Ho sempre avuto la convinzione che gli attori che implorano il pubblico di amarli siano sempre peggiori di quelli che dicono: ‘Andate al diavolo, se non vi piaccio non venite a vedermi’”.

LA DUPLICITÀ DI CLINT EASTWOOD NEL PANORAMA HOLLYWOODIANO

La figura di Clint Eastwood è nota al grande pubblico per essere un personaggio “problematico” dalle opinioni spesso molto nette, talvolta equivoche, per alcuni persino estreme. Tuttavia, la complessità di Eastwood va ben oltre la sua presunta ambiguità politica e si riflette nella difficoltà che le teorie contemporanee hanno nel parlare di lui in quanto autore poiché egli ha scritto un capitolo della storia del cinema contemporaneo sia davanti che dietro la macchina da presa.  L’argomento regia è, infatti, ancora spinoso da affrontare quando si parla di una star del calibro di Eastwood che si è imposta al panorama popolare prima di tutto come attore di successo, e poi come regista. Si tratta, infatti, di un autore che tutt’oggi porta sulle spalle una sostanziosa carriera attoriale televisiva e cinematografica che l’ha consacrato a vera e propria icona della storia americana nonché modello di una precisa mascolinità. D’altro canto Clint Eastwood ha saputo imporsi tra i grandi registi viventi proprio per la complessità della sua regia e ancor più del suo cinema. Un cinema riflessivo, spietato, fantasmatico che gioca con la struttura classica ribaltandola e portando avanti una riflessione non solo nei confronti tale forma cinematografica ma anche della realtà stessa in cui sono calate le pellicole. In virtù di questa sua ambivalenza, numerosi critici ancora si interrogano sulla natura del suo cinema, definito classico da molti, mentre postmoderno da altri.

LA MALPASO PRODUCTION

Accanto a questa duplicità dell’immagine pubblica di Eastwood c’è il fatto che egli occupi una posizione peculiare all’interno del panorama dell’industria hollywoodiana. Eastwood è, infatti, un regista che, a differenza di molti altri, mantiene un’indipendenza da un punto di vista produttivo e una libertà artistica che si concretizza nella sua casa di produzione la Malpaso Productions. Dopo la mitica esperienza attoriale sul set di Sergio Leone, Clint Eastwood fonda la Malpaso nel 1967 usando i profitti ricavati dai suoi ruoli iconici all’interno della trilogia del dollaro. L’inaugurazione di una propria casa di produzione indipendente è stato il passo fondamentale che lo ha spinto ad approcciarsi alla regia proprio perché gli ha garantito un’indipendenza artistica oltre che uno status d’autoriale.  Nel corso della storia della settima arte vi furono molti registi che aprirono proprie case di produzione spinti dal feroce desiderio di far valere la propria voce contro lo strapotere dei produttori e i rigidi paletti creativi imposti dall’industria hollywoodiana. Tra questi si ricordano Douglas Fairbanks, Charlie Chaplin, Mary Pickford, che diedero vita alla United Artist, e Frank Capra che, insieme a Samuel Briskin, fondò la Liberty Films; eppure, nel caso di Eastwood, fu l’esperienza sul set a spronarlo ad intraprendere questa nuova avventura. Durante la sua carriera d’attore, si accorse, infatti, dell’enorme quantità di sprechi di budget delle produzioni cinematografiche. Questa esperienza sul set gli fece maturare l’idea che si dovesse, e che fosse possibile, realizzare un cinema diverso, fondato su film genuini, scevri dei grandi impianti spettacolari tipici dei blockbuster, scarni e intimisti.

Film profondamente calati nella realtà e che indagano quella stessa realtà cui appartengono. C’è inoltre da considerare il fatto che, a differenza dei suoi predecessori, Eastwood si colloca in un contesto storico e produttivo profondamente diverso da quello degli anni d’oro di Hollywood in cui troneggiava lo Studio System e in cui gli Studios dettavano legge. In quel periodo erano le Big Five a detenere l’oligopolio sull’industria, ma, a seguito della sentenza Paramount del ’48, questa posizione di potere iniziò a vacillare per poi crollare agli inizi degli anni ‘60. La Malpaso Productions si inserisce, dunque, in un periodo di grande cambiamento all’interno del panorama cinematografico, in cui iniziarono a nascere piccole case di produzioni indipendenti dalle majors insieme a grandi conglomerati mediatici, che inglobarono quelle che un tempo erano considerati i più grandi studios di Hollywood. Ciò nonostante, fu proprio la fondazione della Malpaso a dare l’avvio alla carriera registica di Clint Eastwood.

CLINT EASTWOOD: L’ULTIMO DEI CLASSICI

L’indipendenza produttiva e creativa di Clint Eastwood mal si accorda all’opinione popolare che lo vede occupare il ruolo di “ultimo dei classici”. Tale titolo gli è stato affibbiato per due ragioni specifiche: la prima riguarda il fatto che all’interno dei suoi film vi sia un riferimento costante ai generi classici del cinema; la seconda, invece, è dettata dal fatto che la sua cifra stilistica sia scevra da una dimensione apertamente meta discorsiva e da eccessi visivi e di spettacolarizzazione del cinema contemporaneo, cui si accompagna, di conseguenza, un uso minimale della tecnologia moderna. Lo stile di Clint Eastwood è, difatti, sobrio, classico in quanto funzionale alla narrazione e si adegua non solo allo stile del racconto, ma anche alle convenzioni stesse dei generi grazie all’impiego di archetipi e figure del cinema classico come il montaggio alternato.  Tuttavia, nonostante sia palese la presenza di elementi di classicità all’interno delle sue pellicole, Eastwood porta avanti un lavoro di analisi, riscrittura e contaminazione dei generi hollywoodiani, primo tra tutti il western, un mondo narrativo a cui deve moltissimo poiché gli ha consentito di ritagliarsi uno spazio personale nel firmamento hollywoodiano e europeo. L’esperienza con Sergio Leone lo ha influenzato sotto molti punti di vista sia come attore come regista ma, ancor più, ha creato attorno ad Eastwood il mito dello straniero misterioso dagli occhi di ghiaccio, archetipo che interpreterà in molte pellicole diverse tra loro per genere e tematiche.

A differenza di quello della golden age hollywoodiana, il cinema di Eastwood è fortemente pervaso e attraversato da un’intensa riflessione filosofica e morale che spesso rimane irrisolta. La forma classica è, in questo caso, impiegata in senso antifrastico poiché, se viene affermata sul piano delle forme (montaggio, personaggio, importanza della narrazione…), viene contraddetta sul piano del senso e svuotata sul piano dei valori. In virtù di questa operazione di rivisitazione e riarticolazione dei modelli del passato, il cinema di Eastwood mina la struttura classica della trasparenza dall’interno attraverso l’impiego di una narrazione aperta, discutibile, ambigua, ma anche attraverso una riflessione su temi e questioni della storia e della politica americana fortemente complesse e che non si riducono nella mera contrapposizione tra bene e male. Questa complessità si riflette anche nella costruzione e nella natura dei protagonisti delle sue opere: eroi o antieroi pieni di contraddizioni così come la realtà nella quale sono calati. Realtà che Eastwood si propone di indagare, rovesciare e vivisezionare. Molte sue pellicole, nonostante si sforzino di raccontare la storia dell’America e di tracciare l’identità statunitense, sono permeate da elementi astratti, simbolici e stilizzati e da sequenze oniriche, perturbanti e fantasmatiche che vanno a ledere la trasparenza e ogni proposito di realismo. Persino i luoghi e gli ambienti dei suoi film si carica di significati simboli e reali al tempo stesso. L’America di cui parla Eastwood è alienante, perduta, immorale, un luogo di sopraffazione e contraddizione, di violenza e dolore, in cui non vi è riscatto, non vi è risoluzione.

Gli eroi delle sue storie sono outsiders, figure reiette ai margini della società, spesso condannati ad un’esistenza dolorosa e quasi mai realmente protagonisti della propria vita. Molti di loro sono eroi con un passato poco glorioso e desiderosi di una redenzione cui difficilmente raggiungeranno. Altri sono fantasmi consapevoli dello scacco cui stanno andando incontro, ma che hanno comunque deciso di non rassegnarsi e di intraprendere un viaggio per provare a prendere in mano la propria vita per la prima e, sicuramente, l’ultima volta. Essi perseguono un obiettivo assumendone ogni rischio e dovere, pur consapevoli dell’inevitabilità della loro sconfitta. Per questo motivo, nonostante Eastwood rivendichi l’appartenenza ad uno stile “passato, il suo è un cinema che decostruire la struttura classica dandole nuova vita e impiegandola in senso antifrastico per indagare il presente e le sue contraddizioni sociali e morali.

“Ciò che mi interessa più di ogni altra cosa nel lavoro e nella vita è la ricerca della verità. Questo percorso mi spinge ancora a dirigere film”

PALE RIDER: RISCRITTURA DELL’IMMAGINARIO WESTERN

Pale Rider è un film del 1985 diretto e interpretato da Clint Eastwood che racconta le vicende del misterioso Predicatore (interpretato dallo stesso Eastwood) e di una comunità di cercatori d’oro, costretta ad uno scontro quotidiano con l’impresario Coy LaHood, intenzionato a detenere il controllo del loro terreno oltre che delle miniere di Carbon Canyon.  La pellicola si configura non solo come un grande omaggio al western ma anche come una rielaborazione di quello stesso immaginario.  Il film porta avanti una riflessione sul rapporto del regista col genere western, che in quegli anni stava oramai affrontando una fase di declino e rivisitazione dopo aver raggiunto il picco nella golden age. In questo caso, il western classico diviene infatti una fonte primaria cui attingere, non solo una malinconica citazione, dettata anche dalla carriera personale del regista. Attraverso Pale Rider Eastwood attua, infatti, un’operazione di riscrittura di un film precedente, Shane (1953) di George Stevens che Bazin considera l’incarnazione del genere classico in quanto primo esempio di western “consapevole”.

Il meccanismo del film di Eastwood ricalca quello di Stevens sul piano dell’intreccio, nonostante la successione degli eventi venga aggiornata, spesso ritardata, anticipata o spostata. La trama delle due pellicole è praticamente la stessa ed entrambe condividono un approccio narrativo contemporaneamente astratto e realistico, nel quale si calano tematiche proprie del genere tra cui la giustizia e la vendetta; tuttavia, nel caso di Pale Ride vengono affrontati temi anche non propriamente convenzionali. Ad esempio la tematica della crescita personale si si articola in modo diverso all’interno delle due pellicole, dove assistiamo ad un ribaltamento dei ruoli e degli stereotipi di genere: in Shane il protagonista è un ragazzino di nome Joe, mentre in Pale Rider è Megan, una giovane donna. In entrambi i film assistiamo, dunque, ad un percorso di maturazione di questi due personaggi, ma nel caso di Pale Rider tale crescita si sviluppa all’interno della sfera dell’erotismo e della scoperta del piacere sessuale. Se nel film di Stevens Joe ha l’occasione di dimostrare il suo valore e diventare uomo imparando ad usare le armi, in Pale Rider Megan diviene donna nel momento in cui viene educata al sesso. L’elemento erotico è fortemente presente all’interno della pellicola di Eastwood e consente di azzerare almeno per qualche scena la distanza mitica che il cavaliere solitario mantiene nei confronti degli altri personaggi. In gran parte del film la figura del predicatore si oppone alla ai cercatori d’oro, al gruppo. A differenza degli abitanti, lui agisce da solo e, nonostante il suo obiettivo finale sia di solidificare il gruppo e liberarlo dal male, non potrà mai far parte della collettività poiché estraneo ad essa, proveniente da un altro mondo, un’altra dimensione, un’altra era. Quella del mito.

PALE RIDER: MITOLOGIA, OMAGGIO ED EVOCAZIONE DEL WESTERN

“Gli fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché gli uomini potessero sgozzarsi tra loro e gli fu data una grande spada e quando ebbe aperto il terzo sigillo udì la terza bestia che diceva: “vieni e bevi” ed ecco apparir di colpo un cavallo nero e chi lo cavalcava aveva una bilancia in mano e udì una voce in mezzo alle quattro bestie che diceva: “una misura di grano per un denaro e tre misure di orzo per un denaro, attento non arrecare danno all’olio ed al vino” e quando ebbe aperto il quarto sigillo udì la quarta bestia che diceva: “vieni e bevi”. Io guardai e apparve un cavallo pallido ed il nome di chi lo cavalcava era… Morte. L’inferno era dietro di lui.”
(Pale Rider, regia di Clint Eastwood)

Sin dalle prime inquadrature del film compaiono alcuni stilemi tipici dell’età d’oro che sono però utilizzati in modo estremamente personale e anticonvenzionale per raccontare la scena dell’invocazione del predicatore. Qui, infatti, la forma classica (sovrimpressione, montaggio alternato…) si accompagna ad un registro fantasmatico, pregno di elementi onirici, e antinomico, calato in un contesto molto realistico. L’ingresso in scena del predicatore è caratterizzato da una componente quasi sovrannaturale che, difatti, lo accosta sin dai primi istanti ad un giustiziere venuto dall’inferno per punire i peccatori, ma ancor più ad un cavaliere dell’apocalisse, immagine che anche il titolo del film sembra continuamente richiamare. Non a caso, qualche scena più tardi il predicatore farà il suo ingresso nel villaggio dei cercatori accompagnato proprio dalle parole dell’Apocalisse di Giovanni. La prima epifania del Pale rider si colloca, invece, non appena la giovane Megan pronuncia le parole “if you exist”, dopo aver recitato il salmo 23. Come per evocazione appare il predicatore al galoppo su un cavallo bianco con le cime innevate alle spalle.

Questa figura mistica, quasi profetica, si configura, quindi, come una variazione del vendicatore interpretato da Eastwood a cui si aggiunge una componente sovrannaturale e spettrale, mitica. L’entrata in scena del protagonista non solo lo caratterizza come un sopravvissuto o uno spettro, ritornato nel mondo dei vivi per portare a termine una missione oscura, ma sottolinea anche la distanza tra predicatore e gli altri personaggi. In questo senso, Eastwood rifiuta esplicitamente i meccanismi di identificazione del pubblico dal momento che il protagonista non è fonte di informazioni né di sguardo o azione. La stessa recitazione priva di sfumature psicologiche o di espressività rende Eastwood/predicatore una maschera fissa e accresce quel mistero che circonda la sua venuta e che, di conseguenza, lo eleva a figura a metà tra l’umano e il divino. Eastwood costruisce, quindi, un film in cui realtà e mito si scontrano, si fondono, si mescolano nella narrazione e nel Predicatore al punto che diviene quasi impossibile scinderli.  Pale Rider vede la duplicità di cui abbiamo parlato precedentemente e la capacità di Eastwood di tornare alle radici del cinema classico, del passato, del western, per aprire un discorso sul presente, sulla morale contemporanea e la società. In questo sta la modernità e la contemporaneità di Eastwood, regista che rielabora, contraddice e omaggia la classicità, piuttosto che l’ultimo dei classici. 

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Benedetta Lucidi, Redattrice