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Nel 1970 un giovane ed ancora sconosciuto David Cronenberg realizza il suo secondo lungometraggio, Crimes of the future: un lavoro ermetico, imperfetto, conturbante, che racchiude in sé i germogli della cosiddetta poetica “cronenberghiana”, filo conduttore dell’intera opera del regista nel corso dei decenni. Esaurire in poche righe il cuore della riflessione del cinema di Cronenberg è un’impresa non da poco: gli spunti più citati e studiati sono relativi alle ossessioni del soggetto contemporaneo, al suo rapporto con la società, con le sue istituzioni e con i suoi mezzi di comunicazione, in un continuo scontro dialettico tra umanità e tecnologia, in cui il corpo umano muta la sua forma, si deteriora, si ibrida. Attraverso corpi deformi, personaggi dalla sessualità non convenzionale, incapaci di stabilire un contatto con una realtà sempre più vicina all’allucinazione, il regista canadese ha delineato i tratti di un mondo in cui il cambiamento è tanto subdolo quanto inarrestabile.

Questi i presupposti da cui nasce, ben cinquantadue anni dopo, il nuovo Crimes of the future, opera indipendente dall’omonimo film del 1970, ma comunque intenzionata a guardare indietro per tirare le somme di una produzione pluridecennale. Gli anni Ottanta sono lontani e Cronenberg è ben conscio di come, in un contesto industriale profondamente mutato, sia un’impresa ben più ardua rispetto al passato riuscire a portare sul grande schermo le proprie storie. In questo caso il soggetto del film ha preso polvere all’interno di un metaforico cassetto per quasi vent’anni. Una co-produzione tra Canada, Francia, Grecia e Regno Unito è stata l’occasione per tornare a varcare i territori della fantascienza e del body horror: conscio dell’unicità di tale occasione, David Cronenberg ha colto la palla al balzo per allargare il raggio d’azione del film stesso, che diventa un excursus all’interno del suo cinema passato, da Videodrome a Crash, da Inseparabili a eXistenZ. Un’opera che ha lo scopo di fare il punto della situazione, di tirare le somme, ma allo stesso tempo di guardare con sguardo critico alle tesi avanzate in passato: i tempi sono cambiati e così anche le ossessioni collettive, motivo per il quale in Crimes of the future cambia il punto di vista e, ciò che nei film precedenti era motivo di tormento, qua si figura come la chiave per la creazione di un futuro più luminoso.

In un futuro non specificato le dinamiche del mondo, a causa dell’impatto dell’uomo su di esso, sono profondamente cambiate. Gli esseri umani stanno mutando nella loro forma, sono divenuti incapaci di provare dolore fisico, fondamentale campanello d’allarme per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e la diretta conseguenza è la diffusione di pratiche come la “chirurgia da tavolino” o un tipo di performance art legato indissolubilmente alla modifica del corpo umano. Il protagonista della vicenda, Saul Tenser (Viggo Mortensen), è affetto da una patologia che lo porta a sviluppare nuovi organi all’interno del proprio organismo, e insieme alla sua partner Caprice (Léa Seydoux) allestisce delle performance artistiche incentrate sull’asportazione delle formazioni organiche considerate pericolose. Le mutazioni genetiche, ritenute mortali da Saul e Caprice, sono invece accolte come vantaggiose da un gruppo sovversivo capitanato da Lang Dotrice (Scott Speedman), i cui membri hanno chirurgicamente acquisito la capacità di digerire la plastica, potendo così nutrirsi degli scarti prodotti dall’industria, avviando un percorso di riciclo delle risorse e di maggiore sostenibilità.

Il “future” contenuto all’interno del titolo non deve trarre in inganno: il discorso portato avanti da Cronenberg è perfettamente inserito all’interno del nostro presente. La prima inquadratura del film mostra una spiaggia dall’immensa bellezza, sullo sfondo della quale si staglia il relitto di una nave, simbolo più esplicito che mai della distruzione dell’ambiente, dello squilibrio dell’ecosistema, dell’inospitalità del mondo del racconto, non così lontano da quello che tutti noi conosciamo. All’interno dell’inquadratura si trova il piccolo Brecken Dotrice (Sozos Sotiris), figlio di Lang, primo bambino a cui è stata trasmessa geneticamente la “modifica chirurgica” del padre: Brecken possiede la capacità naturale di digerire la plastica. È considerato dai più come un mostro, colpevole di aver varcato il limite tra umano e non, in una società in cui l’antropocentrismo e l’egoismo dell’essere umano sono all’atto pratico più importanti della salvezza del pianeta e dell’umanità stessa. Se nel cinema passato di Cronenberg, come in La mosca, la mutazione era orrore perché incomprensibile e incontrollabile, nel film in esame il cambiamento è stato già compreso e accettato da un gruppo ristretto di persone. Di conseguenza lo spettatore riconosce il vero orrore non nella paura dell’ignoto, ma nel mancato riconoscimento di un’evidenza: la terribile realtà è sotto gli occhi di tutti e tutti sembrano voltare lo sguardo altrove. La conquista di Crimes of the future all’interno della poetica cronenberghiana è un rapporto d’armonia tra uomo e macchina mai visto prima: la tecnologia, al contrario di Videodrome o eXistenZ, viene finalmente accettata e rappresenta la chiave per il futuro.

L’arco narrativo del protagonista è in questo senso esemplificativo. Saul si pone come figura di mezzo tra Lang e il detective Cope (Welket Bungué), il primo rappresentante di una visione progressista legata all’evoluzione della specie, il secondo di una visione conservatrice per il mantenimento dell’insostenibile status quo; il protagonista è infatti informatore delle forze dell’ordine, con lo scopo di fermare la cellula “sovversiva” dei mangiatori-di-plastica, ma allo stesso tempo veicola la diffusione del pensiero di Lang attraverso una performance artistica, l’autopsia del corpo di Brecken, che rappresenta un esempio diretto del cambiamento in corso, in termini evoluzionistici, nell’umanità. Soprattutto, Saul è l’incarnazione di tale conflitto: è oggetto di una mutazione che respinge, i cui frutti vengono asportati repentinamente; la risposta del suo corpo è dirompente, tra dolori lancinanti nel sonno e difficoltà nel deglutire il cibo. L’accettazione della sua condizione, nel finale della pellicola, sarà accolta come una vera epifania, e l’ultima inquadratura del film rappresenta un momento puramente estatico dal carattere metafisico: un primo piano di dreyeriana memoria dalla rara intensità, speculare alla celeberrima inquadratura del volto di Renée Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco. Con una singola espressione Viggo Mortensen raggiunge un apice interpretativo toccato da ben pochi colleghi, in un momento che, per quanto vicino all’astrazione, tiene ancorato il suo significato al discorso portato avanti da Cronenberg nel corso della pellicola, figurandosi come un momento-rivelazione. Inoltre, la presenza di Viggo Mortensen, volto caratteristico della seconda fase della produzione del regista, nel film rappresenta sia il ritorno al body horror e sia il resoconto del genere stesso, reca un senso di completezza totalizzante.

“Tutti percepivamo che il corpo fosse vuoto e volevamo averne la conferma per poterlo riempire di significato”. Questo è il punto di partenza della concezione dell’arte all’interno del film, centrale nelle performance “chirurgiche” di Saul e Caprice, che entrano in un rapporto di comunicazione metacinematografica con l’opera dello stesso David Cronenberg. Il regista, in un’ottica di pura autoreferenzialità, sembra voler fornire un resoconto del proprio cinema, caratterizzato dall’esposizione di corpi deturpati, mutati, in senso lato deformi, specularmente alle performance dei protagonisti del film. Al pari della concezione della chirurgia estetica portata avanti dal film, il cinema e l’arte non devono svolgere la funzione di strumenti del bello, nel senso classico del termine. L’arte rimodula i canoni di bellezza, li relativizza e rende accettabile l’esposizione e il godimento dell’oggetto scabroso.

L’arte è espressione di disagio e sofferenza, per Saul il significato dei suoi lavori è l’esternazione di un conflitto interiore, fisico e non, legato al rifiuto delle mutazioni del suo corpo. In una società anestetizzata, incapace di provare dolore, le performance dei protagonisti sono lo strumento privilegiato per tornare a percepire sé stessi, la propria individualità, il proprio corpo e il suo rapporto con il mondo circostante. L’arte è persino capace di modulare e influenzare il percorso della scienza e l’azione governativa, fino ad essere travisata per fini ideologici: in questo si inserisce un’ambiguità politica che il film sembra non aver intenzione di chiarire. L’arte è posizionata in un limbo di non-politica, incapace di prendere una posizione concreta in un mondo in cui schierarsi sembra quantomeno necessario.

Il personaggio interpretato da Léa Seydoux rappresenta la fiducia incondizionata nelle possibilità dell’arte, il passaggio dalla scienza all’estetica, dal riconoscimento delle cose alla loro percezione profonda; si fa inoltre fautrice della ricerca dell’emancipazione, dell’indipendenza, in un mondo dominato dall’azione dell’uomo. Il discorso, però, proprio come il personaggio stesso, finisce per perdere consistenza nel calderone del film e Caprice è relegata all’ombra di Saul, Lang, Timlin, personaggi il cui conflitto si configura come maggiormente interessante. Questo potrebbe essere considerato il nervo scoperto del film, l’elemento che lo allontana dalla grandezza assoluta: il racconto è eccessivamente pregno di elementi narrativi di contorno e personaggi secondari che, pur delineando un quadro d’insieme stimolante, finiscono con il perdere talvolta d’efficacia. Si tratta inevitabilmente di una pellicola stratificata, straripante, i cui significati sono impossibili da esaurire a una sola visione. In questo Crimes of the future trova l’elemento cardine che lo porterà a durare nel tempo e a cementificarsi come un film fondamentale per la comprensione del percorso di David Cronenberg e rappresentativo dei conflitti che abitano la contemporaneità.

Il sesso, la carne aperta, viva ed esposta, la violenza, sono tutti elementi inscindibili e in continuo scambio tra loro. Il piacere e il dolore sono più vicini che mai, ma se in Crash si mostrava la discesa nell’oblio di personaggi incapaci di provare emozioni se non in condizioni estreme, qua il quadro è desolante, tratteggiato da individui distaccati dalla loro corporeità, incapaci di provare piacere, che scavano in profondità nei loro corpi vanamente in cerca di qualcosa che sconfina i limiti fisici. Il processo iniziato in Crash, in Crimes of the future è già compiuto da tempo. Il personaggio di Timlin (Kristen Stewart) rappresenta la più viva eccezione in questo contesto e si configura come l’elemento più interessante dell’intera narrazione. Timlin ribolle di uno spirito autentico, incontenibile, carnale e profondamente umano, ed è evidente il suo coinvolgimento sessuale nei confronti di Saul. Kristen Stewart è perfetta nell’incarnare un personaggio che cerca di contenersi ma straripa di emozioni forti e la cui passione rischia di esplodere da un momento all’altro. Uno dei momenti più intensi dell’intera pellicola è proprio il suo bacio con Saul, in uno scontro tra una passione dirompente dai tratti umani e un’aridità scaturita dal dolore e incarnata da un soggetto, Saul, che non conosce il “vecchio sesso”. “La chirurgia è il nuovo sesso“, simbolo di una condizione di appiattimento emotivo e sensoriale; la ritrovata umanità di Saul nel finale si tradurrà in un bacio struggente con la sua partner, Caprice. Cronenberg non teme più l’ibridazione del corpo umano, il vero rischio da scongiurare è la perdita di umanità.

La povertà di stimoli e sensazioni dei personaggi si trasferisce, indirettamente e forse involontariamente, nello spettatore. I tagli, le amputazioni, il sangue non hanno la stessa forza che avevano in passato, non sono più repellenti, scabrosi, inaccettabili come in Videodrome, Crash o eXistenZ. I corpi, a parte rare eccezioni, non si manifestano nella loro fisicità tangibile, ma appaiono più come dei simulacri di loro stessi. Anche le sequenze più erotiche sono pervase da un’aria mortifera che non permette l’esplosione di forti sensazioni, positive o negative che siano. E se all’inizio del film la bava che permette a Brecken di digerire la plastica appare viscida, rivoltante, reale, le sequenze chirurgiche in computer grafica peccano in termini di concretezza e non sortiscono lo stesso effetto. L’atmosfera inospitale e respingente è costruita da David Cronenberg attraverso una regia posata, caratterizzata da lenti movimenti di macchina o da inquadrature fisse, vicina ai personaggi, in ambienti spogli, deturpati, fatiscenti, che si sposano con una città tenebrosa anche alla luce del sole. Le scenografie sono a metà tra il povero e il disagevole e, tra ruggine e muffa, finiscono per essere profondamente efficaci; lo stesso non si può dire per un cast le cui figure di contorno non sempre riescono a reggere il confronto con le star principali o per dei costumi anonimi, banali e poco caratterizzanti.

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Alessandro Corrao, Redattore