Oggi, nell’ambito del nostro speciale dedicato al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, vogliamo parlarvi di un film del 1930 che possiamo definire, senza timore di smentita, storico. Dans la nuit è considerato, infatti, l’ultimo film muto francese. Diretto da Charles Vanel, celeberrimo attore transalpino del cinema muto che prese parte a più di 100 produzioni, la pellicola fu un flop commerciale, arrivando in sala ormai al tramonto dell’epoca del muto, in un periodo in cui gli spettatori chiedevano e desiderano altro; anche per questo, probabilmente, Dans la nuit fu il suo primo e unico lavoro dietro la macchina da presa.

Di questa pellicola si erano quasi perse le tracce, ma – ancora una volta – grazie al preziosissimo lavoro di restauro siamo riusciti ad ammirarlo in tutto il suo splendore sul grande schermo, nella bellissima cornice di Piazza Maggiore a Bologna. Il film, che narra le vicende di un uomo il cui volto viene sfigurato a causa di un incidente in miniera, presenta numerosi elementi innovativi per l’epoca. Innanzitutto, nonostante si stia parlando di una pellicola muta, le didascalie sono qui ridotte quasi a zero: Vanel decide di narrare la storia quasi esclusivamente per immagini, facendosi aiutare da brevissime didascalie che segnano lo scorrere del tempo.

Da un punto di vista tecnico, Vanel dimostra di essere stato un regista (o meglio, un potenziale regista) a dir poco talentuoso. La macchina da presa segue i personaggi ma, allo stesso tempo, si concentra su dettagli apparentemente insignificanti. Le inquadrature coinvolgono lo spettatore grazie ad un uso sapiente e moderno della macchina da presa: tra tutte non possiamo non citare la scena dell’altalena, di una complessità e bellezza rara per quegli anni. In generale bisogna notare come la regia godesse di maggiore libertà di movimento. Non da meno è la fotografia, grazie alla quale la mise en scene raggiunge un livello artistico altissimo, creando quelli che potrebbero essere considerati dei veri e propri quadri che brillano grazie all’utilizzo narrativo che viene fatto delle ombre e ad una profondità di campo innovativa. Infine, bisogna notare come il montaggio serrato che alterna inquadrature medie con primi e primissimi piani di dettagli sia dei personaggi (nella prima parte troviamo tantissime comparse oltre ai protagonisti) sia anche sugli oggetti in scena (le sequenze ambientate all’interno della casa, ad esempio) riesca a convogliare l’attenzione dello spettatore sull’azione, rendendola più dinamica e avvincente. 

Altro elemento considerevole è la varietà di stili e generi cinematografici presenti nell’opera (che dura soltanto 90 minuti). Si passa da una pellicola all’apparenza leggera e permeata da uno stucchevole romanticismo ad un thriller dalle tinte horror permeato di drammaticità. Nonostante lo spettatore possa sentirsi in prima battuta confuso da questo cambiamento, a parere di chi scrive il passaggio da un genere all’altro risulta particolarmente riuscito, dimostrando come questo autore/attore avrebbe, forse, potuto dare molto al cinema anche da regista. Il passaggio dalla leggerezza al dramma, in particolare, viene palesata dal modo in cui avviene il punto di svolta del racconto, ovvero il crollo in miniera. Grazie ad un uso intelligente del montaggio alternato vediamo, infatti, il protagonista lavorare all’interno della cava e i lavoratori inserite la dinamite e, lì vicino, un gruppo di ragazzini che per puro gioco soffiano all’interno di un corno dando involontariamente il segnale per il via libera all’esplosione. Dunque da un gioco innocente e spensierato è causa di un evento drammatico.

Siamo di fronte ad un’opera che è a tutti gli effetti un Dramma operaio -e quindi sociale- ma anche un viaggio nella psiche dei due coniugi. L’esplosione, dovuta all’azione di bambini e quindi essenzialmente al caso e al fato, sconvolge le vite dei nostri, portandoli alla depressione e ad una pazzia che crea disperazione.

Purtroppo il film presenta un finale che, se non mette in discussione tutto quello che avevamo visto in precedenza, poco ci manca. È forse consolatorio sapere che fu la produzione ad imporre il lieto fine, che infatti cozza evidentemente con la poetica imposta dal regista.

Un’altra perla riscoperta e riportata alla luce grazie al restauro e al lavoro sempre attento della Cineteca di Bologna, che ha visto 4000 persone godere della visione sul grande schermo, una visione che poche altre persone al mondo possono dire di aver fatto.

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Rosario Azzaro, Direttore editoriale