Siamo in missione per conto di Dio!
Questa volta, nella notte del 3 luglio 2022, la missione è stata quella di chiudere la 36a edizione del Cinema Ritrovato. Un’edizione di (ri)scoperte, restauri, grandi classici, aperta il 25 giugno dall’inno alla pace de Il Grande Dittatore e che non poteva non concludersi con un inno alla musica, alla comicità esplosiva, un inno alla vita: The Blues Brothers – I fratelli Blues.
E’ stato lo stesso regista John Landis, ospite d’onore del festival, a introdurre il film con la sua solita verve comica e dissacrante di fronte alle migliaia di persone che hanno affollato Piazza Maggiore, a cui ha riservato praticamente un sipario di stand up comedy di trenta minuti. Quando si dice che le vere opere autoriali rispecchiano la personalità dell’autore…
Unico per i tempi comici, irripetibile per la chimica fra gli attori, irraggiungibile per il carisma recitativo che si tramuta in irriverente imperturbabilità attoriale, inimitato e inimitabile. Anzi, in realtà è stato lo stesso Landis a tentare una replica con il sequel del 1998, Blues Brothers – Il mito continua, dove si è provata la sostituzione del compianto John Belushi con l’ottimo John Goodman, pur non riuscendo neanche lontanamente ad avvicinarsi al successo e all’iconicità del primo capitolo.
Cos’è che rende ancora oggi The Blues Brothers il capolavoro cult che (quasi) nessuno capì all’epoca? Non deve sorprendere infatti che alla sua uscita, nel 1980, il film fu quasi unanimemente affossato dalla critica oltreoceano: Los Angeles Times, Washington Post e Variety distrussero il film definendolo chi un “disastro”, chi un “imbecille stramberia” e chi un film “dall’humor elementare e dal divertimento momentaneo”. Era lo stesso anno in cui falliva il capolavoro I cancelli del cielo di Michael Cimino che, oltre al danno, ebbe anche la (enorme) beffa: se il film di Landis poteva almeno vantare degli incassi in positivo (147 milioni contando anche il mercato home video, su un budget di 27,5), Cimino (al netto dell’inflazione) si trovò davanti a una perdita 135 milioni di dollari, portando anche al fallimento della storica casa di produzione United Artists e alla stroncatura della sua carriera.
Con i suoi soliti toni fuori dagli schemi, pochi giorni prima della proiezione in Piazza Maggiore Landis ha raccontato al pubblico dell’Arena del Sole di Bologna un aneddoto sul flop dei Fratelli Blues: Belushi lesse la recensione del New York Times da parte di un’importante critica cinematografica del tempo che definiva il film una “saga presuntuosa”. Non esitò a chiamare subito Landis per chiedergli “John, per caso ti sei scopato quella tipa?”: il perfetto manuale su come affrontare con sarcasmo demenziale l’insuccesso di un lavoro tanto sentito. Il regista e gli attori erano davvero come li vediamo sul grande schermo. Certo, sempre con i loro difetti e le loro disavventure personali: è passata ormai alla storia la dipendenza da cocaina di Belushi che portò non pochi problemi sul set. Sempre all’Arena del Sole, Landis ha citato un episodio di totale incoscienza dell’attore, rimasto chiuso a chiave nella sua stanza d’appartamento. Fu lo stesso regista a sfondare la porta e a portarlo all’ospedale perché i soccorsi tardavano ad arrivare, ma la mattina seguente Belushi era già sul set. Tuttavia, come affermato da Landis sul palco di Piazza Maggiore “il John che vediamo nel film era un John al 50%… chissà cosa sarebbe riuscito a tirare fuori se fosse stato al 100% delle sue potenzialità”. Belushi morì appena due anni dopo, il 5 marzo 1982.
Nonostante tutto, oltre ai suoi travagli produttivi (aggiungiamoci anche il budget iniziale sforato di 10 milioni di dollari per via dei continui ritardi delle riprese), non ricordiamo The Blues Brothers soltanto come uno dei classici casi di film incompresi – il cui ingiustificato flop di critica funge oggi da cassa di risonanza -, ma per il suo essere un esperimento mediale che assume i caratteri di un vero e proprio spettacolo musicale. Non sottovalutiamo la sua valenza politica e culturale, in un’America che non colse minimamente il monito di Landis sui prodromi del governo Reagan, aggiudicatosi la vittoria alle elezioni dell’anno seguente: la cornice-celebrazione della black music a suon di rhythm’n’blues (James Brown, Aretha Franklin, Ray Charles, Cab Calloway e John Lee Hooker), fa da contorno al tripudio di detonante comicità anticonformista (e slapstick, sulla scia di Buster Keaton) unita a un’azione spettacolare e irrefrenabile (nella sequenza d’assedio al Daley Center furono disposti 100 agenti della polizia e 200 uomini della Guardia Nazionale su 50 volanti, decine di cavalli, 3 carri armati, 3 elicotteri e 3 autopompe).
Il capolavoro di John Landis è una bomba audiovisiva la cui onda d’urto si propaga ancora a distanza di 42 anni e che, quando avvertita, non può non farci alzare in piedi per ballare e cantare a squarciagola l’indimenticabile colonna sonora – nel 2004 dichiarata dalla BBC come la più bella della storia del cinema -, proprio come ha fatto tutta Piazza Maggiore nella scatenata serata del 3 luglio 2022, nella chiusura del festival cinefilo bolognese simulacro di un patrimonio culturale nazionale da valorizzare e custodire gelosamente.
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