Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L’animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca.
La camminata clownesca del vagabondo Charlot, il suo bastone da passeggio e i suoi vestiti larghi, i suoi sguardi languidi e ingenui, le sue buffe e molteplici espressioni: sono anche questi gli elementi iconici che hanno consacrato il nome di Charlie Chaplin nel tempo. Il suo contributo artistico è stato immenso al punto da essere ancora considerato una delle più grandi star della storia del cinema, persino dagli spettatori più generalisti e meno impegnati. Ciò non sorprende considerando il panorama cinematografico con cui ci confrontiamo ogni giorno, sempre più simile per fruizione a quello dei primi anni del Novecento. Si tratta, infatti, di un cinema delocalizzato, abituato alla rapidità, alla brevità dei filmati e alla spiccata dimensione attrattiva dei prodotti multimediali. Al giorno d’oggi, la fruizione del grande pubblico è decisamente più interessata all’evasione che alla riflessione. Un tipo di visione che per certi versi sembra avvicinare il cinema odierno a quello delle origini. La cinematografia di Chaplin continua a funzionare proprio per la sua immediatezza, ma anche per le tematiche universali ed eterne che affronta. Tra le principali: la diversità, l’inarrestabile trascorrere del tempo, l’evoluzione delle tecnologie, l’istinto alla sopravvivenza, la pietà umana e la speranza dinanzi alle difficoltà e agli orrori della guerra. Temi messi in scena attraverso gag comiche e situazioni drammatiche che, nella stragrande maggioranza dei casi, terminano con un lieto fine. Quest’ultimo dettaglio valse all’attore l’accusa di buonismo da parte di numerosi critici e colleghi.
Tuttavia, l’universalità del suo cinema è sicuramente una delle tante ragioni per le quali Charlie Chaplin è ancora sulla bocca di tutti dopo più di cento anni e continua ad avvicinare intere generazioni alla sua comicità. Apparentemente molto semplice, la comicità di Charlie Chaplin è in realtà molto complessa, ma non per questo meno universale. Fortemente convinto della superiorità del linguaggio del corpo sulle parole, Chaplin portò avanti un cinema di intrattenimento che fu in grado di reinventarsi negli anni. Dopo i primi film leggeri in seguito attraversò fasi decisamente più impegnate, in particolare dopo l’avvento del sonoro e le esperienze delle due guerre mondiali. Nonostante le numerose comiche nei confronti della società americana e dei nazionalismi, Chaplin non poteva definirsi un rivoluzionario sul piano sociale e politico. Chaplin non voleva sovvertire alcunché che non fosse il cinema. Quella era la sua rivoluzione personale. Un artista che, a differenza di molti della sua generazione, riuscì a sfruttare i cambiamenti storici e i mutevoli gusti del grande pubblico per accrescere e modellare la propria arte.
COME CHARLES SPENCER DIVENNE CHARLIE CHAPLIN
Charles Spencer nacque a Londra il 16 aprile 1889. Come la famiglia di Keaton, anche quella di Chaplin era composta da attori di varietà che lo trascinarono sulla scena sin dalla tenera età.
Nel 1910 la famiglia Spencer emigrò in America, dove solcò i palchi statunitensi fino al 1912. L’anno seguente sarebbe iniziata l’avventura davanti la macchina da presa del giovane Charlie grazie alla figura di Mack Sennet, che abbiamo già incontrato nell’articolo precedente su Buster Keaton. Charlie venne assunto per soppiantare Ford Sterling, un attore comico che aveva minacciato di lasciare Sennet e il suo pessimo carattere. Questa esperienza fu fondamentale per Chaplin e gli consentì, in poco tempo, di farsi un nome all’interno dei Keystone Studios e della scena slapstick. L’anno successivo il personaggio iconico Charlot prese ufficialmente vita. Chaplin più volte ha affermato di aver assemblato il proprio costume scegliendo indumenti a caso nel guardaroba dello studio. Già nella comica Kid auto races at Venice del 1914, Chaplin compare in campo indossando l’iconico costume da tramp (trd. vagabondo) composto da scarpe larghe, pantaloni ampi, giacca e panciotto sgualciti e di seconda mano, bombetta, baffi e bastone da passeggio. Un personaggio che, nonostante la povertà cui è costretto, non vuole mai rinunciare all’eleganza, ma soprattutto alla dignità. Charlot, tuttavia, non si atteggia a gentiluomo, ma lo è per natura. Per tale ragione, non esita mai a prodigarsi per l’altro o a disprezzare le ingiustizie, al punto da risultare spesso impertinente nei confronti delle autorità. Come scrisse l’attore nelle sue memorie:
[Charlot è] un vagabondo, un gentiluomo, un sognatore, un poeta, un solitario in cerca d’affetto d’amore e di avventure, capace anche di raccogliere le cicche delle sigarette dal marciapiede, di rubare le caramelle a un bambino in culla e all’occorrenza di sferrare calci nel sedere a una signora chic.
Un clown buffo e al tempo stesso una maschera tragica. Humor e commozione. In questa dicotomia risiede la forza immortale di questo personaggio e la formula comica del suo cinema. A tal proposito, Chaplin raccontò:
Mi è rimasto in mente un incidente. In fondo alla via c’era un macello, e davanti a casa nostra passavano le pecore ivi destinate. Ricordo che ne scappò una, e corse giù per la strada tra le risa degli astanti. Alcuni tentarono di acciuffarla, altri inciamparono e caddero per terra. Mi ero divertito un mondo alle capriole dell’animale, tanto sembrava comico il suo panico. Ma quando esso fu catturato e ricondotto al macello, compresi tutta la realtà della tragedia e corsi a casa da mia madre strillando e piangendo: «L’ammazzano! L’ammazzano!». Per parecchi giorni non riuscii a dimenticare la buffa caccia di quel rigido pomeriggio di primavera; e mi domando se non fu proprio quell’episodio a creare la premessa delle mie future opere cinematografiche: la combinazione di tragico e di comico.
Charlot è un reietto che vive ai margini della società e che, per questo, non conosce la cattiveria né l’egoismo e non pratica mai l’ingiustizia; al contrario è lui stesso ad essere oggetto di derisione in virtù della sua purezza, della sua umanità e della sua ingenuità infantile. Accanto a ciò, il vagabondo sa essere anche molto astuto e testardo. Nonostante le numerose disgrazie, Charlot non si butta mai giù di morale riuscendo sempre, in un modo o nell’altro, a cavarsela o a vedere il bicchiere mezzo pieno, e mai mezzo vuoto. La forza di questo personaggio risiede proprio nella sua semplicità, ma anche nell’espressività e nei frenetici numeri acrobatici in cui è spesso coinvolto involontariamente. Ad ogni modo, Charlot è molto diverso dal personaggio di Buster Keaton. Se da un lato c’è un volto impassibile, scultoreo e un corpo di gomma, dall’altro vi è un tramp estremamente espressivo, impacciato e dallo sguardo dolce. Charlot, inoltre, si rapporta ai sentimenti in modo decisamente diverso da Buster: il vagabondo, pur essendo preda della timidezza e della goffaggine, appare decisamente più tenace dinanzi alle situazioni al punto che molto spesso si butta alla cieca affidandosi alla propria pancia. E’ un personaggio indiscutibilmente più istintivo che, anche in seguito all’affermazione del sonoro, continuerà ad esprimersi e a comunicare principalmente attraverso il proprio corpo, i propri occhi e raramente attraverso la propria voce.
L’UNIVERSALITÀ DEL LINGUAGGIO DEL CORPO
Quando si parla di slapstick comedy non si può che far riferimento al corpo, strumento privilegiato dai performers nelle loro gag fisiche. Il corpo degli attori slapstick pareva fatto di gomma: l’avrebbero potuto sottoporre a qualsiasi vessazione fisica, ma sarebbe sempre tornato come prima. In questo sta la comicità delle gag e del genere stesso.
Con l’avvento del sonoro molti attori del muto furono messi da parte dal momento che, apparentemente, il corpo sembrava aver lasciato posto alla parola. A differenza di Keaton o della Swanson, Charlie Chaplin e il suo cinema furono in grado di sopravvivere all’avvento della parola sul grande schermo; eppure, Chaplin sarà uno dei grandi sostenitori della superiorità del linguaggio fisico su quello verbale. Il corpo del suo Charlot era in grado di parlare senza emettere alcun suono giacché il corpo è di per sé uno straordinario strumento di comunicazione in grado di attraversare barriere culturali e linguistiche nazionali.
Dall’avvento del sonoro, non riuscivo a fare progetti per il futuro. […] Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La cosa era inconcepibile, perché la prima parola che avesse pronunciato lo avrebbe trasformato in un’altra persona.
Il cinema muto è universale poiché in grado di parlare allo spettatore attraverso un linguaggio interiore, implementato grazie ai movimenti dell’attore e al silenzio. Il gesto degli attori e la loro espressività scandivano la narrazione, davano voce ad essa accompagnando il pubblico nella costruzione di questo dialogo interiore. Per queste e molte altre ragioni, Chaplin valorizzò il corpo a discapito della voce, anche negli anni successivi al periodo del muto.
Nei primi anni di diffusione, il rapporto con il sonoro fu particolarmente problematico tanto per le professionalità interne quanto per i teorici del cinema. Vi erano due problematiche di fondo, una esclusivamente pratica e una più filosofica. Nel primo caso questa importante novità trascinò dietro di sé una serie di problematiche inerenti all’aspetto tecnico della registrazione, che doveva fare i conti con la rumorosità del set, un luogo brulicante di professionalità, caotico e tutt’altro che silenzioso; nel secondo caso, invece, è necessario riflettere sul dibattito che si sviluppò in quegli anni, al quale presero parte registi e teorici di tutto il mondo, come Sergej Ejzenštejn, Pudovkin, Boris Ejchenbaum e lo stesso Charlie Chaplin. Vi furono alcune posizioni estremamente contrarie al sonoro e alle possibilità offerte da questa innovazione tecnologica. Tra le tante teorie ricordiamo quella di Rudolf Arnheim. Nel saggio Nuovo Laocoonte il filosofo tracciò alcuni tratti specifici e immutabili che definiscono la natura del medium cinematografico. Alcune di queste caratteristiche: la rappresentazione bidimensionale di oggetti e spazi tridimensionali; l’assenza di suono e di colore; la composizione di forme visive all’interno dell’inquadratura; la frammentazione degli spazi e dei tempi e il loro assemblamento attraverso il montaggio; infine, la necessità di tradurre le sensazioni non visive e sensoriali attraverso le immagini. Questi fattori differenzianti distinguono nettamente il cinema muto dagli altri media, tra i quali la radio. Se il cinema muto è tale proprio in virtù del suo esprimersi attraverso le immagini in movimento, la radio, invece, opera attraverso i suoni senza ricorrere alle immagini. Secondo il filosofo, pertanto, i due media non dovrebbero mai contaminarsi a vicenda poiché impegnati su due campi totalmente diversi che designano la loro individuale specificità. Da qui il rifiuto da parte di Arnheim di tutte le possibili evoluzioni tecnologiche in campo cinematografico come il sonoro, il colore e la stereoscopia.
Alla posizione di Arnheim si affianca quella di Chaplin, che diede voce alla paura diffusa secondo la quale il sonoro avrebbe finito per assoggettare a sé tutte le altre componenti espressive riducendo l’autonomia del gesto e del movimento, considerate da Chaplin le peculiarità del cinema. In aggiunta a ciò, vi era il rischio che il parlato potesse ricondurre i film ad un maggiore realismo allontanandoli dalla loro dimensione artistica e prettamente cinematografica. Per molti, tra i quali lo stesso Arnheim, il cinema era tale in virtù della sua distanza e differenza dalla realtà.
TEMPI MODERNI: LA VOCE CHE NON PARLA
Nonostante il dibattito acceso, il cinema di Charlie Chaplin si aprì al suono in modo del tutto inedito. In un primo momento, l’attore seppe sfruttare il sonoro per svelare al pubblico l’inconsistenza della parola e la sua inferiorità espressiva rispetto al movimento e al linguaggio del corpo. Modern Times (Tempi moderni, 1936) è un esempio lampante di quanto al cinema siano le immagini a parlare, non le parole. Celeberrima è la gag in cui Charlot viene assorbito e integrato negli ingranaggi della macchina da fabbrica, una delle scene più iconiche e replicate della storia del cinema. La pellicola fu rivoluzionaria sotto molti punti di vista. Se da un lato pone l’accento sulla tematica del lavoro alienante e spersonalizzante nelle fabbriche dei primi del Novecento con l’avvento della catena di montaggio, dall’altro non si può definire un vero film sonoro, quanto piuttosto un esperimento semi-sonorizzato. Gli unici suoni che sentiamo provengono, infatti, da altoparlanti o da altri dispositivi tecnologici e meccanici. Sono parole metalliche, private di umanità e a pronunciarle non è mai Charlot. Tuttavia, accanto a questi suoni, vi è anche la celebre Nonsense Song o Titine che il 5 febbraio 1936 sconvolse gli spettatori del Rivoli Theater di New York. Fu, infatti, la prima volta che il pubblico poté ascoltare e conoscere la voce di Charlie Chaplin. Attraverso questo brano musicale Chaplin sfrutta il sonoro per criticarlo malinconicamente e dimostrare che non sono le parole a dar senso alla canzone, ma l’atteggiamento che Charlot ha nel cantarla e la sua gestualità, il cui fulcro risiede nelle mani, nei piedi e nei suoi occhi. Tipico di Chaplin, che farà del suo sguardo trasognato e dolce la sua cifra stilistica.
Se bella giu satore | je notre so cafore | je notre si cavore | je la tu la ti la twah. || La spinash o la bouchon | cigaretto portobello | si rakish spaghaletto | ti la tu la ti la twah. || Senora pilasina | voulez-vous le taximeter? | Le zionta su la seata | tu la tu la tu la wa. || Sa montia si n’amora | la sontia so gravora | la zontcha con sora | je la possa ti la twah. || Je notre so lamina | je notre so cosina | je le se tro savita | je la tossa vi la twah. || Se motra so la sonta | chi vossa l’otra volta | li zoscha si catota | tra la la la la la la
Le parole della Nonsense song sono inventate col pretesto narrativo dell’improvvisazione di chi non ricorda il testo di una canzone. Le frasi sono, infatti, costruite sulla base di assonanze e allusioni con alcune espressioni provenienti da lingue diverse, tra le quali l’italiano, il francese e lo spagnolo. L’unione di questi termini fittizi dà vita ad una lingua universale, improvvisata, inesistente e incarnata, dove sono i gesti a dare significato alle parole e non viceversa. Con questa scena Chaplin volle, infatti, dimostrare che le parole non sono necessarie alla comunicazione quando il nostro corpo è già di per sé uno mezzo d’espressione straordinario e universale. Tutto questo discorso potrebbe essere riassunto attraverso le parole silenti in didascalia e provenienti dalle labbra della protagonista di Modern Times nel tentativo di rassicurare il confuso e spaventato Charlot prima della sua performance sonora nonsense: “Sing! Never mind the words!”.
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