Nel 2001 la BBC ha trasmesso per la prima volta The Blue Planet (Il Pianeta Blu), una serie incentrata sulla storia naturale degli oceani condotta da David Attenborough e prodotta dalla BBC National History Unit. Fin da subito è stata acclamata dalla critica per la qualità delle riprese e per la narrazione, composta da 9 episodi, che racconta il mondo sommerso attraverso una prospettiva più vicina e diretta rispetto ai documentari precedenti. La serie ha richiesto circa 5 anni di lavoro, 200 location di riprese e sfide mai affrontate da una produzione di questo genere. Questo progetto pone le basi per il programma televisivo che rivoluzionerà la produzione e il rapporto con il pubblico delle riprese naturalistiche: Planet Earth.

Trasmesso in più di 130 paesi, Planet Earth è la prima serie tv naturalistica girata in Alta Definizione dalla BBC e spinge la qualità di produzione e riprese verso nuovi orizzonti. Tale successo porta alla creazione di Planet Earth II (2016), un sequel che cambia nuovamente il linguaggio narrativo e fotografico delle riprese documentaristiche, avvicinando la narrazione ai blockbuster hollywoodiani. Semi che germogliano e fiori che sbocciano in pochi secondi, mammiferi che lottano per la sopravvivenza, rettili in isole paradisiache e stormi di uccelli in volo, habitat selvaggi e luoghi inaccessibili: tutto questo è Planet Earth. Lontani migliaia di chilometri da set cinematografici e città, le troupe che ci regalano queste immagini attraversano interi continenti per immortalate scorci unici e fedeli di un mondo più vivo che mai

Ma come viene realizzata una serie tv di questo tipo? In due articoli analizzeremo brevemente l’evoluzione dei sistemi di ripresa, il tipo di fotografia ricercata, il taglio narrativo e la sua etica.

CAPITOLO 1 – CINEPRESE SCOMODE

Lo strumento principale per la realizzazione di un documentario naturalistico è, ovviamente, la cinepresa. Negli anni i sistemi di ripresa hanno subito evoluzioni e rivoluzioni come quella del passaggio dal bianco e nero al colore, o quella dalla pellicola al digitale, per citarne alcune. Come già raccontato negli articoli dedicati alla Panavision, esistono molti formati di ripresa (aspect ratio) che influiscono sul risultato finale e sulla percezione che lo spettatore ha della scena. Negli anni si è passati dal 4:3, che proiettano un’immagine quasi “quadrata”, al 16:9, ovvero il widescreen televisivo con un’immagine più ampia e “rettangolare”. Nei primi decenni del Novecento le cineprese erano pesanti, ingombranti e necessariamente a pellicola; questo comportava limiti tecnici nelle riprese, che non permettevano di seguire l’azione da vicino, e costringeva a un approccio più statico nella fotografia. La pellicola, oltre ad essere fragile e suscettibile alle variazioni di temperatura, comportava dei costi non indifferenti, specialmente quando ci si ritrovava a filmare per giorni interi in attesa di un determinato animale o momento da catturare. Quindi i primi documentaristi prediligevano posizioni fisse, necessariamente su treppiedi, e in luoghi come gli zoo oppure situazioni create appositamente e con dietro una qualche forma di sceneggiatura.

La BBC Natural History Unit produce documentari da più di 60 anni ed essi sono per la maggior parte presentati da Sir David Attenborough, che in questi anni è diventato un punto di riferimento del genere con la sua voce e il suo impegno. Durante questi decenni, si è cercato sempre di incrementare la qualità delle riprese e il coinvolgimento dello spettatore nelle scene raccontate, facendo ricorso a tutta la tecnologia disponibile al momento della produzione. Il primo grande passo è stato quello di girare utilizzando cineprese da 16mm, molto più leggere e utilizzabili a mano libera. Questo comportava una qualità inferiore rispetto ai sistemi di ripresa degli studi televisivi o delle produzioni cinematografiche, ma permetteva di potersi avvicinare di più ai soggetti, aspetto non da sottovalutare quando si parla di animali e luoghi selvaggi! In relazione a tale cambiamento non mancarono le controversie all’interno della BBC, specialmente quelle del responsabile del Film Department, che si oppose in modo deciso all’adozione delle cineprese da 16mm. David Attenborough, al contrario, insistette nell’utilizzarle e, grazie ad esse, le troupe BBC riuscirono a ritornare con immagini di animali che non erano mai stati filmati fino a quel momento, come il lemure Indri. In 50 anni si è passati dal riprendere i Lemuri dal basso con cineprese a pellicola e a mano libera all’ottenere scatti dal forte impatto cinematografico, seguendoli in volo tra gli alberi. Una differenza notevole!

CAPITOLO 2 – RIPRESE FLUIDE E CINEMATOGRAFICHE

Una ripresa a mano libera riflette nelle immagini tutti i movimenti eseguiti dall’operatore, i passi mentre cammina, il suo respiro, il tremolio delle mani. Questo porta a risultati a volte scadenti e in alcuni casi rende difficile inquadrare il soggetto. In questi casi si può optare per supporti come crane, dollies e sliders, che permettono dei movimenti di cinepresa fluidi, senza tremolii o salti. Ma per molti anni lo standard è stato quello di una cinepresa montata su un treppiedi che seguiva l’azione con movimenti limitati al panning, tilting e zooming, ovvero poter inquadrare girando la cinepresa da destra verso sinistra, dall’alto verso il basso, o effettuare uno zoom. Questo non permetteva di seguire con accuratezza tutti i movimenti imprevedibili di un animale selvaggio e l’evoluzione delle sue azioni in spazi ristretti o con ostacoli come alberi e rocce. Tutto è cambiato nel 2002, quando la BBC ha deciso di passare dalla pellicola al digitale, giudicandolo di qualità sufficiente per le riprese di un documentario e seguendo la tendenza già avviata nel mondo della fotografia e del cinema.

Uno degli strumenti più rivoluzionari è stato il Cineflex Heligimbal, un sistema di stabilizzazione per videocamere montato su un elicottero che permetteva riprese fluide ed epiche, che hanno definito il look della serie da quel momento in poi. Diventava possibile effettuare riprese dall’alto di immensi stormi di uccelli in volo dando una nuova prospettiva, ma anche seguire un orso polare che nuota da un chilometro di distanza, senza importunarlo con rumori e odori che potrebbero spaventarlo. Questo tipo di strumento permetteva di seguire in movimento un’intera azione, come ad esempio un branco di lupi a caccia, senza interrompere la ripresa, ottenendo così un’unica carrellata che descrive meglio quello che accade. Con un treppiedi questo non sarebbe possibile poiché bisognerebbe spostarsi per riposizionarlo ogniqualvolta l’azione si sposta fuori dall’inquadratura. Questo sistema di stabilizzazione così efficace e pratico è diventato possibile solo con l’avvento del digitale poiché non sono più necessari enormi magazzini di pellicola ingombranti e delicati. L’obiettivo viene montato in un Gimbal, una serie di anelli guidati da sensori che compensano ogni movimento della cinepresa e garantiscono una ripresa stabile e movimenti fluidi. I progressi tecnologici hanno reso possibile la realizzazione di gimbal sempre più piccoli e leggeri, fino a renderli disponibili per le riprese aeree con droni o per quelle a mano libera, sostituendo le costose e ingombranti steadycam già utilizzate in ambito cinematografico. Questa evoluzione è alla base dell’idea Planet Earth II: avvicinarsi sempre di più al soggetto, spingersi ai limiti, per poter vedere il mondo attraverso i suoi occhi. L’utilizzo di questi sistemi di stabilizzazione ha permesso la realizzazione di riprese aeree mozzafiato e riprese a mano libera che mostrano com’è muoversi e vivere nei vari habitat dal punto di vista dell’animale. Tutto questo stimola l’immersività e l’empatia dello spettatore con quanto mostrato a schermo, rendendo più interessante il viaggio tra le meraviglie naturali di questo mondo.

CAPITOLO 3 – TROUPE E PRODUZIONE

Realizzare un documentario naturalistico non è mai un’impresa semplice, le sfide logistiche e di ripresa sono molto più ostiche rispetto a quelle di un film o una serie tv. Possono volerci anni per riuscire a riprendere tutte le scene necessarie al racconto e questo spesso comporta il raggiungimento di posti isolati e inospitali. Il primo passo è quello della sceneggiatura, nel quale la produzione decide il soggetto del documentario e il taglio che si vuole dare alla narrazione, con la possibilità di scegliere tra quello più cinematografico e di impatto e quello più informativo e meno spettacolarizzato. Una volta stabilito ciò, inizia uno studio approfondito sulla natura del soggetto da immortalare, il suo habitat e la logistica necessaria a raggiungere quel posto. Questa fase, al contrario di quanto comunemente si possa pensare, non è affatto veloce, anzi! Può durare diversi anni, poiché nulla deve essere lasciato al caso una volta trovate le condizioni ideali per realizzare il documentario. Una volta terminata questa fase, la troupe si prepara alla partenza insieme a tutta l’attrezzatura necessaria e vengono organizzati i mezzi di trasposto, si contattano le autorità locali e ci si rivolge ad esperti in materia per avere indicazioni sul campo. Come membri di una troupe documentaristica bisogna essere pronti a tutto, le riprese vengono effettuate in condizioni estreme e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.

Si affrontano temperature estreme, dai -70 ai 50 gradi, in luoghi inospitali, ritrovandosi faccia a faccia con animali pericolosi come leoni e tigri per poter ottenere la ripresa perfetta. È un lavoro che richiede tanta dedizione e un po’ di fantasia per trovare la soluzione migliore a imprevisti e guasti alle apparecchiature. Non è raro che un branco di iene saccheggi l’accampamento o che un orso curioso distrugga una videocamera. Per dare un’idea di quello che accade dietro le quinte di uno dei più bei documentari naturalistici, pensate che per realizzare l’episodio Islands di Planet Eart II sono stati necessari 3 anni e mezzo, di cui uno dedicato solo alla preparazione. Inoltre, sono stati necessari nove giorni di viaggio per riprendere i pinguini sull’isola di Zavodovski e nei momenti di freddo intenso la troupe doveva dormire con le batterie delle videocamere nel sacco a pelo per non farle ghiacciare. Ancora: ci sono voluti 21 giorni di appostamento per assistere al rituale di accoppiamento dell’uccello del paradiso e sono stati necessari tre mesi di riprese per catturare la lotta tra un leone e un bufalo; un anno intero è stato impiegato per riprendere il leopardo delle nevi tra le cime dell’Himalaya, realizzando un totale di 400 Terabyte di video in 2.089 giorni, nel corso di 117 spedizioni diverse. Un lavoro notevole e affascinante!

Nella seconda parte vedremo gli aspetti legati all’etica nella realizzazione di un documentario, all’audio e alla colonna sonora.

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Nikolaos Gea, Redattore