle nel suo discorso di accettazione dell’Oscar per la Migliore Colonna Sonora di La La Land (2016). Così come Nino Rota e Federico Fellini, Danny Elfman e Tim Burton, Ennio Morricone e Sergio Leone, Steven Spielberg e John Williams – e molti altri – il sodalizio artistico tra Hurwitz e Chazelle ha assunto particolare rilievo nel cinema contemporaneo.
Compagni di stanza durante i loro anni di studio all’Università di Harvard, il compositore e il cineasta iniziano la loro collaborazione con il film di laurea di quest’ultimo, Guy and Madeline on a Park Bench (2009): la stima reciproca li vedrà lavorare insieme anche per tutti i successivi lungometraggi di Chazelle, da Whiplash (2014) a Babylon (2023). Damien Chazelle, che da giovanissimo sognava di sbancare il lunario diventando un batterista jazz – ambizione abbandonata quando si rende conto di non avere abbastanza talento come musicista – ha saputo parlarci di quella passione archiviata nel cassetto dei sogni. La sua chimera si disvela in ogni suo film: da un lato, essa si compenetra con il montaggio generando un’unica armonia, una partitura comune seguita da suono e immagini; dall’altro, la musica come devozione s’incarna in un personaggio (non necessariamente il protagonista) che ha il compito di palesare, nel corso della narrazione, la sua assoluta abnegazione verso la musica – ma non solo.
Whiplash: zitto e suona
La musica è una vocazione che non prevede compromessi, se non quelli necessari per poterla alimentare: così come il film non può sussistere senza musica (in quanto compenetrato con il montaggio à la Chazelle), Andrew Neiman, protagonista di Whiplash, non può vivere senza la musica. Secondo lungometraggio del regista – ma il primo realizzato per il grande pubblico – Whiplash è un film complesso (e controverso) sotto diversi aspetti, del quale abbiamo ampiamente parlato in questo articolo.
Il ritmo febbricitante del montaggio è determinato dai brani jazz performati da Andrew ed eseguiti dalla band del conservatorio Shaffer di Manhattan nella quale suona sotto la direzione del dispotico Terence Fletcher. La musica è la ragion d’essere del film: lo spettatore si ritrova sovrastato dalla colonna sonora, che in Whiplash assume un significato ulteriore in quanto incorpora non solo i brani musicali, ma anche tutto il comparto sonoro nel quale alle urla dei protagonisti fa eco il suono della batteria di Andrew. Quella del protagonista è una devozione quasi religiosa, una dedizione che non può essere intesa né spiegata: per questo Andrew evita di parlare del suo percorso di batterista ai parenti durante un’anonima cena di famiglia; e per questo egli abortisce una relazione amorosa che, ai suoi occhi, pare un accessorio altamente superfluo. Il rigore di Andrew si esplicita nella pervasività dei brani musicali, da Whiplash a Caravan, che vengono performati ripetutamente nel corso della narrazione. Così come il ragazzo è assorto nella sua musica, il ritmo del montaggio è determinato dalla stessa musica, dall’Overture fino alla travolgente improvvisazione finale: è una frenesia, quella del montaggio, che riflette l’inquietudine di Andrew e che pervade l’intera pellicola.
La La Land (2016): splendori e miserie del musical
A lungo si è elogiato La La Land, film che ha consentito a Chazelle di sbancare il lunario, di essere una ventata d’aria fresca nel musical. Tuttavia, l’effetto che produce è oltremodo gioioso, rispetto ai più celebri film del genere: La La Land è un film malinconico che riflette sulla “morte del musical”, o per meglio dire sul disincanto di un pubblico (quello contemporaneo) che è ben cosciente dell’artificiosità della “gioia” caratterizzante i musical “di un tempo”. La colonna sonora composta da Hurwitz è pervasiva, articolata, e mostra come la lezione dei grandi compositori sia stata appresa e metabolizzata. Nonostante pezzi gioiosi come Another day of sun, lo scopo è necessariamente un altro. Con questo film, dunque, Chazelle ci narra – attraverso la storia d’amore fra Sebastian e Mia – del suo percorso di demitizzazione di tal genere cinematografico, di un esperimento scientifico che ha prodotto come risultato l’incompatibilità fra il mondo reale e il mondo del musical cinematografico.
Questo processo di demistificazione coinvolge, fra tutti, il jazzista Sebastian: al suo vigore formale – che ricorda, inevitabilmente, quello di Andrew – si contrappongono le bollette da pagare, le scadenze, e il desiderio di aprire il locale dei suoi sogni, anche a costo di scendere a compromessi con il jazz. La malinconia di Sebastian è resa evidente dalle due tracce musicali, eseguite al pianoforte, che caratterizzano la sua presenza sulla scena: Mia and Sebastian’s Theme, un lento che muta in un virtuosismo jazz, e City of Stars, brano che unisce le aspettative dei due protagonisti e il senso di malinconia generato dalla “città delle stelle”. La devozione di Sebastian verso la musica non è quella di Mia, che è devota alla recitazione: tuttavia, La La Land in quanto musical cinematografico consente ai due di incontrarsi idealmente a metà strada, attraverso l’unico genere che consente la coesistenza di ambedue le vocazioni in egual misura.
First Man – Il primo uomo (2018): il senso dell’esistenza e il senso della musica
First Man è un film anomalo, se si osserva la filmografia di Damien Chazelle nella sua interezza: è la storia romanzata del primo uomo che ha messo piede sulla Luna, Neil Armstrong, e del percorso che ha condotto la Nasa a compiere quel piccolo passo per l’uomo, ma grande per l’umanità. Se da un lato ricorre il tema dell’ossessione del successo – da parte di Neil, così come Andrew, Sebastian e Mia – dall’altro First Man è un lungometraggio che pone al centro della narrazione il dramma esistenziale dell’astronauta conseguente la morte della figlia. È un film nel quale all’intimità del protagonista si contrappone l’ambiente sterile della Nasa, una casa nella quale si tenta di “risolvere in fretta” il lutto, una cerchia di amicizie che subiscono sulla propria pelle il prezzo del successo.
E la musica? Come convive lo stile eclettico di Hurwitz in un film biografico che racconta l’impresa di un uomo in crisi? Il compositore si adatta in questo inedito spazio narrativo scrivendo bravi che possiamo suddividere in due categorie. Da un lato ci sono composizioni come X-15 o First to Dock, tracce che descrivono, in termini musicali, le difficoltà della missione aerospaziale, prediligendo toni cupi e inserendo elementi “meccanici” come il ticchettare di un orologio. La seconda categoria comprende quelle tracce che indagano l’interiorità di Neil Armstrong, come Armstrong Cabin, Crater e Quarantine, tutte elaborate sullo stesso tema, una sorta di ninnananna eseguita da un’arpa e da uno strumento inconsueto, il theremin, la cui scelta da parte di Hutwitz non è assolutamente casuale. Da un lato, il suono prodotto dal theremin – basato su oscillatori che, lavorando in isofrequenza al di fuori dello spettro udibile, producono dei suoni sul principio fisico del battimento nel campo delle frequenze udibili – è un chiaro rimando a tutto quell’immaginario sonoro dell’”extra-terrestre”, della creatura aliena così come viene rappresentata nei film anni Cinquanta e Sessanta. Dall’altro lato, il theremin presuppone che il musicista non entri mai in contatto con lo strumento, che può solamente allontanare e avvicinare le mani all’antenna per modificare il suono: in questo senso, lo strumento si fa perfetta metafora della condizione di alienazione di Neil, di distacco psicofisico dalla realtà dopo la morte della figlia, e di un distanziamento permanente dopo il suo ritorno sulla Terra; ciò che ha visto e vissuto fa di lui un individuo alieno, e le parole non potranno mai esprimere con chiarezza la sua condizione.
Babylon (2022): nessun compromesso
Babylon, ultima fatica di Damien Chazelle che ha riscosso giudizi contrastanti da critica e pubblico: è un’opera magniloquente, senza freni, schizofrenica ma al contempo capace di esprimere a chiare quale sia il punto di vista del regista rispetto al senso del cinema, secondo una prospettiva che guarda sia al passato che al futuro della Settima Arte. La colonna sonora di Justin Hutwitz è la vera “colonna” del lungometraggio, in senso figurato: la varietà di brani, da Voodoo Mama a Jub Jub, dal tema di Manny e Nellie fino alle variazioni sul tema di Gold Coast Rhythm, riflette da un lato l’eccentricità delle vicende narrate in una Hollywood senza freni, dall’altro la fragilità degli individui rispetto a cambiamenti improvvisi, sia nel sistema produttivo americano (con l’avvento del sonoro), sia nella società (rappresentati dal sadico James McKay).
Tuttavia, ai fini del nostro discorso, vogliamo soffermarci su una figura secondaria del film, la cui limitata presenza scenica sortisce, altresì, una riflessione profonda sulla musica e sulla necessità di non disunirsi (consentite a chi scrive questo “prestito” all’opera di Paolo Sorrentino). Sidney Palmer è un trombettista jazz afroamericano: di notte indossa un frac e suona presso le sfrenate feste di ricchi produttori hollywoodiani; di giorno vive in una misera stanza condivisa con altre persone, e dorme su due sedie, coprendosi gli occhi con il proprio cappello. Per lui, l’avvento del sonoro non rappresenta una disgrazia, bensì una manna dal cielo: la sua tromba, magicamente, diviene importante sullo schermo, facendo di lui una star. Tuttavia, l’incantesimo si esaurisce nel momento in cui viene chiesto a Sidney di disunirsi: durante le riprese di un film gli viene chiesto di colorarsi il viso con una tintura scura, al fine di diminuire il “contrasto cromatico” con gli altri musicisti neri che, a detta dei produttori, appaiono “più neri” di lui sullo schermo, il che potrebbe generare malcontento fra il pubblico. Sidney acconsente, per consentire agli addetti ai lavori di guadagnarsi la paga quotidiana; successivamente abbandona Hollywood, torna a suonare la sua tromba in piccoli locali di periferia, libero da ipocrisie e pregiudizi. Sidney rappresenta il musicista che non scende a compromessi che, esattamente come Andrew Neiman (ma senza la sua vena ossessiva nei confronti del suo strumento), sceglie di porre la musica, riflesso della sua dignità, al di sopra di tutto e tutti. Gold Coast Rhythm, l’ultimo brano eseguito da Sidney, si fa portavoce della sua disillusione e della sua amarezza, diviene un canto malinconico: e, tuttavia, assolutamente, decisamente libero.
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