La bomba (a orologeria) fu sganciata per la prima volta il 19 dicembre del 1971, cinquant’anni fa: quel giorno, Arancia meccanica (A Clockwork Orange) di Stanley Kubrick uscì in anteprima negli USA (in Gran Bretagna, luogo delle riprese, arrivò il 13 gennaio 1972, in Italia a settembre dello stesso anno, passando alla Mostra del Cinema di Venezia). Curiosamente, appena qualche giorno dopo (22 dicembre), sempre in America uscì Cane di paglia (Straw Dogs) di Sam Peckinpah: l’altro grande film che mostrava una brutale scena di stupro come in Arancia meccanica, e che fece scalpore per il trattamento visivo diretto, senza pudori e senza avvertimenti, della violenza dell’uomo normale, gettata sullo schermo con un’aggressione esplicita alle attese degli spettatori per l’epoca sconosciuta (pur in forme radicalmente agli antipodi rispetto all’estetica kubrickiana). Era insomma il momento giusto per portare duri scossoni e ardite sfide ai vecchi e usurati modi di rappresentazione. Un periodo di grande fermento rivoluzionario e rinnovamento del cinema americano (siamo nel pieno della New Hollywood), per cui anche un colosso produttivo della tradizionale golden age hollywoodiana come la Warner Brothers, dopo aver già finanziato l’epocale 2001: Odissea nello spazio, è nuovamente disposto ad investire (2,2 milioni di dollari Usa, un basso budget anche per i tempi) sul nuovo progetto di un talento massimalista, accentratore e irregolare come Kubrick, autore-demiurgo non condizionabile (ha il veto su tutte le fasi del processo di realizzazione, dal soggetto alla promozione del film). Il resto, come si suol dire, è Storia, e non solo del Cinema: l’impatto e lo shock imposti da Arancia meccanica, le sue forme stilistiche e le sue figure sinistre, sono penetrati tanto a fondo nell’immaginario da far ormai parte dell’iconografia visuale e culturale del Novecento. In un modo che lo stesso Kubrick – che nel film conduce proprio una vasta dissezione critica dell’arte e della civiltà delle immagini corrotte in una caricatura da museo del kitsch – aveva forse previsto solo in parte. 

In un perfetto raccordo visivo e concettuale tra film consecutivi, A Clockwork Orange inizia da dove 2001: Odissea nello spazio (1968) terminava: dalla pupilla intermittente dell’astronauta David Bowman sgranata sul caleidoscopio di forme e colori del tunnel spazio-temporale, dall’occhio vitreo del gigantesco feto astrale del bambino delle stelle, fluttuante nell’infinità del cosmo, all’occhio liquido e truccato di Alex in primo piano, crudelissimo e inebetito. Dal movimento in avanti con cui Bowman, sul letto di morte, si protendeva verso il monolito nero, alla lenta processione rituale dello zoom all’indietro di Arancia Meccanica: il caratteristico pullback motion della geometrica regia kubrickiana, che dal volto truce di Alex allarga progressivamente il quadro, arretrando lungo l’allucinato corridoio del Korova Milk Bar (a suo modo, come è stato notato da Flavio de Bernardinis nel suo volume L’immagine secondo Kubrick, uno spazio a forma di parallelepipedo che è esso stesso un rettangolare set-monolito, contenente le stordite figure del locale). Un incipit che trasmette a pelle una cupezza inquietante e un disagio alienato, suggellato dagli echi funerei della Marcia di Purcell rivisitata dalle distorsioni al sintetizzatore di Wendy Carlos. Con cui Kubrick sembra immediatamente sconfessare, in termini visivi, la parabola evolutiva e ascensionale del superuomo di 2001, di cui Alex costituisce la versione nichilista e al nero, in un doppio movimento: il viaggiatore degli universi kubrickiani, dopo aver percorso in avanti la galleria di luci “oltre l’infinito” (Bowman), verso dimensioni e conoscenze superiori, diretto al neo-illuminismo della stanza settecentesca, regredisce improvvisamente – ecco il senso del backzoom – nell’oscura anticamera (mortuaria) del Korova Milk Bar, in un delirio pop di artefatti, arredi e feticci pacchiani. In cui tornano ad abitare e dominare le pulsioni drogate e (auto)distruttive, gli istinti bestiali e di brutale sopraffazione delle scimmie di 2001, evolute nel ghignante branco di Drughi che si predispongono all’esercizio dell’ultraviolenza. In modo più stupido, osceno, immotivato e antisociale (i primati, almeno, usavano la forza per la sopravvivenza del gruppo), facendo così emergere il radicale pessimismo cosmico kubrickiano sull’individuo, un homo homini lupus in preda a sorti tutt’altro che magnifiche e progressive. 

Arancia Meccanica mostra a questo punto l’azione della subdola e onnipresente macchina del potere politico – incarnata dal gelido e affettato Ministro degli Interni, vero, vincente deus ex machina della narrazione, più dello stesso Alex, ridotto a pedina di un meccanismo implacabile – nel mettere in scacco la spinta ribelle dell’individuo senza alcuna legge (A – lex), che risponde solo all’impeto del desiderio irrazionale. Incanalando la sua selvaggia e dionisiaca energia eversiva nelle maglie del Sistema, al servizio della violenza legale e ugualmente oppressiva perpetrata dalle istituzioni.

Uno scontro di filosofie e forze contrapposte che il modernista Kubrick, guardando alle infrazioni estetiche e stilistiche della nouvelle vague e agli sperimentalismi formali delle avanguardie storiche e pittoriche, mette in campo facendo stridere materiali audiovisivi disparati e procedimenti filmici a contrasto. Ricoprendo il mesto e abbruttito panorama di una grigissima Londra, appena futuribile, in un’invasione di cromatismi squillanti e indigesta arte ultrapop (ributtante come i Gelati da passeggio di morbido pelo di Claes Oldenburg), che non riesce a nascondere lo squallido deteriorarsi di una società ridotta a una spazzatura di detriti e derelitti urbani (e umani), graffiti osceni, pupazzi imparruccati e ridicoli oggetti-feticcio. Kubrick accumula con audacia rivoluzionaria distorte sinestesie percettive che producono impreviste inversioni di senso, in sconvolgenti accostamenti tra immagini e suono impensabili per il cinema narrativo classico, che da allora fecero scuola per tutte le successive destrutturazioni postmoderne del linguaggio cinematografico: con l’onda lunga dello stupro della signora Alexander a passo di ritornello musical (Singing in the Rain) che arriva fino alle orecchie mozzate dalle Iene di Tarantino, nella danza di Mr. Blonde sulle note radiofoniche di Stuck in the middle with you. Ma l’elenco dei mash-up audiovisivi può proseguire in una sfilata di scene cult che la visione in sala nella nuova versione in 4k (nelle multisale del circuito UCI Cinemas dal 29 novembre al 1° dicembre) non potrà che smaltare alla massima intensità: il coreografico ralenti della rissa tra i Drughi, balletto e opera buffa sulle note della Gazza ladra di Rossini, come nello scontro tra bande rivali dell’inizio, uno slapstick fracassone di finestre rotte, balzi, calci e sganassoni fumettosi (Arancia Meccanica è tra l’altro un acido contenitore di generi e registri diversi schizzati insieme); il vistoso accelerato a effetto comica  nell’orgia di Alex con le due ragazze, sul crescendo rossiniano del Guglielmo Tell in versione electro-synth; l’Inno alla gioia che accompagna la passeggiata ribalda di Alex nel negozio di musica come le parate naziste nelle immagini della cura Ludovico, melodia nietzschianamente al di là del bene e del male; e, su tutte, il celeberrimo quarto movimento della Sinfonia n.9 di Beethoven (il Ludovico Van), che, lungi dal richiamare alla compostezza classica, alle rassicuranti arie celestiali dell’arte ufficiale, diventa la fiammeggiante culla sonora dei miraggi lussuriosi e dei soprusi agognati da Alex coi vampireschi canini alla bocca. 

La tanto criticata violenza – in seguito a pressanti polemiche sui media, Kubrick stesso ritirò il film dalle sale inglesi non molto tempo dopo l’uscita – è in realtà mostrata in modo così fortemente mediato da trucchi e artifici, stilizzata e coreografata, da far scontrare e convivere al tempo stesso l’iperrealismo estremo e chirurgico della rappresentazione (la camera a mano sconnessa e aggressiva che sfalda l’ordine del décor e dei carrelli geometrici nella casa dello scrittore Alexander) e la sua astrazione artistica e onirica nel puro schizzo visivo, nel flash mentale (il montaggio analogico che frammenta l’omicidio fuori campo della signora dei gatti, tra l’inquadratura della smorfia grottesca di terrore della donna e l’urlo lanciato da una serie di bocche dipinte su quadri surrealisti). «È buffo come i colori del vero mondo divengano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo», realizza Alex durante il trattamento Ludovico, sintetizzando al meglio la natura ambivalente e perturbante delle immagini kubrickiane: tra mimesi e finzione, tra angoscia repulsiva e familiarità perversa, trasparenza cristallina e parossistico barocchismo artificiale. Con la luministica di John Alcott che fa un uso sistematico e ambientale della one-source lighting: un’unica, abbagliante fonte luminosa diegetica ad illuminare la scena, tra globi e lampade ad altissimo voltaggio (preludio al lavoro naturalistico in sottrazione messo poi in atto con le candele di Barry Lyndon, 1975). 

Molto dell’impatto delle scene di violenza si deve a un impiego particolare della soggettiva. Mostruose, oblunghe, sghembe, esasperate dalle distorsioni dei grandangoli occlusivi della fotografia, le soggettive di Arancia meccanica sono (ancora) così scomode e disturbanti perché negano la loro premessa teorica fondamentale: l’identificazione emotiva e partecipante dello spettatore, che si muove attivamente nel mondo del film ancorato al punto di vista di uno o più personaggi. Al contrario, Kubrick ne rovescia completamente il senso e utilizza la soggettiva come mezzo stilistico della passività indifesa e vulnerabile: lo spettatore è sistematicamente narcotizzato, schiacciato e paralizzato nel ruolo della vittima inerme, atterrita, immobilizzata e impotente di fronte allo spettacolo della violenza che gli viene scagliata addosso. In uno stato di intontimento e di inazione psico-fisica che obbliga chi guarda, frontalmente esposto alle immagini senza difese, a sperimentare, nella visione del film, la stessa subdola cura Ludovico somministrata ad Alex. Sia nei momenti in cui è Alex a esercitare i soprusi (gli agghiaccianti point of view dal basso nelle riprese dello scrittore Alexander costretto a guardare lo stupro della moglie, della signora dei gatti che sta per essere colpita dalla scultura fallica, del drugo Dim gettato nell’acqua, davanti al quale Alex incombe minacciosamente saltellando con il bastone), sia quando è lo stesso Alex a vederseli ritorti contro (nella cella della prigione dopo l’arresto, ostaggio degli sguardi sdegnosi degli agenti di polizia e del viscido Mr. Deltoid, e sul palco del teatrino dimostrativo, con il manesco provocatore e la donna a seni nudi che lo umiliano senza che possa più reagire). Kubrick lavora lo spettatore anzitutto al di qua dello schermo: nell’urto e nel disagio che ci fa provare nel trovarci costretti in una posizione di debolezza, su una specie di sedia della tortura che da cinquant’anni ci tiene avvinti coi suoi malsani legacci, tra amorale adesione emotiva e asettico distacco. “Nel 1971 fu uno shock, oggi è ancora un salutare pugno nello stomaco”, recita la scheda del film nel dizionario Mereghetti. Non ci resta che tornare in sala per farci rapire ancora una volta dalla potente sinfonia del cinebrivido kubrickiano.  

Il film verrà proiettato, in una nuova versione 4k, nelle multisale del circuito UCI Cinemas dal 29 novembre al 1° dicembre 2021. Potete trovare l’elenco delle sale qui.