Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? è un famosissimo quadro che Paul Gaguin dipinse nel 1897 come testamento spirituale, assegnandogli come titolo quelli che sono i quesiti fondamentali dell’umanità. All’interno di un paradiso naturale fantastico e idealizzato vi sono dodici figure umane che incarnano il ciclo della vita, dall’innocente bambino che dorme sereno alla vecchia che si stringe il volto tra le mani, passando per chi coglie e consuma il frutto della vita e per molti altri elementi che, tutti insieme, provocano un senso di confusione mistica.

Questa composizione appare perfetta per descrivere non solo l’opera del pittore simbolista Paul Gaugin, ma anche per la filmografia di Alfonso Cuarón, cineasta tra i più celebrati del 21esimo secolo nonché primo messicano della storia ad aggiudicarsi l’Oscar alla miglior regia. Dagli studi in cinema e filosofia compiuti (e mai terminati) presso l’Università del Messico alla vittoria di due premi Oscar per Roma, Cuarón ha affrontato diversi generi cinematografici, sperimentando ogni volta sul piano della regia e non solo (spesso firma anche fotografia, montaggio e sceneggiature dei suoi film), mantenendo sempre una cifra riconoscibile e un ventaglio di tematiche profonde e filosofiche.

Da dove veniamo?

Caratteristica ricorrente sopratutto nei primi film di Alfonso Cuarón è la storia di formazione, raccontata secondo diversi filtri: con l’occhio della favola letteraria in La piccola principessa (1995) e Paradiso perduto (1998), e con inedita attenzione per la sessualità in Y tu mamá también – Anche tua madre (2001), che fu il primo film di Cuarón a ricevere un’importante gradimento critico al punto da garantirgli l’ingaggio per la regia di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004). Proprio il terzo adattamento tratto dai libri di J.K. Rowling è oggi considerato il migliore della saga da molti fan, soprattutto perché in grado di catturare l’essenza dei romanzi e trattare l’adolescenza dei protagonisti.

Direttamente collegato al tema della formazione vi è quello del rapporto tra genitori e figli, anch’esso centrale (seppur talvolta fuori campo) in tutta la filmografia del regista, persino nel delizioso Parc Monceau, episodio all’interno del film corale Paris, je t’aime (2005). In qualche modo sono tutti figli separati dai genitori (o genitori separati dai figli) i protagonisti di La piccola principessa il cui padre viene creduto morto, l’orfano Harry Potter, la Sandra Bullock di Gravity (2013) che ha perso la figlia in un incidente o la protagonista di Roma (2018) che la perde per un aborto spontaneo. È I figli degli uomini (2006), però, che porta all’estremo questo concetto, mostrando un’umanità al capolinea che ha definitivamente perso la possibilità di procreare nuova vita.

«Molto strano quello che succede in un mondo senza voci di bambini.»

Chi siamo?

Da regista messicano che ha raccontato le proprie origini in Roma, Alfonso Cuarón cerca di dirci che siamo una società plurale spaccata da numerosi conflitti interni, in primis tra le classi sociali privilegiate e quelle subalterne. Esistono lotte per il dominio delle risorse come in I figli degli uomini, ma anche semplicemente tra due amici per la stessa donna come in Y tu mamá también. Apparentemente il conflitto non può essere sanato ma soltanto accettato per riscrivere le regole dei miti e dei generi, che dipingono lo spazio come luogo non più di conquista ma di riflessione metafisica (Gravity), il futuro – anche distopico – non è quello visionario della classica fantascienza (Cuarón chiese al reparto scenografie di pensare a I figli degli uomini come l’anti-Blade Runner), e anche un luogo magico come Hogwarts può diventare terrificante (Il prigioniero di Azkaban).

In tutto questo l’approccio di Cuarón non è di giudizio, ma di accettazione documentaristica: vengono selezionati piccoli mondi circoscritti ed esigui nuclei di personaggi, che diventano esemplari per tutta l’umanità. Nonostante il nichilismo evidente soprattutto in I figli degli uomini, è probabile che Cuarón creda nell’ideale di unione fraterna di questa pluralità: il cineasta è infatti uno dei più grandi sostenitori dell’esperanto, e per questo ha chiamato la sua casa di produzione Esperanto Filmoj.

La volontà di trattare con (costruita) naturalezza anche i conflitti più caotici ci porta al tratto estetico più famoso di Cuarón, il long take. Il regista ha fatto uso estensivo di questa tecnica a partire da Paradiso perduto e a seguire con tutti i film successivi, anche nell’episodio Parc Monceau di Paris, je t’aime, che si configura come un tracking shot di cinque minuti di due persone che camminano per strada. Soprattutto da Il prigioniero di Azkaban in poi la CGI è spesso venuta in aiuto per girare piani sequenza complicatissimi come quelli di I figli degli uomini, celebrati dalla critica per la loro naturalezza documentaristica.

Dove andiamo?

In quasi tutti i film di Alfonso Cuarón il punto d’arrivo è l’acqua, come avesse il potere di purificare – o perlomeno placare – i conflitti che hanno messo in moto le narrazioni: così abbiamo le scene della spiaggia in cui si separano i protagonisti di Y tu mamá también e quella in cui si abbracciano i personaggi di Roma, il ritorno della serenità per Harry Potter e la speranza per il domani in I figli degli uomini.

Per I figli degli uomini, ma ancora di più per Gravity, l’acqua è il punto di partenza per una nuova vita, una rinascita di tutto il genere umano. Dopo un’infinita serie di peregrinazioni spaziali, infatti, il personaggio di Sandra Bullock è in grado di rientrare sulla Terra, ammarando in acque che paiono primitive; si libera della tuta e con fatica raggiunge la terraferma, da cui si eleva in una scena che rievoca l’origine della vita terrestre. Circa a metà del film, invece, la si era vista fluttuare senza gravità ricreando la forma di un feto umano, a simboleggiare lo stato embrionale che la caratterizzava prima della rinascita. Il cinema di Cuarón è anche questo, riportare l’umanità all’origine della propria esistenza, in un continuo ciclo vitale.

Il cinema di Alfonso Cuarón

«Escono dagli appartamenti russi, e lo shot successivo è questa donna che si lamenta tenendo il corpo di suo figlio tra le braccia. Questo era un riferimento a una vera fotografia di una donna che piangeva tenendo il cadavere di suo figlio nei Balcani. È ovvio che quando il fotografo scattò quella fotografia stava facendo riferimento a La Pietà, la scultura di Michelangelo con Maria che tiene il cadavere di Gesù tra le braccia. Quindi: abbiamo un riferimento a qualcosa che è realmente accaduto nei Balcani, che è esso stesso un riferimento alla scultura di Michelangelo. Allo stesso tempo, usiamo la scultura del David all’inizio, che è anch’essa di Michelangelo, e abbiamo ovviamente tutto il riferimento alla Natività. E così tutto era riferimenti e riferimenti incrociati, il più possibile.»

— Alfonso Cuarón a proposito di I figli degli uomini

I figli degli uomini è senza dubbio l’opera più stratificata di Cuarón, e basta questa citazione per dimostrarlo. Sono parecchi per esempio i riferimenti al concetto cristiano della Natività: uscito a Natale negli Stati Uniti, il film ha spinto i critici ad accostare i personaggi di Theo e Kee a Giuseppe e Maria, con una gravidanza misteriosa e rivelata in un fienile (alludendo alla mangiatoia del presepe); inoltre, quando gli altri scoprono Kee e il suo bambino fanno il segno della croce, increduli davanti al miracolo della vita cui stanno assistendo.

L’ultimo fondamentale elemento del cinema di Cuarón è il modo in cui il cineasta ri-media le immagini, soprattutto in I figli degli uomini. Questo vale per La Pietà di Michelangelo, ma anche per un’altra discreta quantità di shot del film, tra cui il riferimento finale a Impressione, levar del sole di Claude Monet e quello a La nascita di Venere di Sandro Botticelli quando Theo scopre la gravidanza di Kee. Il ruolo dell’arte come simbolo della dignità umana è senza dubbio un carattere di I figli degli uomini, con un personaggio che ha salvato dalla distruzione quante più opere possibili tra cui il David di Michelangelo (mentre La Pietà – apprendiamo – è andata perduta in questo mondo). Perciò è importante preservare l’arte, perché è quella che forse ci spiegherà da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo.

«Tra cent’anni non ci sarà più neanche un cazzone triste a guardare questa roba, come fai a continuare?»

«Vuoi sapere come faccio? Molto semplice, non ci penso.»

Enrico Borghesio
Enrico Borghesio,
Redattore.